La Scimitarra di Budda/21. Il passaggio del Kou-Kiang

21. Il passaggio del Kou-Kiang

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21.

IL PASSAGGIO DEL KOU-KIANG


Il rinoceronte, colpito in un occhio dalla infallibile carabina del Capitano, non dava più segno di vita. Giaceva rovesciato sul fianco dritto, col corno sprofondato nel fango, le gambe tozze e grossissime in aria e la bocca aperta.

Quell'animalaccio, brutto fra i brutti, il più pericoloso di tutti, coperto da una pelle durissima che sfida le lance e le palle, misurava quattro metri e mezzo. Era, si può dire, uno dei più grandi della sua razza.

– Che massa di carne! – esclamò l'americano che girava attorno al cadavere.

– Guarda, Casimiro, che piedi! Se te ne metteva uno sul corpo, faceva una frittata.

– Ma saremo noi che faremo di lui una frittata – disse il polacco, che tremava ancora.

– Una frittata! Mai più, ragazzo mio, lo metteremo allo spiedo così intero.

– E dove troveremo lo spiedo? – chiese il Capitano. – Ci vorrebbe una sbarra di ferro grossa quanto un albero di maestra.

– Non monta; faremo bistecche – disse l'americano.

– Con quella carne lì? È più coriacea di quella di un tapiro. I cinesi stessi la sdegnano.

– I cinesi! – esclamò l'americano. – Ma ammazzano siffatti mostri?

– Sì, e meglio di noi.

– Ma se questi animali sono corazzati come i vascelli da guerra!

– Li prendono col fucile.

– In quale modo? Non ho io veduto le palle delle mie pistole schiacciarsi sulla pelle?

– Aspettano che il rinoceronte si addormenti, poi si avvicinano e lo colpiscono nel ventre, che non è corazzato. La ferita è sempre mortale.

– Se l'avessi saputo avrei imitato i cinesi – disse l'americano. – Orsù, mano ai coltelli e stacchiamo... che cosa, Giorgio?

– Un piede, che è un boccone passabile, a quanto si dice.

– E poi il corno, che è avorio magnifico e vale denaro.

Impugnarono i bowie-knife e non senza fatica staccarono il pezzo scelto che affidarono al piccolo cinese. L'americano si provò a sventrare il colosso per levare qualche beef-steak, ma dovette rinunciarvi, tanto la corazza era resistente! Cercò di tagliare il corno, ma dopo due ore si convinse che senza accetta non ci sarebbe mai riuscito.

– Questo bestione è una fortezza che non si può demolire – disse tergendosi il sudore che scendevagli in gran copia. – Eppure è una bestia cinese.

La colazione fu fatta sull'orlo della palude. Il piede, ben arrostito dal cinese, fu all'unanimità dichiarato non inferiore alla tromba dell'elefante, alla gobba del bisonte, allo zampone d'orso. Tutti replicarono per vendicarsi del brutto quarto d'ora passato. Alle nove del mattino, raccolti i viveri, le vesti e le munizioni che il feroce animale aveva disperso per la pianura, ripartivano per raggiungere la catena occidentale dei monti Yun-Nan.

Faceva assai caldo. Un sole ardentissimo versava torrenti di fuoco sulle loro teste e sui cavalli, i quali, benché abituati a quel clima, pareva soffrissero assai.

La pianura che si stendeva dinanzi a loro era magnifica. Era una vera prateria, che ricordava per la sua estensione, per l'altezza delle sue erbe e per la quantità di bufali e di cervi, le grandi praterie dell'Arkansas. Un mandriano avrebbe fatto fortuna.

In distanza, sulla cima di alcune verdeggianti colline, scorgevasi ancora qualche capannuccia, qualche torre diroccata e qualche bonzeria, ma nessuna di quelle ricche carovane che vanno dal Tonchino a Mong-tse, trasportando ogni sorta di merci. Qua e là però si vedevano tracce recenti del loro passaggio.

Verso mezzodì, sulla destra, venne segnalato un bosco, i cui alberi fermarono l'attenzione del Capitano.

– Dei tsi-chu – diss'egli.

– Volete dire dei frassini? – chiese l'americano. – O m'inganno di molto, o quelli sono frassini, giacché ne hanno tutta l'apparenza.

– V'ingannate, James. Quelli sono gli alberi che producono la preziosissima vernice cinese.

– Io credeva che quella magnifica vernice fosse composta di diverse materie.

– Per molti e molti anni lo credettero tutti gli europei.

– Ma come e quando si raccoglie?

– In estate, quando la pianta ha compiuto il suo pieno sviluppo, si fanno sulla corteccia delle incisioni oblique, dalle quali scola un umore rossastro e assai gommoso. Quel liquido è la vernice.

– E ogni albero ne dà molta?

– Una quantità così piccola che occorrono mille piante per raccoglierne venti libbre. È per ciò che vendesi a peso d'oro.

– È facile la raccolta?

