La Scimitarra di Budda/20. Il rinoceronte
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20.
IL RINOCERONTE
L'indomani, dopo una dormita di quasi venti ore, i quattro avventurieri, montati su robusti cavalli che i bonzi avevano fatto acquistare in un vicino villaggio e ben carichi di viveri, abbandonavano il Miao discendendo allegramente nelle sottostanti pianure, che pareva dovessero prolungarsi fino alle sorgenti del Pe-Kiang.
L'americano, felicissimo di trovarsi finalmente sul dorso di un buon cavallo, chiacchierava per dieci facendo sbellicare dalle risa i compagni. Il burlone parlava nientemeno di fondare una colonia americana in quei luoghi, facendole adottare la religione di Fo, religione che, al suo dire, cominciava ad attirarlo e molto seriamente.
– Uditemi – diceva egli. – Diventato bonzo, condurrei una vita patriarcale, una vita alla Noè. Diventerei tanto grasso da mettere spavento a un ippopotamo; peggio ancora, diverrei una vera balena. A dispetto di tutti i Fo del globo, comincerei con l'ammazzare un bue al giorno per farne beef-steak, col riempire la grotta del tempio di pipe e di tabacco e col mettere una botte di whisky sulla cima della rupe, al posto occupato da quel brutto idolo. Mi incaricherei di adorarla ogni giorno.
– Ma la religione di Fo vieta di ammazzare gli animali – disse il polacco, che rideva fino a slogarsi le mascelle.
– Ma io me ne infischierei di Fo, ragazzo mio. Vorrei vedere chi sarebbe l'audace che venisse a spiarmi. Lo precipiterei nel sottoposto abisso.
– Che terribile bonzo! Nessuno si arrischierebbe a chiedere ospitalità.
– O certo! Che bella vita, Casimiro, che io condurrei nella mia bonzeria! Che pranzi e che brindisi! Cucina otto volte al giorno e sbornia tutte le sere in compagnia degli idoli!
Così discorrendo e ridendo alle spalle del burlone, i viaggiatori percorrevano senza accorgersene miglia e miglia attraverso i boschi, a macchie, a praterie, a piantagioni, a colline, a montagne, passando talvolta a poca distanza da miseri villaggi, popolati da una dozzina di famiglie, e il più delle volte mezzo nascosti fra i boschi o situati sulle alture.
Alla sera, dopo quaranta miglia di strada, attraversarono il Pe-Kiang, ridotto alla larghezza di un fiumicello e si accamparono sulla riva opposta, presso un boschetto di piccoli gelsi. L'americano, abituato a vedere i gelsi europei, fu molto sorpreso nel trovare quelli cinesi così piccoli.
– Ma sono cespugli, questi! – esclamò. – Come mai non diventano grandi come i loro fratelli d'Europa e d'America?
– Perché i cinesi li tengono appositivamente piccoli – rispose il Capitano. – I cinesi e i tonchinesi, dopo uno studio di parecchi secoli, hanno osservato che i bachi nutriti colle foglie di alberi vecchi e grandi, danno una seta più brutta di quella che danno i bachi nutriti con giovani piante. Perciò durante la stagione invernale tagliano i gelsi a terra per avere rami e foglie nuove.
– Si fa un grande consumo di seta in Cina? – chiese Casimiro.
– La Cina, mio caro, può chiamarsi l'impero della seta. Il consumo è così immenso e la produzione così enorme da fare sbalordire. Immaginati che su quattrocento milioni di abitanti, trecento almeno allevano bachi e duecento vestono abiti di seta.
– La seta più bella da dove viene?
– Dalla provincia di Tche-Kien, dov'è bianchissima, fine e morbidissima. Però le sete che si spediscono ora all'estero sono tutte bianchicce, morbidissime e lucentissime, mercé una soluzione di calce che ben data rende la seta bella e più facile a lavorarsi, ma male data l'abbrucia.
– E dove sono le fabbriche più grandi?
– A Nanchin, a Hou-tcheon, a Peche-kian e a Hau-tcheon. In quest'ultima città vi sono sessantamila fabbriche dentro le mura e centomila nei sobborghi.
– E sono molte le qualità di seta che i cinesi pongono in commercio? – chiese l'americano.
