La Scimitarra di Budda/27. Dal Nu-Kiang all'Irawaddy

27. Dal Nu-Kiang all'Irawaddy

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27.

DAL NU-KIANG ALL'IRAWADDY


Percorrevano allora quel tratto di paese compreso fra il Mey-Nam e il Nu-Kiang, paese affatto sconosciuto, che forse non era mai stato calcato da piede europeo. All'ovest estendevansi alcune catene di montagne di rispettabile altezza, dai profili bizzarri e i fianchi coperti da fitte boscaglie; all'est, al sud e al nord, invece, estendevansi immense pianure, parte coltivate e parte coperte di piantagioni d'indaco e di canne da zucchero e solcate qua e là da corsi d'acqua di qualche importanza. Gli avventurieri, quantunque non conoscessero il paese, galoppavano in direzione dei monti. Min-Sì apriva la marcia e dietro di lui venivano in gruppo serrato gli altri colla carabina dinanzi alla sella, onde essere pronti a difendersi contro un non impossibile assalto dei guerrieri di Ma-Kong. A mezzodì il piccolo drappello giungeva ai piedi dei monti e intraprendeva coraggiosamente la salita, che era sparsa di cespugli, di macchie di nardi, piante della famiglia delle canne che crescono solamente nei terreni aridi e sassosi. Procedendo abbastanza celermente, malgrado i frequenti ostacoli che li obbligavano a scendere spesso di sella, verso il tramonto toccavano la cima dei monti. Il 2 settembre gli avventurieri discendevano il versante opposto e riguadagnavano la pianura aridissima, senza un albero, senza un filo d'erba e annerita.

– È scoppiato un incendio? – chiese James sorpreso.

– Fu appiccato dagli abitanti – disse Min-Sì.

– Con quale scopo?

– Non vedete qua e là dei piccoli scheletri?

– Sì, sì, li vedo. Sono mille, duemila, diecimila. Ma a quali bestie appartengono?

– Ai topi.

L'americano scoppiò in una fragorosa risata.

– Hanno forse, gli abitanti di questo paese, dato fuoco alla pianura per distruggere i topi?

– Precisamente, James – disse il Capitano.

– Temono quei rosicchianti?

– Molto e con ragione, poiché talvolta irrompono eserciti immensi di questi roditori, difficilissimi a distruggersi e che tutto divorano sul loro passaggio.

– Ma da dove vengono?

– Dai monti, James. In Birmania i topi sono una piaga periodica. A intervalli variabili, questi divoratori dai denti puntuti invadono le pianure distruggendo i raccolti e assediando i villaggi, che gli abitanti s'affrettano ad abbandonare.

– È curiosa. E non si possono distruggere?

– Col fuoco sì; non sempre però. Sono tanti e tanti, che spengono le fiamme coi loro corpi. Nemmeno i fiumi li arrestano e bisogna vedere con che ordine li attraversano. Si dice che non uno si sbanda e che non uno si annega.

– Ma perché intraprendono simili migrazioni?

– Quando sui monti e sui colli i frutti vengono a mancare, costretti dalla fame, discendono in masse compatte nel piano e più volte gli abitanti dei villaggi soffersero la fame per causa dei topi.

– È un vero flagello.

– Precisamente, James.

– Vorrei vedere una emigrazione di quegli animaletti.

La conversazione fu interrotta da uno scoppio di tuono che si perdette nei lontani orizzonti, già coperti da dense masse di vapori.

– La stagione delle piogge ritorna – disse il Capitano.

– Come! Non è ancor finita? – chiese James.

– Non ancora. Ne avremo per un mese. I fiumi della Birmania non hanno straripato.

– Corriamo forse il pericolo di veder ripetersi la brutta avventura di Koo-tching?

– Non lo credo. Arriveremo al Nu-Kiang prima che si rovesci sulle campagne.

– A quanto stimate la distanza che ci separa dal fiume?