– Pericolosissima: i raccoglitori sono costretti a coprirsi le mani con guanti di pelle, la testa con una maschera, i piedi e le membra con grosse vesti di cuoio e il viso con una materia oleosa. Senza queste precauzioni, le esalazioni del liquido non tarderebbero a cagionare atroci dolori, gonfiezze in tutto il corpo e ulcere vive. Ogni anno molti raccoglitori vi lasciano la vita.

– È un veleno, dunque?

– Peggio che un veleno. L'upas1 non è tanto terribile quanto il tsi-chu.

– E appena estratta si adopera subito questa vernice?

– Mai più. Bisogna prima purificarla facendola filtrare attraverso una tela chiara e poco tessuta, poi, giunta che sia ad uno stato di conveniente fluidità, la si applica ai legnami unti precedentemente con un po' d'olio. Due o tre strati bastano perché diventi così lucente da sembrare una leggera lastra di vetro.

– E voi dite che la si paga a peso d'oro?

– Anzi più dell'oro.

– Giorgio, là vi sono delle migliaia di alberi. Non si potrebbe...

– Siete matto? – lo interruppe il Capitano che capì dove mirava. – E poi, dove volete metterla che abbiamo una sola pentola?

– Avete ragione, ma non scorderò però questo luogo. Se un giorno mi troverò a secco di denari, verrò qui a fare fortuna.

La marcia fu ripigliata attraverso un gran numero di piccole paludi e di corsi d'acqua poco profondi, ma impetuosissimi, che andavano senza dubbio a scaricarsi nel Kou-Kiang.

Il paese a poco a poco cambiava aspetto. Alla deserta pianura succedevano deliziose collinette e villaggi bene popolati, attorno ai quali pascolava grande numero di buoi, di cavalli e di cervi addomesticati. Nelle piantagioni si vedevano non pochi contadini e anche qualche carovana si scorgeva, in viaggio per Mong-tse, o per Santschao o per le province di Laos.

Alle quattro gli avventurieri fecero una breve fermata sulle rive di un vasto lago per dare un po' di riposo ai loro cavalli, mezzo slombati dalle lunghe corse; poi intrapresero la salita dell'ultima catena di monti, dietro la quale scorreva il Kou-Kiang.

Fortunatamente c'erano qua e là dei sentieri che anticamente dovevano aver servito alle carovane.

Dopo aver varcato profondi burroni sopra ponti malfermi e aver attraversato fitte foreste, giunsero verso il tramonto sulle cime della catena.

L'americano, che erasi recato ad una sorgente ad attinger acqua, nel ritorno avvertì i compagni di aver veduto un gran fuoco ardere sulla cima di un monte, un mezzo miglio verso l'ovest.

– Saranno montanari – disse il Capitano.

– E perché non banditi? – chiese l'americano.

Il Capitano lasciò la tenda e si spinse fino sulla cresta del monte.

– Guardate – disse l'americano, che lo aveva seguito. – Guardate soprattutto quei fasci d'armi che scintillano al chiarore della fiamma. Quegli uomini sembrano banditi che bivaccano alle falde della Sierra Verde.

Giorgio esaminò attentamente quei pretesi banditi e quindi li contò uno a uno.

Dalle loro divise azzurre listate d'arancio che spiccavano vivamente sulla cortina di fiamme, li riconobbe per soldati cinesi.

– Quegli uomini non ci inquieteranno, James – disse. – Sono soldati che bivaccano ai piedi d'una torre semidiroccata.

– Se si tratta di soldati cinesi non me ne preoccupo più. Sono gli uomini più vigliacchi che esistano. I topolini hanno più coraggio di quei musi gialli.

– Non dite tante cose in una volta, James.

– E che? Vorreste dire che i soldati cinesi hanno del coraggio?

– Sicuro che ne hanno. Se non fossero oppressi dall'antimilitarismo, se non fossero disprezzati dai grandi, dai letterati, dagli imperatori, sarebbero eccellenti soldati.

– Come! – esclamò l'americano indignato. – I militari sono disprezzati?

– Sì, James. I cinesi vi esaltano un letterato e vi disprezzano un soldato.

– Oh che gonzi!

– E aggiungo che invece di porre nelle loro mani libri di guerra, danno libri di morale che altro non insegnano che ad aver in orrore il sangue.

– Oh che asini! Sono almeno mantenuti bene quei poveri diavoli?

– Non molto, James; ma il cinese si accontenta di poco. Al fantaccino il governo passa quattro once d'argento al mese e al cavaliere sei e due misure di fave pel suo cavallo.

– E sono bene armati?

– Peggio non lo potrebbero essere. Chi ha la carabina, chi ha il fucile a pietra, chi l'archibugio a miccia, chi la lancia, chi la sciabola, chi l'arco, chi due baionette. In un reggimento non vi sono trenta armi eguali.

– Trattasi dunque di un esercito disorganizzato e male armato.