– Diverse – rispose il Capitano. – La qualità principale e più abbondante che mandasi in Europa è chiamata tsatlii, cioè dai sette fili. Ci sono poi le sete yuen-fâ o fiori di giardino, il cui filo è tanto sottile che spesso si rompe; le sete taysâm, le sete kaining, le sete sz'chueu e infine le sete verdi che danno il filo più ordinario. Il bozzolo cinese per lo più è bianco e il giallo prodotto dei nostri bachi d'Europa, appartiene alla qualità sz'chueu, la cui semente fu portata da alcuni frati bizantini nascosta entro bastoni.
– L'esportazione deve essere enorme, giacché tutti chiedono seta alla Cina.
– Dite prodigiosa. Vi basti sapere che dalla sola Shanghai nel 1845 se ne esportarono 10.127 balle di sessanta chilogrammi l'una e nel 1855 circa 50.000 balle. Malgrado l'esportazione e l'uso interno, la produzione è così grande che il prezzo della seta non fu ancora alterato e una veste di seta costa meno di una veste di cotone!
– E sono i cinesi che le dipingono così bene a fiori, a uccelli, a draghi, a paesaggi?
– Sì, i cinesi, che furono anche i primi a fabbricare i colori e a servirsene. L'America non era ancora scoperta che essi da secoli e secoli tingevano.
– Ecco un'altra scoperta da mettere al fianco di tante altre cinesi, sir James – disse il polacco, guardando l'americano.
Lo yankee, che temeva una seconda battaglia e una nuova sconfitta, stette zitto.
Essendo la notte assai inoltrata, si affrettarono, dopo la cena, a cacciarsi sotto la tenda. Min-Sì montò la prima guardia accanto al fuoco, veglia indispensabile in quei luoghi che parevano popolati da non poche belve.
Infatti, tigri e pantere non tardarono ad arrivare, mugolando, ruggendo e urlando, arrestandosi a poche centinaia di metri dalla tenda. Min-Sì fu costretto a condurre i cavalli presso il fuoco e a legarli ai pioli della tenda e gettare buon numero di tizzoni ardenti contro le fiere. Il loro concerto però durò tutta la notte, malgrado le frequenti detonazioni della carabina di James.
La marcia fu ripresa verso le quattro del mattino, attraverso alle grandi pianure dell'Yun-Nan e continuata per quattro giorni. Il quinto giorno, dopo di essersi lasciati addietro Kuè-Koa, città di qualche importanza che trovasi quasi sotto il tropico, i viaggiatori lasciavano la pianura salendo piccole alture coronate da certi alberi chiamati jaca, i cui frutti pesavano non meno di cento libbre.
L'americano, che aveva udito parlare assai di frequente di quei frutti e il cinese che li sapeva eccellentissimi, ne staccarono due, del peso di novanta e più libbre ciascuno, di colore verdastro cupo all'esterno, con corteccia grossissima, durissima, coperta da punte acutissime. Fu impossibile portarli via così, e l'americano, che non voleva abbandonarli, li aprì facendo uscire delle castagne bianche esalanti un gratissimo odore e buonissime a mangiarsi, specialmente arrostite.
Il 25 agosto i cavalieri salivano i pendii della catena dell'Yun-Nan, enorme accatastamento di montagne che stendesi nel cuore della provincia, dividendosi in tre ramificazioni, due delle quali volgonsi al sud entrando nel Tonchino e la terza verso il nord fiancheggiando il corso del Kou-Kiang.
Difficilissima e faticosa fu la salita fra spaventevoli burroni, numerosi crepacci che dovevano girare, fitte macchie, ripide rupi e magnifici torrenti che scendevano precipitando di balza in balza con assordante fragore. Di quando in quando scorgevansi sulle creste dei monti piccole torri, posti di guardia di soldati cinesi, villaggi in rovina, mura diroccate e giù, nelle gole o nelle lontane pianure, cittadelle e laghetti pittoreschi. A mezzodì i viaggiatori giungevano sulla cima della catena. Dopo un riposo di due ore scendevano il versante occidentale, che era ripidissimo.
Le vedute che si presentavano davanti ai loro occhi da quelle altezze, erano superbe. Montagne che alzavano verso il cielo le loro creste coronate da superbi alberi; burroni che mettevano le vertigini; boscaglie immense, probabilmente ancora vergini, torrentacci furibondi, laghi e stagni. Lontano lontano, verdeggianti pianure, piantagioni immense, villaggi appena visibili.
Il Capitano, che osservava attentamente quei luoghi, additò all'americano un aggruppamento considerevole di casette, i cui tetti giallastri scintillavano sotto i raggi del sole.
– È Mong-tse, – diss'egli – una città bene popolata, a quanto si dice.
