La Scimitarra di Budda/29. La riva destra dell'Irawaddy

29. La riva destra dell'Irawaddy

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29.

LA RIVA DESTRA DELL'IRAWADDY


Le tenebre, che calavano rapidamente, favorivano la precipitosa fuga degli avventurieri, i quali, senza badare alla grandine di palle dei birmani, si erano prontamente cacciati sotto i boschi raccomandandosi alla vigoria ed all'elasticità delle gambe. Nessuno di loro conosceva il paese, ma in quel momento poco importava. L'uno dietro l'altro, coi fucili sotto il braccio, gli orecchi tesi e gli occhi bene aperti, fuggivano rapidi come cervi, cacciandosi sotto i fitti macchioni, scalando grandi alberi atterrati, saltando stagni e attraversando o rimontando torrentelli per far smarrire le loro tracce. Le urla dei birmani e i colpi di fucile che udivansi sempre più vicini, li spronavano. Sapevano tutti che, caduti nelle mani di quei fanatici, non ne sarebbero usciti più vivi. Correvano da circa venti minuti sempre inseguiti, quando il Capitano arrestossi bruscamente sulla riva di un piccolo fiume.

– Cosa c'è? – chiese l'americano, che arrivava ansante e grondante sudore.

– Vedo la cima di una pagoda – disse il Capitano, mostrando agli ultimi bagliori del crepuscolo un'alta sbarra di ferro dorato che usciva dal folto del bosco.

– Che cosa faremo?

– Bisogna andare innanzi, James. Forse là c'è un villaggio e forse vi sono dei cavalli.

– Ma... e se ci pigliano a colpi di fucile?

– Risponderemo; presto, un salto nel fiumicello e via di trotto.

Non vi era da esitare. I birmani s'avvicinavano rapidamente sparando fucilate, picchiando rabbiosamente sui loro tamburi e soffiando disperatamente nelle loro trombette. I fuggiaschi varcarono in fretta il fiumicello, s'arrampicarono sulla riva opposta e si slanciarono su un sentiero che li condusse a una piccola radura. Colà per loro disgrazia, non c'era un villaggio, ma invece una pagoda che pareva fosse stata cannoneggiata, tanto era diroccata.

– Rientriamo nel bosco – disse il Capitano.

Armarono le carabine e ritornarono sotto gli alberi. Stavano per riprendere la corsa, quando udirono a breve distanza dei nitriti, dei belati, dei muggiti e delle voci umane.

– È una carovana che si avanza – disse il piccolo cinese.

Dal bosco uscivano allora dei cavalli, dei buoi, delle pecore e delle capre spinte innanzi da due contadini. Il Capitano saltò alla testa della mandria sparando in alto un colpo di carabina. Quella detonazione bastò per far scappare i due contadini, i quali credettero d'aver a fare con dei veri briganti.

– A cavallo! – gridò Giorgio, gettando a terra una manata di monete per indennizzare i due contadini.

I birmani arrivavano allora di gran corsa agitando le armi e urlando. I fuggiaschi gettarono le loro coperte sul dorso di quattro vigorosi cavalli, balzarono in arcione e partirono rapidi come il vento, dirigendosi verso il mezzodì. Sei o sette fucilate furono sparate dagli inseguitori, ma senza esito. I cavalieri, sferzando o punzecchiando con i loro coltelli le cavalcature, in pochi minuti furono fuori di portata. La notte era diventata oscurissima. A gran pena si scorgevano i tronchi degli alberi e i fitti cespugli che sbarravano di quando in quando il cammino; tuttavia i fuggiaschi lasciavano che i cavalli proseguissero la corsa. Avevano di già percorso cinque o sei miglia, quando qualche cosa di nero attraversò rapidamente il sentiero che battevano, a pochi passi dal Capitano. Questi s'arrestò bruscamente, facendo piegare il cavallo fino a terra.

– Alt! – intimò, staccando la carabina dall'arcione.

– Cosa è successo? – chiese l'americano che arrivava di corsa.