– Purtroppo, ma si organizzerà e si armerà bene. La Cina si è accorta che bisogna svegliarsi per tener testa all'invasione dei bianchi e comincia a muoversi. Le sue giunche da guerra cominciano già a sparire per dar luogo ai vascelli; la freccia a poco a poco scompare per dar luogo al fucile; l'antico cannone tramonta per dar luogo al nuovo pezzo d'artiglieria che rugge sui campi di battaglia europei. Chissà, forse un giorno la Cina sarà armata come l'Inghilterra e l'America. Non le mancano le risorse, ma gli uomini di buona volontà.

Il Capitano ritornò alla tenda seguito dall'americano.

Il 28 agosto, prima delle dieci del mattino, i viaggiatori avevano compiuta la discesa dei monti e galoppavano verso il Kou-Kiang, che scorreva in una vasta vallata coperta da piantagioni di canne di zucchero. In breve tempo i cavalli varcarono le piantagioni e trasportarono gli impazienti cavalieri sulle rive del fiume, che nasce ai confini settentrionali dell'Yun-Nan e dopo un lungo corso scaricasi nel Lisien-Kiang.

Il Capitano balzò a terra per vedere se era possibile attraversarlo, ma le acque erano profondissime e nessun ponte appariva né al sud né al nord. Fortunatamente, a cinque o seicento passi più sopra, c'era una capannuccia, dinanzi alla quale cullavasi un largo battello.

– Avanti, amici – diss'egli.

Udendo il nitrito dei cavalli, un cinese di forme vigorose, stracciato, armato d'un bambù, uscì dalla catapecchia, ma, vedendo i viaggiatori, si diede alla fuga. L'americano, che si aspettava quel tiro, in due salti gli fu alle spalle pigliandolo per un orecchio.

– Ehi! – gridò. – Non fare il cattivo, se non vuoi che ti strappi la coda. Non siamo briganti noi, ma galantuomini della più bell'acqua.

Min-Sì cercò di rassicurare il barcaiolo, il quale guardava sospettosamente gli stranieri, meravigliato di vederli senza coda e senza occhi obliqui.

– Chi sono? – egli chiese.

– Che t'importa sapere chi sono e dove vanno? Quando ti dico che pagheranno principescamente, accontentati.

Il barcaiolo non parve soddisfatto e cercò di battersela, ma l'americano senza tanti complimenti lo prese pel collo e lo gettò nella barca.

– Andiamo, birbante – gridò. – Non bisogna fare il mulo coi galantuomini, né urlare quando non si hanno denti per mordere.

L'americano, il cinese e due cavalli entrarono nella barca che prese tosto il largo. Giorgio e il polacco cogli altri due cavalli rimasero sulla riva.

La barcaccia, malgrado gli sforzi dell'americano e del cinese che avevano preso le pagaie, anziché tagliare il fiume lo discese per un tre o quattrocento metri, minacciando di infrangersi contro un isolotto boscoso. I due passeggeri s'accorsero subito che il barcaiolo stava per giuocare un brutto tiro all'americano e al cinese.

– Sir James, – gridò il polacco – state in guardia!

L'americano lo comprese. Saltò addosso al barcaiolo mettendogli il bowie-knife alla gola.

Il povero diavolo, atterrito, si mise a strillare come se lo si volesse accoppare.

– Non irritarmi! – tuonò James. – Se non mi conduci sano e salvo alla riva, ti sgozzo come un montone.

Il barcaiolo riprese la pagaia e la barca fendette obliquamente la corrente, ma per poco tempo. Mal diretta, malgrado gli sforzi dell'americano e del cinese, tornò a deviare, andando attraverso i banchi contro i quali rompevasi furiosamente la fiumana.

Ad un tratto s'udì un cozzo violento. La barca aveva urtato contro uno scoglio e si era sfondata.

L'americano e il cinese, vista la riva vicinissima, balzarono sui cavalli e si posero in salvo, lasciando il barcaiolo sul rottame.

– James! – gridò il Capitano.

– Sono in salvo! – rispose l'americano. – Ma come passerete voi?

– A nuoto. Questo fiume non è tale da spaventarci.

– Cane d'un barcaiolo! Ci ha corbellati come fossimo ragazzi!

– Passeremo egualmente, James.

Il Capitano e il polacco si spogliarono delle vesti, si legarono sulle spalle le coperte, le armi, le provvigioni da bocca e da fuoco, salirono in groppa ai cavalli ed entrarono nel fiume, mentre il barcaiolo veniva trascinato via col suo rottame.

L'acqua era profonda e correva con una certa rapidità, ma i marinai erano abili e i cavalli ancora vigorosi. Dopo aver girato più volte dentro i vortici e di essersi lasciati trasportare dalla corrente, giunsero sani e salvi sulla riva opposta.

– Bravo Capitano – disse Min-Sì.

– E bravo Casimiro – aggiunse l'americano. – Ma dove siamo noi?

– Dove? Guardate lassù sulla riva destra del fiume – disse il cinese. – Cosa vedete?

– Una città!

– È Yuen-Kiang.


Note

  1. Albero velenosissimo della Malesia. Le esalazioni del succo cagionano dolori e non di rado la perdita intera dei capelli.