La Scimitarra di Budda/26. Le esigenze del fratello di Ma-Kong
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26.
LE ESIGENZE DEL FRATELLO DI MA-KONG
L'elefante, colpito in un occhio, era morto. Coricato su di un fianco, con una zanna cacciata profondamente entro terra, la bocca aperta, la proboscide rigida dalla quale colava un rivo di sangue, metteva ancora paura. L'americano, che fortunatamente non aveva riportato alcuna ferita, non si stancava di girare attorno a quella massa enorme di carne che cinquanta uomini non avrebbero sollevata.
– Che animalaccio! – esclamò egli, tastandosi le costole per assicurarsi che non ne aveva di rotte. – Vi confesso, amici miei, che mi ha fatto tremare. Un momento ancora e il mio povero corpo sarebbe stato ridotto in un sacco di ossa sminuzzate.
– Ma ci vendicheremo del brutto quarto d'ora – disse il polacco. – Ecco qua la tromba, un boccone da re, ve lo garantisco.
– Lascia fare a me, ragazzo. Divorerò tanta carne da diventare un piccolo elefante.
– E inviteremo anche gl'indigeni.
– Bravo! Ma dove si son nascosti che non si videro più?
– Sono scappati nel bosco – rispose il Capitano.
– E chi erano mai essi? Dei cacciatori, forse?
– Probabilmente i padroni dell'elefante.
– Non era dunque un elefante selvaggio?
– Non è possibile, poiché quegli indigeni erano senz'armi. Senza dubbio il colosso aveva mangiato troppo zucchero e troppo burro.
– Che?... L'elefante aveva mangiato troppo zucchero? Gli fa l'effetto del whisky?
– Precisamente, James. Per abituare gli elefanti a combattersi fra di loro, si pascono di zucchero e burro. In capo ad un certo tempo diventano furiosi e molto pericolosi.
– Allora sarà più saporito. Cospetto! Un elefante ingrassato con burro e zucchero! Mano ai coltelli.
I cacciatori si misero tosto all'opera. In un batter d'occhio tagliarono un piede, boccone squisitissimo e assai delicato. Il Capitano, che nei suoi viaggi ne aveva mangiato più d'uno, s'incaricò di arrostirlo secondo il metodo africano. Scavò nel terreno una buca considerevole e, riempitala di legne secche, vi diede fuoco. Aspettò che le legne fossero consumate, poi sbarazzò la buca dai tizzoni, vi depose il piede dell'elefante avvolto in due grandi foglie, coprì di cenere calda, indi vi accese sopra un altro gran fuoco. Dopo un'ora i viaggiatori si sedevano in mezzo all'erba coll'arrosto dinanzi, il quale esalava un profumo delicatissimo. L'americano aveva brandito il coltello e stava per intaccarlo, quando i tam tam echeggiarono ancora nella foresta.
– Cosa succede? – domandò egli, allungando la mano verso la sua carabina.
– In piedi, amici! – comandò Giorgio.
Ottanta o novanta indigeni, armati di scimitarre e lance e difesi da grandi scudi, s'avanzarono con passo rapido empiendo l'aria di grida tutt'altro che gioconde. In mezzo a loro caracollava un piccolo cavallo indocinese bardato con lusso, montato da un indigeno di bell'aspetto, vestito di seta gialla e armato d'una scimitarra dorata.
– Chi sono? – chiese l'americano, più sorpreso che spaventato.
– Degli abitanti di Laos – rispose il cinese. – Non vedete che hanno le trecce infilate negli orecchi?
– Toh, questa mi è nuova. Invece degli orecchini questi signori vi passano i loro capelli. E cosa vorranno da noi?
– Non lo so, ma stiamo in guardia. Siamo in un paese dove si adorano gli elefanti.
– Quelli là sono capaci di attaccarci per vendicare la morte del loro idolo – disse il Capitano.
– Basterà una fucilata per disperderli – disse Casimiro.
– Temo il contrario. Si dice che questi abitanti siano coraggiosi.
Gl'indigeni erano giunti allora presso l'elefante e l'avevano circondato. Il cavaliere scese d'arcione, tese le mani verso il cielo, poi verso i viaggiatori e pronunciò un lungo discorso spargendo sul corpo del gigante frutta, fiori e manate di riso.
– Quegli uomini sono pazzi – disse James. – Ma cosa significano tutte queste grida? Sembrano oche spaventate.
– Scagliano maledizioni contro di noi – disse Min-Sì.
– Delle loro maledizioni io me ne infischio.
– E anch'io, sir James – disse Casimiro.
– Ti credo, ragazzo. Vedremo poi...
Non finì. Aveva spiccato quattro o cinque salti verso due indigeni che si erano pian piano avvicinati al desco improvvisato e che avevano addentato ingordamente l'arrosto.
– Briganti! – urlò lo yankee. – Aiuto, amici!
