La Scimitarra di Budda/28. La caduta di un raham

28. La caduta di un raham

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28.

LA CADUTA DI UN RAHAM


L'Irawaddy, o Erawadi, o Iravati, o meglio ancora A-rah-wah-ty, come lo chiamano gl'indigeni, è il più grande fiume che solchi la penisola indocinese. Dove abbia le sue sorgenti questo corso d'acqua, sulle cui rive s'ergono tante opulente città e tante rovine, lo si ignora anche al dì d'oggi, non essendo per anco state esplorate da viaggiatori europei. Alcuni le pongono sul monte Damtsuk-kabad del Tibet orientale al 30° 10' di latitudine nord e 79° 35' di longitudine est; altri nel cuore della gran catena dell'Himalaya e precisamente alle falde del Dawlagoi. I geografi moderni con più ragione, le pongono nei paesi di Khanti al 28° di latitudine tra l'Assam e la frontiera cinese.

Dalle selvagge regioni del nord, l'Irawaddy scende lentamente al sud descrivendo curve più o meno smisurate, aprendosi il passo fra monti, pianure, boscaglie, raccogliendo i fiumi Gogung, Ghialungru, Chiardi, Phoung-dioydzangbo, Djotchou, Chang, Galdjao-mourau Putchon, Madard, Myin-guyamyf e Paulong sulla sua sinistra, e bagnando successivamente le città di Jikadze, Rimboung, Jagagungghar, Kanni-Yua, Chagain, che fu un tempo città imperiale e che ora conta ventimila anime; Amarapura, la Città degli immortali, capitale nel 1824, ben popolata, difesa da bastioni, muraglie e fossati e con un superbo palazzo; Ava, l'odierna capitale, centro di commercio e celebre pei suoi templi; Pahemghee con cantieri di piccole navi e foreste di tek; indi Prome che ha un porto accessibile a navi di cinquecento tonnellate e infine la elegante Bassein situata sul ramo occidentale del fiume e l'opulenta Rangun a trentadue chilometri dal mare, con quaranta e più mila anime.

Questo gran fiume, che è per la Birmania ciò che è il Gange pel Bengala e il Nilo per l'Egitto, che in giugno, luglio e agosto straripa fecondando straordinariamente le campagne, dopo aver ricevuto tanti affluenti, di aver bagnate tante città, di aver formato un delta dei più vasti, di aver percorso un tratto di ben millenovecento chilometri, scaricasi per quattro bocche e per centinaia e centinaia di canaletti, nel golfo di Martaban, sottraendo al territorio birmano sessantadue piedi cubi di terreno al minuto secondo!...

I viaggiatori, giunti sulle rive, che distavano più di mille metri l'una dall'altra, erano scesi da cavallo per vedere se c'era un battello.

– Guardate laggiù, sulla riva, presso quel folto bosco. Non vedete un gruppo di capanne? – chiese il cinese. – Quello è un villaggio, e un villaggio situato sulla riva d'un fiume deve avere delle barche.

– Tu dici bene, microscopico cannoniere – disse James. – Avanti!

Tirandosi dietro i cavalli, si misero in cammino e raggiunsero, dopo una mezz'ora, il villaggio che era composto d'una doppia fila di capanne. L'americano passò in rivista tutte le abitazioni, ma erano perfettamente chiuse e nessun lume brillava nell'interno. Accostatosi ad una, udì un forte russare.

– Gli abitanti dormono come ghiri – diss'egli. – Devo sfondare la porta?

– Lasciateli dormire – rispose il Capitano.

– E la barca?

– Vedo là una mezza dozzina di canotti. Ne prenderemo uno e ci imbarcheremo.

Legarono i cavalli ad un albero e si diressero, senza far rumore, verso la sponda, presso la quale ondulavano dieci o dodici barche della portata di tre o quattro tonnellate, lunghe assai e molto rialzate a prua e a poppa. Ne staccarono una, vi deposero le armi, le munizioni, i fucili e vi saltarono dentro, afferrando i remi.

– Partenza – disse l'americano allegramente.