– Viene a proposito – rispose l'americano. – Andremo a trovare un buon letto e un buon pranzo.
– Non vale la pena di arrischiare la nostra pelle per un pranzo, James. Abbiamo una tenda per dormire e viveri in quantità, senz'essere costretti a recarci laggiù.
– Eppure andrei volentieri a Mong-tse.
– Perché?
– Per cercare delle costolette, dei nidi di salangana e del whisky. Sono due mesi che non si vuota una bottiglia di liquore.
– A Mong-tse non troverete né nidi di salangana, né bottiglie di whisky.
– Ma troveremo dei beef-steak.
– Ce li procureremo noi cacciando.
– Cosa volete cacciare in questi paesi? Non vedete che tutte le bestie fuggono dinanzi a noi? Già, si capisce, sono bestie cinesi.
– Avete dimenticato le tigri, per caso? – chiese il polacco.
– Le tigri! Le tigri! – gridò l'americano punto sul vivo.
– Sì, quelle tigri cinesi che non ebbero paura di tener prigioniero su di un albero un cittadino della libera America.
– Taci, furfante! – esclamò l'americano. – Tu mi deridi, ma non per molto tempo. Se incontro una di quelle tigri...
– Cosa farete?
– La prenderò viva, la metterò su di un albero e a mia volta la terrò prigioniera.
La discesa del versante occidentale si operò senza incidenti e i viaggiatori, nel momento che il sole spariva dietro le foreste dell'ovest, raggiungevano la pianura.
Trovato un luogo acconcio per accampare, nel bel mezzo di una pianura circondata al nord e al sud da boschi e all'est da una piccola palude, rizzarono la tenda.
Il cinese montò, come sempre, la prima guardia, sedendosi presso il fuoco colla carabina armata. Cominciò subito un concerto indiavolato di miagolii, di brontolii, di urla, di ruggiti. Tigri e pantere venivano da tutte le parti, girando e rigirando attorno alla tenda e ai cavalli, tenute solamente in rispetto dal fuoco che spandeva all'intorno una vivissima luce.
Alla mezzanotte il polacco prese il posto del piccolo cinese. Udito il terribile concerto, riattizzò il fuoco, esaminò la carabina, si sedette ai piedi di un albero e accese la pipa tenendo gli occhi bene aperti, risoluto a farla pagar cara a quegli audaci predoni a quattro gambe.
Erano scorse due ore, quando un lungo fischio giunse alle sue orecchie. Si scosse subito girando all'intorno un rapido sguardo e scorse, a cinquecento passi dalla tenda, una massa tozza uscire da un gruppo d'alberi e dirigersi verso la palude.
Più sorpreso che spaventato, silenziosamente s'alzò per osservare meglio quell'animale a lui sconosciuto. Lo vide dapprima trottare con mosse ridicole, poi scagliarsi contro le canne e i cespugli come se fosse tutto d'un colpo impazzito, distruggere le piante che incontrava e, infine, gettarsi a terra e rotolarsi agitando in aria le gambe.
Il polacco incominciò a impensierirsi e un po' a spaventarsi, quando vide quel bizzarro animale tornare indietro di galoppo ed arrestarsi a duecento soli metri dal fuoco, mostrando una brutta testaccia munita di un lungo corno.
– Che vuole quel bestione? – si domandò il marinaio, mettendo in saccoccia la pipa e pigliando la carabina. – Che voglia assalirci?
Non sapendo come contenersi e poco persuaso che una sola palla bastasse per atterrare quella enorme massa, scivolò sotto la tenda e svegliò il Capitano.
– Che vuoi? – chiese Giorgio, stropicciandosi gli occhi.
– C'è fuori un animale grosso quanto un elefante e che mi sembra pazzo – disse il polacco.
Il Capitano si alzò e uscì. A cento passi vide l'animalaccio, cogli occhi fissi sul fuoco e la testa bassa come si preparasse a caricare.
– È un rinoceronte – disse. – Un vicino pericoloso, ragazzo mio.
– Che ci assalga? – chiese Casimiro.
– No, se lo lasci tranquillo. Finché il fuoco arde non si avvicinerà. Buona notte e buona guardia, Casimiro.
Il Capitano tornò nella tenda lasciando lì il marinaio, il quale, aggiunta nuova legna al fuoco, si gettò a terra colla carabina e le pistole montate.
– Se si avvicina, scaricherò tutto il mio arsenale – mormorò.
Il rinoceronte fortunatamente si tenne lontano. Girò due o tre volte attorno alla tenda poi si allontanò entrando nella palude.