– Prima di giungervi bisognerà attraversare un grosso affluente. Calcolato tutto, avremo ancora cinquanta o sessanta miglia. Affrettiamoci, amici, ecco la pioggia.

Infatti, le cateratte del cielo cominciavano ad aprirsi. Dapprima caddero semplici goccioloni, poi venne giù una pioggia fitta fitta, accompagnata da tuoni spaventevoli, da lampi accecanti e da un vento indiavolato che cacciava innanzi a sé nembi d'acqua.

I viaggiatori, coperti alla meglio, ricevevano filosoficamente quell'acquazzone, affrettando la marcia dei cavalli, i quali sprofondavano fino a mezza gamba in larghe pozze formatesi lì per lì nelle bassure.

A mezzodì attraversarono, su un ponte di bambù, l'affluente accennato dal Capitano, indi, dopo una breve fermata, salirono una nuova catena di monti che s'allargava per oltre cinquanta miglia. La pioggia non cessò un sol istante. Pareva che volesse ripetersi il diluvio universale. Dai monti scendevano torrenti così impetuosi e larghi da rendere difficile e pericoloso l'attraversarli.

Alla sera, i viaggiatori, affranti, gocciolanti, s'arrestarono presso una foresta d'arecche, le cui foglie smisurate servirono a loro per rizzare una tettoia. La notte fu orribile. Un uragano si scatenò con furia estrema, ruggendo tremendamente sotto il bosco e scuotendo e sollevando la tettoia. Nessuno dormì.

All'indomani, facendo uno sforzo, si rimisero in marcia sferzando rabbiosamente le povere bestie che erano sfinite. La salita dei monti fu aspra quanto mai. Venti volte dovettero arrestarsi sull'orlo di profondissimi burroni; venti volte sentirono i cavalli mancarsi sotto e venti volte corsero il pericolo di sfracellarsi giù pei pendii. Alle dieci del mattino, dopo aver attraversato altri monti e di essere discesi nelle pianure dell'ovest, che erano gran parte sommerse, giungevano sulle rive del Nu-Kiang. Questo fiume quasi ignoto, capricciosamente tracciato sulle migliori carte geografiche, è uno dei più considerevoli che vanti la grande penisola indocinese. A quanto pare, nasce nella parte orientale del Tibet, nella provincia del Cham, da un piccolo lago incastonato fra quegli altipiani. Sotto il nome di Burung s'apre il passo fra le montagne ed entra prima nell'Yun-Nan occidentale, poi nella Birmania, dove prende i nomi di Nu-Kiang, di Than-Luen, di Thaleayn o di Muttama, s'avvicina sotto il 25° parallelo allo Schue-Kioung, affluente di sinistra dell'Irawaddy, e prosegue verso il sud fra le regioni affatto sconosciute dell'alto Laos, dove si allarga e s'ingrossa, terminando nel golfo di Martaban, dopo di aver ricevuto il Gen e aver percorso circa millequattrocento leghe. Dove erano giunti i cavalieri, il fiume era largo non più di un chilometro, ma correva rapidissimo fra le due rive basse coperte da una lussureggiante vegetazione. Presso alcuni isolotti il Capitano scorse alcuni indigeni occupati a pescare, montati su alcune barche dalla prua assai alta. Quegli uomini avevano la pelle abbronzata, i lineamenti poco dissimili da quelli dei cinesi, i capelli lunghi, alcune ciocche dei quali passate nei fori delle orecchie, smisuratamente allargati. L'americano notò che avevano il petto coperto da una fitta rete di tatuaggi.

– Che strano abbellimento! – diss'egli. – Mi sembrano maori della Nuova Zelanda.

– È strano sì, ma utile, James.

– Utile! E perché?

– Perché ripara dai colpi di lancia e di sciabola.

– Voi scherzate, Giorgio.

– Lo dicono i birmani.

– Ci credete voi?

– Un po', giacché io so che il tatuaggio dà al sistema cutaneo uno spessore notevole. Non credo però che sia tale da impedire ad una lancia di trapassarlo.