Il polacco, con un vigoroso colpo di remo, la spinse al largo e si lasciarono trasportare dalla corrente che scendeva dal settentrione con notevole velocità, travolgendo ne' suoi gorghi gran numero di alberi e non pochi tek di cento metri di lunghezza. Nessuna barca né alcun villaggio appariva al sud. Le due rive, distanti l'una dall'altra sette od ottocento metri, non mostravano che immense risaie e boschi fitti assai, sotto i quali udivansi barrire gli elefanti, miagolare le tigri e fischiare i rinoceronti. L'americano, nell'udire quelle belve, fremeva e tormentava la batteria della sua carabina.

– Le rive di questo fiume sono un vero serraglio – disse. – Darei un mese della mia vita per sbarcare e cacciare quei giganti.

– Per farvi ammazzare, sir James? – chiese il polacco.

– Che dici mai, ragazzo mio?

– Non udite gli elefanti?

– Una palla in un occhio e l'elefante cade.

– E i rinoceronti, e le tigri? Sono animali birmani, e non cinesi.

– Birmani o cinesi, sono sempre animali asiatici.

– Che vuol dire?...

– Poco pericolosi. Ehm! Dei segnali!

Sei o sette razzi si erano improvvisamente alzati al disopra di un folto bosco, a un mezzo miglio dalla riva destra, ed erano scoppiati spandendo una pioggia di variopinte scintille.

– Non abbiate paura – disse il Capitano. – Siamo nel mese di settembre e i birmani usano lanciare dei razzi.

– Per divertirsi, forse?

– No, per trarne dei pronostici. Ecco là un razzo che a metà via si è spento: il pover'uomo che lo ha lanciato sarà avvilito.

– Perché?

– Perché crederà di essere malvisto dal suo dio!

– Dal suo dio! Hanno un dio i birmani, Giorgio?

– Vi dirò che ne hanno più d'uno.

– C'entra anche Budda?

– Budda c'entra dappertutto tanto in Cina quanto in Birmania, nel Siam, nel Tonchino, nella Cocincina e nell'India.

– Ditemi, Giorgio, chi era questo signor Budda?

– Come! Non lo sapete?

– So che è un dio e che aveva una scimitarra: quella che da quattro mesi cerchiamo con gran pericolo della nostra pelle.

Il Capitano si mise a ridere.

– Perché ridete? – domandò l'americano. – Ho detto forse qualche bestialità?

– Ma credete voi che abbia appartenuto a Budda la scimitarra che noi cerchiamo?

– Ne dubitate? Lo dicono tutti i cinesi.

– E chi lo ha detto ai cinesi?

– Chi?... Chi?... Eh, non lo so! – disse l'americano grattandosi la testa. – E chi ha detto a voi che non è di Budda?

– Budda non fu un guerriero, James, tutti dovrebbero saperlo.

– Ma chi era infine questo dannato Budda?

– Vi dirò innanzi a tutto che non c'è un solo Budda, come generalmente si crede.

– Come! – esclamò l'americano. – Non c'è un solo Budda?

– No, i Budda sono moltissimi, ma non si conoscono che i nomi dei ventiquattro ultimi.

– Io cado dalle nuvole.

– Vi spiegherò ora cosa sono questi Budda. In diverse epoche, separate da spazio incalcolabile, apparvero in India degli uomini di una eminente saviezza e di una santità perfetta, i quali, liberi dalla influenza delle passioni, pervennero a spegnere in sé ogni desiderio sensuale non solo, ma anche il desiderio di vivere. E per virtù perseverante, e per sforzi intellettuali, acquistarono una esatta conoscenza della universale verità e la insegnarono ai popoli, che li adorarono e diedero loro il nome di Budda, che vuol dire «illuminati». Mi avete compreso?

– Perfettamente – disse l'americano. – Ma a quale Budda si dice appartenga la scimitarra che noi cerchiamo?

– All'ultimo che nacque 624 anni prima di Cristo nella città di Kapilavastu, capitale del regno che governava suo padre, il rajah Suddhodano. Al suo nascere, questo Budda ricevette il nome di Ssiddart, ma lo si conosce sotto il nome di Ssakya-Muni. Ed ora approfittiamo della corrente che ci trasporta per riposarci un po'.