– È strano – disse il Capitano dopo qualche tempo. – Mi è sembrato d'aver visto un uomo attraversarmi il cammino.

– Sarà stata una tigre – mormorò l'americano.

– Bestia o uomo, tiriamo innanzi – comandò Giorgio. – Siamo ancora troppo vicini all'Irawaddy.

Ritornarono sul sentiero e, attraversata la piantagione, raggiunsero il Mena-Kiung, il quale correva con furia estrema fra due rive coperte d'alberi e di larghi stagni dove imputridivano enormi ammassi di vegetali. Fu cercato un guado, ma non riuscirono a trovarlo e s'accamparono sulla riva, ai piedi di una macchia di mimose chatecu.

L'indomani, 10 settembre, dopo una notte abbastanza tranquilla, malgrado i mugolii delle tigri e i barriti d'una truppa d'elefanti, gl'intrepidi viaggiatori ripigliavano la marcia. Attraversato il Mena-Kiung due miglia più sopra, galopparono verso il sud, mantenendosi a dieci o dodici miglia dall'Irawaddy, orizzontandosi col sole, avendo lasciata la bussola nella barca. Le foreste si succedevano alle foreste ed erano formate da querce colossali delle quali si contano ben settanta specie, da hopaco odorata, bellissimi alberi che danno eccellente legname da costruzione, e da mimose chatecu, piante preziose da' cui rami tagliati in pezzettini e bolliti, i birmani traggono il chatecu, detto altrimenti «terra japonica». Un po' più tardi ai boschi successero boschetti, poi piccole pianure e in distanza delle alture. Ben presto apparvero delle capanne isolate, poi qualche villaggio e qualche antenna adorna di campanelli indicanti un tempio, di talapoini o pagoda di raham. A mezzodì i cavalieri fecero alto dinanzi ad una capanna in rovina che era invasa da una moltitudine innumerevole di formiche grosse di un bel color verde. L'americano fu sorpreso.

– Toh – esclamò egli. – Pare che non siano i soli topi a intraprendere delle migrazioni. Non ho mai visto un paese simile.

– Guardatevi dalle punture di questi insetti, perché sono terribili – disse il Capitano.

– Ma questi birmani sono proprio disgraziati!

– Oibò, anzi fortunati. Le formiche verdi sono un piatto deliziosissimo per gl'indigeni.

– Vorrei assaggiarle.

– Le assaggerete ad Amarapura.

Alle due i cavalieri ripartirono sotto un sole ardentissimo e qualche ora dopo giungevano ai primi scaglioni di una gran catena di montagne che smarrivansi nell'orizzonte del mezzodì.

Quantunque il Capitano non ricordasse d'aver visto sulla sua carta geografica (perduta assieme alla bussola) montagne elevarsi così vicine alle rive dell'Irawaddy spinse il suo cavallo su quelle salite dove scorgevansi qua e là le tracce di antichi sentieri.

Alle otto, nel momento che il sole tramontava, il polacco, che cavalcava in testa a tutti, segnalò una capanna di bambù sul cui tetto innalzavasi una sottile colonna di fumo.

I cavalieri si trovarono allora sulla cima di una collina. In pochi minuti la discesero dirigendosi con grande schiamazzo verso la capanna che non cessava di fumare.

– Ohe! Oste, birmano, tonchinese, negro, salta fuori! – gridò l'americano balzando d'arcione.

Un uomo seminudo, di carnagione assai scura, uscì, sbirciando di traverso i cavalieri.

– Che brutta faccia! – esclamò l'americano.

– Infatti, – disse il polacco – mi sembra che non sia disposto ad accoglierci bene. Guardate che occhiacci, sir James!

– Se non vorrà accoglierci bene, lo costringeremo con la forza. Vedo sotto quella tettoia dei viveri che fanno per noi.

Il birmano, appoggiato alla porta della capanna, con i pugni chiusi come uno che si prepara a respingere un assalto, non apriva bocca.

– Ehi! Amico mio, noi crepiamo di fame – disse James. – Metti la tua dispensa a nostra disposizione. Paghiamo, sai.

