La Scimitarra di Budda/35. Saigaing

35. Saigaing

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34. Il Khium-Dogè 36. Nella stiva d'una barca

35.

SAIGAING


Gli avventurieri, in preda alla più viva impazienza, non rimasero molto nella diroccata capanna. Nascoste ancora una volta le carabine, uscirono nella via dirigendosi verso il molo, onde procurarsi una barca e dei nuovi viveri, essendo i vecchi già troppo avariati. Non fu difficile trovare uno di quei battelli birmani scavati nel tronco di un albero, colla prua e la poppa rialzata e scolpita e una specie di tettoia nel mezzo. Con dieci once d'oro ebbero dal proprietario, oltre il battello, una piccola vela, dei remi, una certa quantità di pesce secco, del riso e parecchi fiaschi di eccellente birra. Lasciato il polacco sul molo, il Capitano, l'americano e il cinese si diressero verso la trattoria che era poco distante. C'era molta gente nell'interno, ma il siamese mancava, quantunque mezzodì fosse già battuto.

– Aspetteremo facendo colazione – disse il Capitano.

Vuotarono una gran zuppiera di riso, rosicchiarono delle costolette di babirussa, bevettero alcune bottiglie di vecchio vino di Spagna e accesero la pipa.

Trascorsero parecchie ore senza che il siamese si facesse vedere. Già il Capitano aveva perduto ogni speranza, quando il giovinotto entrò.

– Nulla? – chiese il Capitano correndogli incontro.

– Sperate – disse il siamese. – Mi segue un barcaiolo, il quale vi dirà molte cose.

Non aveva ancora terminato di parlare che il barcaiolo entrava fischiando fra i denti un'allegra arietta.

– Passiamo in quella stanza – disse il siamese, accennandone una che era vuota.

Giorgio fece portare del lau, fece sedere il barcaiolo e chiuse la porta. Dopo aver tracannato alcune tazze, chiese al birmano:

– Sei tu che pretendi di sapere ov'è nascosta la Scimitarra di Budda?

– Sì, milord – rispose il barcaiolo, che parlava rapidamente l'inglese.

– Vuoi guadagnare venti once d'oro?

– Che devo fare? Per venti once dò una coltellata ad un uomo.

– Dirmi ove fu nascosta la Scimitarra. Bevi, e poi parla.

– Ascoltatemi attentamente, milord. Nel 1822, se non erro, il principe Yanytse vendeva la Scimitarra al nostro imperatore per una cifra che si dice enorme. Fino al 1839 posò sulle braccia di Gadma nel Khium-Dogè di Amarapura; poi, non si sa per qual motivo, fu fatta nascondere nella gran piramide dello Scioè-Madù del Pegù.

– Nello Scioè-Madù! – esclamò Giorgio che scattò in piedi come spinto da una molla. – Nello Scioè-Madù, hai detto? L'hai vista tu?

– Sì, milord. L'ho vista e l'ho toccata con queste mani.

Il Capitano, in preda ad una straordinaria emozione, guardò fissamente il birmano. L'americano e il cinese non fiatavano più.

– Narra quanto sai, lo voglio! – disse Giorgio.

– Ero cavaliere del reggimento Cassay – disse il birmano. – Una notte mi vennero a svegliare dicendomi che dovevo scortare la Scimitarra di Budda. Scelsi quattro compagni e mi diressi al molo dove c'era una cannoniera montata da parecchi raham e da parecchi phonghi. Nel mezzo, dentro un'arca, c'era la preziosa arma. Due giorni dopo io sbarcava a Pegù, e la stessa notte, io, con queste mani, aprivo un foro sulla cima della gran piramide e dentro vi muravo la Scimitarra.

– Ma è proprio vero quanto mi narri?

– È vero.

– Giuralo!

– Lo giuro su Gadma, il dio che adoro.

– Sai disegnare tu?

– Come tutti i birmani.

– Fammi uno schizzo della piramide e marca il luogo ove fu murata la Scimitarra di Budda.

Il birmano prese la carta e la matita che il Capitano gli porgeva, ma, tracciate poche linee, si arrestò.