Giorgio, Casimiro e perfino il flemmatico Min-Sì si scagliarono verso gl'indigeni che cercarono di battersela colla preda, ma subito si arrestarono, vedendo tutti gli altri lanjani raccogliersi prontamente attorno al cavaliere e preparare le armi.
– Lasciate andare l'arrosto – gridò Giorgio a James, che si era dato a inseguire i due ladri. – Tutti vicino a me colle armi in pugno. Qui non spira buona aria per noi.
– Diamo battaglia! – urlò l'americano che cominciava a scaldarsi.
– Non commettiamo imprudenze, James. A cavallo! A cavallo!
Gli indigeni s'avvicinavano rapidamente facendo un baccano indiavolato. Il Capitano e i suoi compagni si slanciarono verso i cavalli che pascolavano a duecento passi di distanza, ma, appena saliti in arcione, furono circondati dalla banda urlante.
– Io faccio fuoco su questi brutti musi – disse l'americano, armando la carabina.
– No, James, non irritiamoli. Min-Sì, domanda un po' cosa vogliono da noi? – disse il Capitano.
Il cinese spinse il suo cavallo verso il capo della banda e gli fe' cenno di voler parlare. Tosto il baccano cessò.
– Che vuoi tu da noi? – chiese Min-Sì, guardando dall'alto in basso il capo. – E chi sei tu, che osi minacciarci?
– Io sono il fratello del rajah Ma-Kong, padrone di queste contrade.
– E cosa vuoi?
– Che mi si paghi l'elefante.
– Fissa la somma e l'avrai.
– Prima di tutto, dimmi cos'hai adoperato per ammazzare un animale così potente e così grande.
– Le nostre armi – rispose Min-Sì imprudentemente.
– Ebbene, me le darai.
– È impossibile.
– Ti ripeto che me le darai, se vorrai partire, e bada che il fratello del rajah Ma-Kong non è uomo da scherzare.
Il cinese si volse verso i compagni e li mise al corrente di ciò che esigeva il selvaggio.
– Non acconsentirò mai a perdere il mio fucile – disse Giorgio. – Il briccone ci giuocherà qualche brutto tiro.
– Chi? Quel mariuolo là? – chiese James. – Me lo mangio in un sol boccone, se osa allungare una zampa verso la mia carabina. Diamo battaglia, Giorgio; ho il sangue che mi bolle.
– Calma, sir James – disse Min-Sì. – Ho un progetto che forse ci condurrà a buon porto.
Ritornò presso il cavaliere e, dopo aver riflettuto qualche istante, gli disse:
– Noi acconsentiamo a cederti le armi che hanno abbattuto l'elefante, ma vogliamo darti un consiglio.
– Di' su che ti ascolto – rispose il fratello del rajah.
– Le nostre armi sono potenti davvero, ma per poterle adoperare bisogna godere una speciale protezione del dio Gadma. Senza di questa al primo sparo si muore.
Il cavaliere fece un gesto di spavento.
– Dici il vero? – chiese.
– Te lo giuro. Sei protetto da Gadma?
– Io no; e tu?
– Siamo tutti e quattro sapienti delle sorgenti sacre del Mey-Nam e protetti quindi da Gadma. Vuoi ora le nostre armi?
– No! No! – esclamò l'indigeno.
– Allora lasciaci partire.
Il cavaliere fece una smorfia.
– Tu esigi troppo – diss'egli. – Mio fratello ha perduto l'elefante, è giusto che tu debba sborsare qualche cosa.
– Non ho che poche once d'argento.
– Ebbene, me ne darai quaranta e ti lascerò libero il passo.
La somma non era troppo grossa pei viaggiatori, che possedevano ancora molto oro. Il Capitano, che aveva fretta di andarsene, sborsò le quaranta once, ma il cavaliere, anziché sgombrare la via, fece avviluppare più strettamente i cavalli, che furono immobilizzati.
– Oh! – gridò l'americano furibondo. – Che giuoco è questo?
– Bisognerà menare le mani – disse il Capitano. – Questa maramaglia non ci lascerà più tirare innanzi se non la spazziamo a colpi di carabina.
– Sgombra il passo! – intimò il cinese, volgendosi verso il cavaliere. – Non sei ancora contento dunque?
– Non ancora – rispose il selvaggio. – Tu attraversi il territorio del rajah Ma-Kong; paga il diritto di passaggio. Ancora dieci once e io me ne vado.
– Tu vuoi derubarci, ladrone.
– Dammi le dieci once.
– E se non volessi?
– Ti faccio assassinare – rispose risolutamente l'indigeno.
Il cinese, vedendolo deciso a non cedere, si rassegnò a sborsare la somma richiesta. Gli indigeni questa volta mantennero la parola e s'affrettarono a disperdersi per la pianura, dirigendosi chi verso le foreste e chi verso l' elefante. I viaggiatori, visto il passo libero, ne approfittarono per lanciare al galoppo i loro cavalli sulla via dell'Ovest.