L'indomani, quando il sole riapparve sull'orizzonte, il fiume offrì una splendida veduta. Le due rive si erano allargate assai e mostravano maestosi boschi sul limite dei quali sorgevano dei villaggi graziosi formati da capanne di legno coi tetti arcuati e coperti di foglie grandissime, disposte a mo' di tegole. Qua e là, seminascoste dagli alberi, apparivano graziose ville coperte di dorature rifulgenti ai primi raggi del sole nascente, bellissimi chioschi di strana architettura e numerosi templi, irti di punte dorate, sostenute da colonne variopinte, sotto i quali scorgevansi mostruosi idoli raffiguranti alcuni Gadma, e altri dei rak-ress, o demoni indiani, della città d'Arracan.

Una dozzina di barche colla prua rialzata e sormontata da teste di tigri, o di coccodrilli, o di elefanti, e alcune zattere formate da smisurati tronchi di tek, scendevano la corrente montate da seminudi barcaioli del color del bronzo, pieni di brio, e che cantavano monotone canzoni.

– Guardate quanti templi, sir James – disse il polacco. – Ne ho contati una dozzina di già.

– E molti ancora ne conterai – disse Giorgio. – I birmani hanno coperto il loro paese di templi e non pochi sono bellissimi.

– Eccone là uno che sembra assai grande – disse il cinese, additando sei o sette guglie dorate che s'alzavano in mezzo a un bosco un mezzo miglio verso il sud.

– Un tempio così alto indica la vicinanza di Kanny-Yua – disse il Capitano.

– Troveremo dei liquori?

– Finché vorrete, James, e anche dei viveri.

La barca, abilmente condotta, in brevi istanti toccò la riva, che era ingombra di barche di tutte le dimensioni e di tutte le forme, scavate in tronchi d'albero. Gli avventurieri, protetti dalle loro vesti birmane e dal color terreo della loro pelle, sbarcarono senza essere molestati, legando la loro barcaccia alla riva.

Kanny-Yua è formato da centocinquanta capanne di legno che si possono fare a pezzi e trasportare in qualsiasi luogo. Di importante non ha che due o tre templi, uno dei quali ha molte dorature e molte colonne coperte di laminette di metallo. La sua popolazione varia da mille a millecinquecento persone, la maggior parte cinesi delle frontiere settentrionali e arracanesi. La sua importanza non è indifferente, dominando il fiume, e il suo commercio è vivissimo, trafficando coi paesi meridionali e coi paesi settentrionali. I viaggiatori, fatta una corsa per la cittadella e visitati i templi, entrarono in una tavernaccia dove fecero le loro provviste e dove pranzarono, ma assai magramente, non permettendo la religione birmana di uccidere animali domestici. L'americano però fece grande onore alle foglie di acetosa selvatica bollite assieme al riso, al bufalo selvaggio, al camaleonte e al thè, che i birmani mangiano in foglia, condito con olio e aglio. Alle cinque del pomeriggio, carichi di riso, di pesce secco, di beef-steak di bufalo e di rispettabili fiaschi di acquavite di riso, ritornavano alla riva per imbarcarsi. Immaginatevi quale fu la loro sorpresa quando non trovarono più la loro barca, che al mattino avevano solidamente legata ad un albero.

– Chi l'ha rubata? – urlò l'americano, diventando furibondo.

– Non è possibile che ce l'abbiano portata via – disse il Capitano. – Le leggi birmane puniscono severamente i ladri.

– E dove volete che sia andata? – domandò il violento yankee che gettava all'intorno sguardi da mettere paura. – Non credo che la corda si sia spezzata.

– Forse è andata a picco. Bah! Ne compreremo un'altra.

L'americano stava per seguire il Capitano, quando udì Casimiro gridare:

– La nostra barca! La nostra barca! Ah birbanti!

Il Capitano si volse e scorse in mezzo al fiume e che dirigevasi verso la riva il battello. Tre uomini lo montavano; due erano barcaioli e il terzo era un personaggio di bassa statura, colla testa perfettamente rasa, avviluppato in una lunga tonaca gialla. In una mano portava una grande scatola verniciata ripiena di frutta e di riso.