– Ma perché volete questo disegno, milord? – chiese egli.

– Per portarlo in Europa – rispose il Capitano.

– Non è già per rubare la Scimitarra di Budda?

– Gli europei non credono a Budda, né saprebbero che farsi di un'arma venerata dai buddisti.

– Avete ragione, milord.

Il barcaiolo, rassicurato, riprese la matita e, con quella precisione e finezza che distingue il popolo birmano, tracciò uno schizzo della gran piramide. Il Capitano glielo strappò di mano. Il suo sguardo si posò su di un cerchietto disegnato sopra la gradinata, nel mezzo di una specie di torre tronca.

– È qui che fu nascosta? – chiese, cercando di padroneggiare l'emozione.

– Sì, dentro quel cerchietto – disse il barcaiolo.

– Partiamo, amici! – esclamò.

Trasse di tasca le venti once e le diede al birmano, mentre l'americano ne faceva scivolare altrettante nella saccoccia del siamese.

– Partiamo, amici! Partiamo! – ripeté.

– Che la fortuna vi sia propizia – gli disse il siamese.

– Grazie, mio bravo amico – rispose il Capitano. – E se un giorno verrai a Canton, chiedi alla colonia danese del capitano Giorgio Ligusa, e ciò che ti occorrerà avrai.

Gli strinsero un'ultima volta la mano e uscirono in furia.

Si slanciarono a passo di corsa per le vie, si arrestarono pochi momenti alla capanna per riprendere le carabine e trottarono al molo sul quale andava e veniva il polacco, rodendosi d'impazienza.

– Ebbene? – chiese questi, precipitandosi verso il Capitano.

– Allo Scioè-Madù, ragazzo, – rispose Giorgio – la Scimitarra di Budda è là!

– Urrah per lo Scioè-Madù! – urlò il marinaio.

Gli avventurieri balzarono nella barca. Il Capitano si sedette a poppa afferrando la barra del timone; l'americano a prua con un lungo rampone; il cinese e Casimiro ai banchi colle pagaie. Due erano le vie che si presentavano: il canale interno che, correndo a levante della città, scaricasi nell'Irawaddy un po' al disotto di Ava, ma ingombro di centinaia e centinaia di barche, e il vero fiume che corre quasi dritto verso Prome, dove dividesi in una grande quantità di canali.

– Meglio il fiume che il canale – disse il Capitano. – Andremo più lesti e saremo più liberi.

Il polacco e il cinese tuffarono le pagaie e la barca, abilmente guidata, filò lentamente verso l'Irawaddy, aprendosi con grande fatica il passo fra la moltitudine di barche, di barconi e di piccoli velieri che salivano o scendevano la corrente. Dopo una buona mezz'ora, la barca entrava nella gran fiumana la quale scendeva con calma maestosa, scorrendo fra due rive lontane un chilometro e più l'una dall'altra.

Quivi poche erano le barche mercantili, ma molte le cannoniere che andavano e venivano, inseguendosi e cercando di abbordarsi. Nulla di più bello di quelle pesantissime imbarcazioni, scavate in un tronco di tek di cento metri di lunghezza, armate di un pezzo di cannone a prua e montate da trenta fucilieri e da sessanta remiganti seminudi.

È incredibile la velocità di quei legni, che, per la loro pesantezza, sono immersi quasi interamente. Guidati da un abilissimo mastro e spinti da sessanta remi, filano come frecce, senza urtarsi e senza deviare di una sola linea. È proverbiale poi il coraggio dei barcaioli birmani. Non c'è mitraglia che li arresti e abbordano i legni nemici con una rapidità e con un'audacia tale da incutere terrore agli equipaggi più agguerriti.

– Possiede un gran numero di quelle cannoniere, la Birmania? – chiese James.

– Molte – rispose Giorgio.

– Avremo un osso duro da rodere, se qualcuno di quei legni verrà ad assalirci allo Scioè-Madù.

– Lo Scioè-Madù non è in riva al fiume.

– Ditemi, Giorgio, credete sia cosa facile assalire la gran piramide?

– Ne dubito. Si dice che attorno alla piramide vi siano molti khium abitati da gran numero di raham.

