La Scimitarra di Budda/37. Il Pegù

37. Il Pegù

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36. Nella stiva d'una barca 38. I malesi

37.

IL PEGÙ


Prome, o Paai-miù e anche Pye, è situata sulla riva sinistra del fiume, in una bella pianura tagliata da numerosi canali e sparsa di antichi monumenti atterrati, a circa settantacinque leghe dal mare.

Nel 1858 era ancora una città importantissima, abitata da più di quindicimila anime. Era difesa da mura di terra battuta e da palizzate, aveva non pochi palazzi di legno di architettura assai artistica, un vasto serraglio per gli elefanti da guerra, delle fabbriche di carta, dei bei ponti e parecchi cantieri nei quali si varavano dei vascelli di quattrocento e persino cinquecento tonnellate di portata.

Appena Giorgio udì l'àncora cadere nel fiume, ordinò ai compagni di spogliarsi, di legarsi ben bene al collo le vesti, le armi, le munizioni e i pochi viveri che ancora possedevano.

– Animo, compagni – diss'egli, levando l'ultima tavola. – Bisogna trovarsi molto lontani prima che il sole sorga sull'orizzonte.

Sporse il capo attraverso il buco, guardò a destra e a sinistra e tese gli orecchi. A dodici o quindici passi si elevava la riva, ingombra di grandi zattere di legno di tek e di navicelle d'ogni forma e dimensione. Sul ponte della barca e in città regnava il più assoluto silenzio.

– I birmani dormono di già – diss'egli. – Calatevi però pian piano nel fiume. Potrebbe esserci qualche uomo sul legno.

I quattro avventurieri, l'uno dopo l'altro e con grandi precauzioni, si calarono nei neri flutti nuotando vigorosamente. In meno di cinque minuti raggiunsero una gran zattera e di poi la riva.

Si asciugarono alla meglio, indossarono le vesti, cambiarono la carica alle carabine e alle pistole e si misero in marcia prendendo una larga strada tagliata qua e là da ponti di legno e che conduceva ai bastioni orientali. Non c'era anima viva. Tutte le capanne erano ermeticamente chiuse e oscure e il più perfetto silenzio regnava nelle vie laterali e sui canali. Non si vedeva nemmeno una guardia notturna, che però non avrebbe arrestata la marcia degli avventurieri, risoluti, all'occorrenza, a far uso delle armi. A mezzanotte giungevano dinanzi a un gran bastione sulla cui cima stava un soldato appoggiato ad un lunga picca. Visto che non si muoveva, salirono intrepidamente la scarpata, scavalcarono le palizzate e saltarono nel sottostante fossato.

– Tutto va bene – disse il Capitano. – Avanti e a passo rapido.

Dinanzi a loro stendevasi una vasta pianura coperta di rottami, di pagode tronche o sventrate, di piramidi smussate, di enormi animali di pietra, e chiusa a est da una fitta foresta. Due vie si scorgevano: una dirigevasi verso est e l'altra verso sud, costeggiando il fiume. I fuggitivi, dato un ultimo sguardo a Prome, in vicinanza della quale giganteggiava il tempio di Sciok-Santaprà circondato da gran numero di khium, presero la strada del sud, che doveva condurli a Schwedung, marciando rapidamente in fila indiana e colle carabine sotto il braccio. La via era orribile. C'erano di quando in quando affluenti che bisognava attraversare a guado, poi pantani tenacissimi dove il piede scivolava e sprofondava, poi rocce da varcare, poi lembi di foreste così fitte, che era un vero miracolo il non perdersi. Malgrado tanti ostacoli, all'alba giungevano a Schwedung, borgata di tre o quattrocento anime, situata in riva al fiume.

La popolazione della borgata a poco a poco si svegliava. I trafficanti e i facchini uscivano dalle loro abitazioni, dirigendosi sul quai, dinanzi al quale erano ancorate parecchie navicelle. Il Capitano e i suoi compagni si diressero verso il mercato, dove acquistarono, per trenta once d'oro, quattro cavalli peguani, piccoli, vigorosi, pieni di fuoco. Con altrettanto danaro si rifornirono di viveri, di munizioni, di vesti e di coperte. Avevano di già insellati i cavalli, quando un colpo di cannone rimbombò in direzione di Prome. Il Capitano fece un salto.

– Cosa c'è? – domandò l'americano.

– Si sono accorti della nostra fuga – rispose Giorgio. – In sella, amici, in sella e ventre a terra!

I cavalli, vigorosamente sferzati, partirono di gran carriera. Attraversarono come un lampo il borgo e si slanciarono attraverso le pianure dell'est, guadagnando la strada che conduce a Namajek.