– È un raham – diss'egli.

– Che vuol dire? – domandò l'americano, mostrando i pugni.

– Una specie di bonzo; un monaco, infine.

– Monaco o frate, lo piglio pel collo e lo strangolo.

Così dicendo, prima che il Capitano potesse trattenerlo, lo yankee si precipitò verso il raham che stava scendendo a terra.

– Miserabile! – urlò pigliandolo pel collo. – T'accoppo, brutto muso!

Il suo pugno cadde sulla faccia del monaco che si coprì di sangue. Un urlo straziante rimbombò, seguito subito da cento urla di rabbia. I mercanti, i facchini e i barcaioli che stavano sulla riva, si erano slanciati come un sol uomo in aiuto del monaco, il quale era caduto pesantemente a terra, mezzo accoppato dal terribile pugno dell'americano.

– Fuggiamo! Fuggiamo! – gridò il Capitano, spingendo l'americano verso la riva.

I quattro avventurieri si precipitarono nella barca afferrando in fretta e in furia i remi. I birmani, furibondi, li seguirono da vicino urlando con quanta voce avevano:

– A morte il sacrilego!

Il più ardito della banda, non contento di urlare, afferrò la barca per la prua, ma il Capitano, che stava attento a tutto, con una vigorosa spinta lo mandò a gambe levate.

– Arranca! Arranca! – gridò, saltando al remo. – Presto, presto, o ci scannano!

Non c'era un momento da perdere. I fuggiaschi si curvarono sui remi e spinsero la barca al largo, dirigendosi verso l'opposta riva, malgrado le urla, le minacce e le intimazioni della folla, la quale cresceva di minuto in minuto. Dalle campagne, dalle capanne, dai vicini paesi, attirati da un furioso sbatacchiare di gong e di tam tam, accorrevano soldati e contadini armati di moschettoni a miccia e a pietra, di lance, di picche, di sciaboloni, di scuri, di coltellacci, di bastoni e di ciottoli. La barca era giunta di già in mezzo al fiume, quando un colpo di fucile partì dalla riva. La palla, scivolando sul remo del polacco, colpì di rimbalzo l'americano in fronte.

– Siete ferito? – domandò il Capitano con ansietà.

– Ho la pelle dura, io. Ah! Ecco là il brigante!

Un birmano, seminudo, si agitava in riva al fiume, mostrando il moschetto ancora fumante. L'americano raccolse la carabina e con una palla l'abbatté.

– Guarda!... Guarda!... – gridò ad un tratto il polacco, che faceva sforzi disperati.

Il Capitano guardò a tribordo e scorse una barca lunga quasi cento metri, pesantissima, montata da una cinquantina d'uomini e armata, a prua, di un pezzo di cannone.

– Coraggio, ragazzi! – gridò. – Se quella cannoniera ci abborda, per noi è finita.

La barca non distava che duecento metri dalla riva e la cannoniera era lontana un mezzo chilometro, ma questa veniva innanzi colla rapidità di una freccia, spinta da moltissimi remi.

– Alt! – s'udì il timoniere a gridare.

– Arranca! Arranca! – gridò invece il Capitano.

Un getto di fuoco e una nube di bianco fumo apparvero a prua della cannoniera, poi una forte detonazione e un acuto sibilo si udirono. Una palla da quattro libbre, investì la poppa della barca, forandola da parte a parte.

– Maledizione! – urlò l'americano, vedendo l'acqua entrare in gran copia.

– Forza! – gridò il Capitano. – Siamo salvi!

La riva era a pochi metri. Gli avventurieri con quattro vigorosi colpi di remo spinsero la barca sulla sabbia nel mentre che una seconda palla partiva dalla cannoniera.

– A terra! – gridò il Capitano. – E raccomandiamoci alle gambe.

Afferrarono le armi, le munizioni, le coperte e i viveri, saltarono sulla sabbia e scapparono via seguiti dalle urla di rabbia dei birmani, che vedevano il sacrilego fuggire ancora sano e salvo.