Alle quattro del mattino il polacco svegliò l'americano avvertendolo della vicinanza del rinoceronte. Lo yankee, anziché mostrarsi spaventato, si stropicciò allegramente le mani.
– Oh! – esclamò. – Quest'oggi mangeremo costolette di rinoceronte!
Si assicurò che la carabina e le pistole fossero cariche e si sdraiò dietro ai cavalli aspettando l'occasione propizia per fare un bel colpo.
Il rinoceronte continuava i suoi salti e i suoi capitomboli fra i pantani e le acque della palude, gettando potenti fischi e sordi grugniti. Pareva davvero che fosse pazzo, poiché talvolta usciva dai pantani e si gettava furiosamente contro i cespugli della pianura riducendoli a brani. Nondimeno si teneva a più di mezzo miglio dalla tenda.
Per una buona ora l'americano pazientò, poi, stanco di aspettare, lasciò l'accampamento e andò ad appostarsi dietro alcuni alberi e a pochi passi dalla foresta.
Non attese molto. Il rinoceronte, dopo aver fatto strage di canne e di piante, si diresse verso i boschi coll'evidente intenzione di guadagnare il suo covo, se ne aveva uno. L'americano armò risolutamente la carabina e senza pensare al pericolo a cui esponevasi, rapidamente la puntò.
A centocinquanta passi lasciò partire il colpo. Udì un fischio acutissimo, poi vide il rinoceronte corrergli incontro colla testa bassa e il corno teso orizzontalmente.
L'americano, nel vedere quella massa enorme venire innanzi con rapidità incredibile, non ardì afferrare le pistole. Lasciò andare la carabina e si slanciò verso la tenda urlando:
– Aiuto, Giorgio! Aiuto, Casimiro!
Quelle grida erano inutili, poiché i suoi compagni, già svegliati dalla detonazione della carabina, stavano uscendo colle armi in mano.
– Ai cavalli! Ai cavalli! – gridò il Capitano.
Scaricarono a casaccio le carabine e si slanciarono sui cavalli, i quali, sentendosi liberi, si precipitarono attraverso la pianura. L'americano era subito salito sul suo destriero e lo frustava spietatamente.
Il rinoceronte, mal servito dai suoi piccoli occhi, non si accorse della loro fuga e si gettò contro la tenda, che in pochi istanti lacerò, disperdendo pentole, spiedi, tondi, munizioni, vesti e viveri. Nel pigliare la rincorsa scoprì i cavalieri che galoppavano in diverse direzioni cercando di caricare le carabine.
Gettò un rauco grido, abbassò la testa e ripartì colla rapidità di una saetta, inseguendo il cavallo del polacco che era il più vicino.
Lo slancio fu così impetuoso che in brevi istanti fu alle spalle del povero ragazzo, il cui cavallo, spaventatosi, andava a casaccio non obbedendo più alle briglie.
– Aiuto, Capitano! – urlò il marinaio atterrito.
Tirò risolutamente il coltello e lo piantò nel collo del cavallo; questo, in due salti, fu dentro la palude, ma, percorsi quaranta metri, cadde tirando sotto di sé il cavaliere.
Il polacco gettò un secondo urlo:
– Aiuto, Capitano! Aiuto!
Il rinoceronte caricava con furia irresistibile, col corno basso, pronto a sventrare le due vittime. I suoi occhietti mandavano fiamme e i suoi denti stridevano.
Si gettò dentro la palude facendo schizzar per aria sprazzi d'acqua melmosa e si diresse, sprofondando sempre più, verso il polacco che cercava, ma invano, di liberarsi dal cavallo.
– Coraggio, Casimiro! – gridò ad un tratto una voce.
Il polacco lanciò uno sguardo disperato verso la pianura. Il Capitano e l'americano, curvi in sella, si dirigevano di carriera verso di lui.
A quaranta passi di distanza lo yankee discese da cavallo, corse nella palude e scaricò le sue pistole, ma senza buon esito.
– Attenzione! – gridò in quell'istante il Capitano.
Abbandonato il cavallo al cinese, si era inginocchiato a terra e mirava l'occhio destro del rinoceronte. Il colpo partì. L'enorme bestia cacciò fuori un acuto fischio, traballò, alzò e abbassò la testa, fece due o tre passi, poi cadde pesantemente in mezzo al fango.
– Urrah! Urrah! – tuonò l'americano, liberando Casimiro.
Il cinese, Giorgio, James e il polacco si diressero verso l'animale.