Il birmano, vistoselo avvicinare, entrò nella capanna, tentando di chiudere la porta, ma l'americano in un attimo gli fu addosso afferrandolo per le spalle.

– Amico mio, non fare il cattivo – gli disse, spingendolo ruvidamente innanzi. – I galantuomini non si trattano così.

Il selvaggio mandò un urlo di rabbia e cercò di mordere l'americano, ma questi, con una scossa violenta, lo rovesciò, poi lo trascinò accanto ad un piuolo della capanna e, aiutato dai compagni, ve lo legò solidamente, malgrado la disperata resistenza.

Rovistando nella capanna, scopersero entro un vaso dei pezzi di cervo e sotto la tettoia trovarono una grossa provvista di riso. Il polacco e l'americano si affrettarono a preparare il pranzo.

Quando fu pronto, i viaggiatori si misero a lavorar di denti, punto curandosi delle urla e delle minacce del birmano.

James, come al solito, mangiò per due e bevette una straordinaria quantità di acquavite verdastra.

– Non ho mai mangiato così bene – disse il ghiottone. – Le maledizioni di quel selvaggio mi hanno messo indosso una fame da orso.

– Ma quelle maledizioni ci porteranno sventura, sir James – disse il polacco. – Quel brigante continua a invocare la vendetta di Gadma.

– Non temo Gadma, io. Se venisse qui lo metterei allo spiedo e lo mangerei.

– Che antropofago!... Ehi, quell'uomo, zitto, perbacco! Non l'hai finita ancora? – chiese il polacco al prigioniero che continuava a urlare e in modo tale da non poter udire i discorsi. – Vuoi diventare idrofobo?

– Mi pare che lo sia già. Appena lo libereremo ci salterà addosso – disse James.

– Ma siamo in quattro, e lui è solo.

– Ma chi ci dice che sia solo? – chiese il cinese. – Vedo là una scacchiera e so che anche in Birmania occorrono due persone per tale giuoco.

– Una scacchiera? – esclamò il Capitano alzandosi. – Non ci voleva di meglio per passare la serata.

S'avvicinò all'oggetto designato dal cinese, al quale i birmani, appassionatissimi giuocatori, danno il nome di xedrín, e vide che nessun pezzo mancava.

Chiese al birmano chi fosse il suo compagno di giuoco, ma non ebbe per risposta che furibonde maledizioni.

– Lasciate là quell'animale idrofobo – disse l'americano – e, se non vi dispiace, facciamo una partita.

Il Capitano e lo yankee, si trovarono in sulle prime un po' imbarazzati avendo i pezzi delle forme assai strane; però riuscirono ben presto a comprendere che la regina era rappresentata dal primo ministro e che le torri difendevano gli elefanti.

La partita fu lunga e ostinata fra quei due forti giuocatori, ma la peggio toccò all'americano. Il Capitano stava per proporgli la rivincita, quando si udì il polacco gridare:

– Accorrete! Accorrete!

L'americano fe' volare la scacchiera in un angolo della stanza e si precipitò fuori della capanna seguito da Giorgio.

La luna erasi alzata dietro i monti e ci si vedeva come in pieno giorno. Il polacco additò ai compagni un uomo, armato d'un lungo moschetto, che scendeva la collina.

– Ehi, amico! – gridò l'americano. – Puoi scendere senza timore.

Il birmano l'udì e s'arrestò bruscamente, facendo passare il moschetto dalla spalla alla mano. Parve indeciso, fece alcuni passi, poi, vedendo che l'americano muovevagli incontro, scappò via colla rapidità di un cervo. In meno di cinque minuti raggiunse la cima del colle, ove scomparve sotto la nera ombra delle boscaglie.

Ritornarono nella capanna, assicurando bene il prigioniero, che non aveva più la forza di urlare e si sdraiarono su un letto di foglie, sotto la guardia del cinese. Alle cinque del mattino i viaggiatori, ben provvisti di viveri che avevano pagato al birmano in moneta sonante, lasciarono la capanna, galoppando verso il sud.