I colpi di cannone erano cessati e nessun cavaliere si vedeva trottare verso il borgo che era ormai lontano assai. I cavalli, che pareva avessero le ali ai piedi, eccitati con grida e con scudisciate, divoravano la via rasentando vaste piantagioni di indaco, di cotone, di bambù, di canne da zucchero, foreste di tek, di hapaea dorate e di heretiera robusta. Di tratto in tratto apparivano qua e là delle pagode, dei khium o conventi, delle piccole borgate e assai spesso delle rovine di città, le quali, a giudicare dalla quantità dei materiali, un dì dovevano essere state vastissime. Nelle risaie e nelle piantagioni vedevansi dei contadini, i quali interrompevano i loro lavori per guardare quei quattro cavalieri che galoppavano con crescente velocità. Alle undici del mattino ogni traccia d'abitato era scomparsa. Dinanzi ai fuggiaschi si estendevano grandi pianure coperte di fitte macchie e di erbe altissime dove correvano bufali dallo sguardo feroce, daini e tapiri. Non senza qualche emozione l'americano scorse un elefante occupato a sradicare alcuni alberi.

Alla sera gli avventurieri avevano percorso più che quaranta miglia e si accampavano in mezzo ad una foresta di tek.

– Spero che non verranno a cercarci fin qui – disse l'americano. – Quaranta miglia sono già qualche cosa.

– Sono però sicuro che ci cercano – disse il Capitano. – Il caporale avrà messo in movimento tutte le cannoniere e tutta la cavalleria di Prome.

– Ma cosa avrebbe fatto di noi l'imperatore, se ci avesse avuti in mano?

– Forse dei buffoni.

– Che! Dei buffoni? – urlò lo yankee.

– Avrei voluto vedervi danzare dinanzi al despota, sir James – disse Casimiro ridendo.

– Oh, il briccone! Ma quel brigante di imperatore non mi avrà, almeno per questa volta.

Trascorsero la serata discorrendo della Birmania e dell'imperatore, che si fa anche chiamare «Signore della terra, dell'aria, di tutte le pietre preziose e di tutti gli elefanti». Verso la mezzanotte si coricarono sotto la guardia del piccolo cinese, ma dovettero ben presto rialzarsi per fugare alcune tigri che si erano avvicinate ai cavalli, mandando formidabili miagolii. All'alba si rimettevano in cammino entrando nel Pegù, vasta regione limitata dalla provincia britannica d'Arracan a nord-ovest, dal Mranna o territorio birmano propriamente detto a nord, dalla provincia britannica di Martaban a est, ove ha in parte per confine il fiume Thaleayn, e il mare al sud.

Il Pegù, o Begù, è generalmente piano e frastagliato, specialmente verso il sud, da innumerevoli corsi d'acqua che vanno a scaricarsi nel grande delta dell'Irawaddy. Il suolo è d'una fertilità senza pari. Crescono quasi senza coltivazione ogni sorta di alberi e di piante, ma pochi sono gli abitanti che si dedicano all'agricoltura in causa delle forti tasse imposte dal governo birmano. Una volta il Pegù era stato un potente impero. Aveva fatto tremare tutti i regni che lo circondavano; ma verso il tredicesimo secolo, in causa delle lunghe guerre sostenute contro il Siam, aveva cominciato a decadere. I birmani ne avevano subito approfittato per impadronirsi di Ava e Martaban. Riacquistatele i peguani mercé il valore del loro re Binga-Della, i peguani erano poi tornati a perderle nel 1757, indi avevano perduta la capitale, investita dal birmano Alompra, dopo tre mesi di assedio. Così era finito, e per sempre, l'impero peguano.

Il paese, che in quel momento i cavalieri attraversavano, era piano e ingombro di boschi verso il nord e di immense piantagioni di indaco e di risaie verso il sud. Pochissime erano le capanne, per lo più situate sull'orlo di qualche corso d'acqua. Solo tre o quattro peguani, di statura bassa, più bianchi che bruni, con occhietti furbi, furono visti dal Capitano che trottava dinanzi ai compagni. Verso le dieci i cavalieri fecero una brevissima sosta presso Menglangi, borgata di forse un centinaio di capanne, indi ripartirono dirigendosi verso una catena di colline che costeggiava per qualche tratto il fiume Namojek. Alla una del pomeriggio, non senza difficoltà, attraversavano quel corso d'acqua e sei ore più tardi, dopo aver guadato parecchi fiumicelli, essere passati in mezzo a paludi e a boschi, si arrestavano presso la sponda destra del Bagò-Kiup, precisamente di fronte alla città di Pegù.