By-God! – esclamò l'americano, grattandosi la nuca. – Sarà un affare serio per quattro uomini.

– Non sgomentatevi. Ho un bel progetto.

– Qual è?

– A suo tempo ve lo dirò.

– Siete un brav'uomo, Giorgio.

Alle sei di sera il fiume, sino allora quasi deserto, cominciò a popolarsi. Qua e là si vedevano barche, barconi e piccoli bastimenti che salivano ad Amarapura e che caricavano o scaricavano dinanzi ai numerosi villaggi posti sulle rive. Furono pure viste due di quelle magnifiche barche, riservate ai principi del sangue, lunghe quanto una cannoniera, colla prua assai rialzata, un superbo baldacchino di seta e velluto nel mezzo, sculture e dorature in quantità. Lo montavano quaranta remiganti sfarzosamente vestiti e che arrancavano con ammirabile accordo. Alle sette, agli occhi degli avventurieri, illuminati dagli ultimi raggi del sole, apparvero Ava, o meglio Ràtnâpura (Città dei gioielli) sulla riva sinistra, colle sue immense rovine e i suoi grandiosi monumenti, e Saigaing colle sue innumerevoli pagode, sulla riva destra. Centinaia e centinaia di barche andavano da una sponda all'altra, non essendovi fra le due città alcun ponte in causa della larghezza e profondità del fiume e della natura delle rive.

Il Capitano, dopo essersi consigliato col cinese, diresse la barca verso Saigaing, e alle sette e mezza sbarcavano sul molo. Saigaing, Zikkain, Tsigain, o meglio ancora Chagain, è situata ai piedi di un colle, su di una riva scabrosa, ripida, poco approdabile. Un dì, quando era sede degli imperatori, era grandissima e popolarissima; ora conta poche migliaia di abitanti, non molte capanne, grandi rovine e una moltitudine di templi di tutte le grandezze e di tutte le forme.

Dalla parte del fiume ha un muro, che però non è più capace di sostenere un assalto. Al di là vi sono grandiosi giardini, formati per lo più da vecchi tamarindi di grossezza enorme. Saigaing pare sia destinata a riacquistare parte del suo antico splendore, poiché, man mano che Ava decade, la città si popola vieppiù. Non avrà più i 150.000 abitanti di una volta, ma diverrà senza dubbio una grande città e per di più una città assai commerciale, non essendo molto lontana dalle fiorenti fattorie del delta. I viaggiatori, legata la barca al tronco d'un albero e caricatisi di tutte le loro robe, si misero in cerca di una trattoria per cenare e passare la notte al coperto, ma ebbero un bel girare e rigirare!

Nessuna capanna portava l'insegna d'una trattoria e nessun abitante voleva riceverli nella sua abitazione.

Se vollero mangiare furono costretti ad accendere il fuoco ai piedi di un vecchio tamarindo. Alle dieci di sera tornavano sul molo per passare la notte nella loro barca, ma questa, con loro grande sorpresa, era scomparsa.

– Che un altro raham ce l'abbia presa? – chiese lo yankee.

– No – disse il Capitano, che osservava attentamente il pezzo di corda ancora legato attorno all'albero. – La nostra barca faceva acqua, nessuno si occupò di vuotarla, ed è andata a picco.

– Anche questa ci... Eh!...

L'americano si voltò rapidamente e armò la carabina dirigendo la bocca verso sei persone armate di lance e di sciabole, che passavano a trecento metri di distanza, con un passo cadenzato.

– La guardia notturna! – esclamò il piccolo cinese.

– Battiamocela! – disse il Capitano.

– Ma dove? – chiese l'americano.

– Là in quel barcone – disse il polacco.

Corsero verso la riva e salirono sul ponte di una gran barca sulla cui poppa sventolava la bandiera dell'impero. Il Capitano, assicuratosi con un colpo d'occhio che non c'era nessuno, disse:

– Nella stiva, amici.

Alzarono il boccaporto e scesero nel ventre del piccolo bastimento. Temendo che la guardia notturna si fosse arrestata sulla riva, si sdraiarono fra gli attrezzi e poco dopo s'addormentarono profondamente.