– Affrettiamoci a passare il fiume – disse Min-Sì. – Mi pare che quei pescatori abbiano intenzione di andarsene.

Alla prima chiamata del Capitano, una gran barca, montata da una mezza dozzina d'indigeni, accorse. Uomini e cavalli s'imbarcarono e dopo pochi minuti sbarcarono sulla riva opposta dinanzi ad un gruppo notevole di capanne e di tettoie. Il Capitano fece vari acquisti di riso, di pesce secco e di eccellente chou-chou cinese, ed approfittò della fermata per camuffare sé e i compagni da birmani, onde poter liberamente agire sulle terre del grande impero che era assai vicino. Si dipinsero la faccia e buona parte del corpo d'un bel bronzo lucente, si rasero accuratamente la barba avendo i birmani l'uso di strapparsela, si annerirono i denti e si coprirono con una lunga zimarra e un paio di larghi calzoni di tela. Un cappello che terminava in una punta aguzza e un paio di scarpe colla punta rialzata completarono l'abbigliamento.

– Mi sembra d'essere diventato assai brutto – disse l'americano. – Prima giallo, ora abbronzato, e poi?... Finirò col diventare nero.

Alle quattro del pomeriggio i viaggiatori rimontavano sui loro slombati animali, trottando sempre verso l'ovest, tormentati da una pioggia sottile sottile che penetrava nelle ossa. Il paese tendeva a cangiare. Alle pianure umide, coltivate, bene irrigate, succedevano collinette boscose che andavano man mano alzandosi come se volessero formare una catena di montagne. C'erano ancora qua e là delle capannucce, degli abituri assai miseri, ma era da aspettarsi che più innanzi non se ne sarebbe trovato più uno fino alle rive dell'Irawaddy. Alla sera raggiungevano i primi contrafforti di una catena di montagne che separano la vallata del Nu-Kiang da quella del grande fiume della Birmania, e l'indomani s'internavano sotto fitte foreste di tek, di calambuc, di royoc, di marinda umbellata e di cambagia. Quantunque i cavalli non ne potessero più, i viaggiatori non fecero che brevissime soste, sicuri di giungere, al calar del sole, a una cinquantina di miglia dall'Irawaddy. Il 4 settembre il tempo si rischiarò sotto i soffi impetuosi del vento che scendeva dalle lontane catene del Tibet. Il Capitano, vedendo che i cavalli cadevano dalla stanchezza, ritardò la partenza fino al mezzogiorno. Il 5 il gran fiume birmano non era ancora in vista. Pianure immense, affatto deserte, la maggior parte allagate, si succedevano ad altre pianure non migliori. Assai di rado si scorgeva un poggio e qualche bosco. Di capanne, nessuna, per quanto si girasse intorno lo sguardo.

Già la sera cadeva e il Capitano stava per dare il segnale della fermata, quando Min-Sì, ascoltando attentamente, credette udire in lontananza un sordo muggito.

– Alt! – esclamò. – C'è un fiume laggiù.

– L'Irawaddy? – chiesero ad una voce il Capitano e il polacco.

– Senza dubbio.

Discese da cavallo, appoggiò un orecchio a terra e ascoltò rattenendo il respiro. Il terreno trasmetteva chiaramente un lungo mormorìo simile all'acqua che, correndo, urta contro le rive.

– Il fiume! Il fiume! – egli gridò risalendo a cavallo.

I cavalli, sferzati vigorosamente, ripartirono di gran carriera, attraversando pianure umidissime, boschi di tek e piantagioni di bambù. Qualche capannuccia cominciava a scorgersi qua e là e in lontananza, seminascosto fra il verde dei boschi, qualche villaggio.

Alle nove, agli ultimi bagliori del sole, i cavalieri giungevano sulle sponde del gran fiume birmano, il quale stendevasi come un immenso nastro d'argento fra verdeggianti piantagioni.