La Scimitarra di Budda/19. Il Miao
Questo testo è completo. |
◄ | 18. I nuotatori | 20. Il rinoceronte | ► |
19.
IL MIAO
La provincia di Yun-Nan che succede a quella di Kouan-Sì, è una delle più vaste, delle più fertili, delle più belle, ma anche delle meno conosciute del grande impero cinese.
Si estende fra il 21° 40' ed il 28° di latitudine nord e il 96° e 103° di longitudine est, su una lunghezza di duecento leghe e una larghezza di centocinquanta. È divisa in venti dipartimenti o fu, come chiamansi in Cina, ma appena conosciuti di nome, malissimo delineati sulle carte geografiche, alcuni popolarissimi, altri quasi affatto spopolati e selvaggi, privi di vie di comunicazione, percorsi qua e là da catene di montagne ricche di miniere d'oro, d'argento, di rubini, di zaffiri e di altre pietre preziose e di alberi dalle gomme ricercatissime e di piante medicinali, delle quali si esportano grandi quantità. Le città si possono contare sulle dita, ma sono molto popolose e molto industriali. Quella di Yun-Nan, dalla quale prende il nome la provincia, è vastissima, popolata da ben due milioni e trecentomila abitanti, posta in una posizione amena, presso le rive di un lago, e comunicante con altri centri popolosi per mezzo di numerosi canali. Gode già non poca celebrità per l'industria dei metalli, dei tappeti e di certe stoffe di seta che si chiamano tonhaitoanesc.
Altre sono pure importantissime e non ultima quella di Yuen-Kiang, dentro le cui mura gli arditi avventurieri condotti dal capitano Giorgio Ligusa speravano di rintracciare la famosa Scimitarra del dio asiatico e vincere la scommessa di ventimila dollari fatta in una sera di maggio fra il Ligusa e il signor Cordonazo boliviano.
Da quindici giorni il Capitano e i suoi compagni, James, Casimiro e il piccolo cannoniere-spaccamonti, dopo essere usciti sani e salvi dalla inondazione e di esser scappati ai banditi, marciavano attraverso questa grande provincia, per sentieri fuor di mano, ora percorrendo grandi pianure, ora boscaglie fittissime, sotto cui miagolavano grosse tigri, correvano i rinoceronti, grugnivano in gran numero i tapiri, ora traghettando corsi d'acqua sopra zattere, ora attraversando selvagge montagne, dove ben di sovente si smarrivano e soffrivano la fame e la sete.
Verso la metà dell'agosto, spossati dalle lunghe marce, dimagriti dalle privazioni, ingialliti dalla mala aria delle paludi, li ritroviamo accampati ai piedi di una catena di montagne, le cui cime già da qualche ora erano scomparse fra le ombre della notte.
I disgraziati da undici ore non mangiavano e non possedevano né un pugno di riso, né un pizzico di thè, né un sorso di liquore.
– Signor cuoco, – disse l'americano, che non aveva perduto il suo buon umore – cosa mi date per cena?
– Un sorso d'acqua fresca e un pezzo di canna da zucchero – rispose il polacco.
– Auff! – esclamò lo yankee, grattandosi furiosamente la testa. – Sono già tre giorni che si mangia di questa roba. Per poco che la continui, andrò a trovare ben presto compare Belzebù. Non hai una costoletta, magari d'oca?
– Neanche di piccione.
– È un affare serio.
– Non dico di no.
– Se io vado a dormire senza cena, domani sarò morto. E non un animale in vista, nemmeno un volatile! Così non può durare e vi dico chiaro e tondo, mio caro Giorgio, che se vedo una borgata non la eviterò più e farò tante provviste da averne per dodici mesi.
– E vi farete accoppare – disse il Capitano. – Basta che ci facciamo vedere in qualsiasi villaggio, perché tutti gli abitanti diano mano alle armi e urlino: «Dalli agli stranieri! Al fiume! Ammazza! Abbrucia!».
– Ma io non fuggirò più, vi ripeto, e affronterò gli abitanti e anche i soldati. Che diavolo! Cosa siamo noi? Ho le gambe che minacciano di non funzionare più, il ventre sempre vuoto, i denti rovinati da quelle eterne canne di zucchero, che da tanti giorni formano il piatto principale e spesso unico dei nostri magri pranzi.
– Pazienza un po', James.
– Pazienza non ne ho più, vi dico, e se le cose non cambiano, non farò un passo innanzi. M'avete detto che non siamo lontani da una città che si chiama Tou-fou-tcheou; andiamo là adunque a provvederci di cavalli e di viveri.
– E vi dimenticate che colà ci sono dei soldati?
– Peuh! Dei soldati cinesi! – esclamò l'americano con profondo disprezzo. – Basteranno pochi colpi di fucile per farli fuggire a rompicollo.
– Vi siete scordato la ritirata su pei tetti di Tchao-King?
– No, ma qui siamo nell'Yun-Nan, e poi noi siamo bianchi e abbiamo del coraggio, mentre i cinesi sono poltroni e codardi.
– Voi esagerate, James, e prova ne sia che i cinesi hanno conquistato più di mezza Asia.
– Allora sono sciocchi.
– Che dite mai? Io credo fermamente che questo popolo, che voi tanto disprezzate, non sia da meno di quello a cui voi appartenete.
– E che! – esclamò lo yankee, che cominciava a scaldarsi. – Vorreste dire che gli americani sono a livello dei cinesi?
– Sì, James, e ve lo posso dimostrare e dirvi anche che i cinesi formavano già un gran popolo, molto civilizzato e molto industriale quando non si sapeva ancora che esistesse un'America.
– Non vi credo.
– Eppure è proprio così, James. I cinesi appartengono ad una razza che si inoltrò nella via della civiltà prima ancora degli egizi, dei greci e dei romani, ad una razza che era già gigante quando quella bianca era appena sorta, una razza infine che quando la bianca avrà spento con la sua terribile civiltà malesi, indiani, africani e pellirosse, ci darà una terribile battaglia prima di lasciarsi assorbire. Stia in guardia la nostra razza, James: può darsi che rôsa dai vizi, minata dai partiti e divisa abbia a soccombere il dì del grande urto. Noi siamo molti, è vero, ma siamo anche discordi, mentre i cinesi sono molti pure e tutti uniti.
L'americano stava per ribattere, quando la sua attenzione fu attirata da una viva luce che brillava sulla cima di una montagna non molto lontana dall'accampamento.
– Oh! – esclamò egli. – Cosa vedo lassù? Un castello o una borgata? Amici miei, io sento l'odore delle costolette.
Il Capitano, Casimiro e Min-Sì guardavano nella direzione indicata, e al chiarore di numerosi fuochi scorsero un bizzarro edificio di stile cinese, munito di piccole torri terminanti a punte ricurve, piantato sulla vetta di una grande rupe che pareva tagliata a picco.
– È un castello – disse Casimiro.
– No, – rispose il piccolo cinese dopo aver osservato attentamente quello stesso edificio – è un Miao.
– Un Miao! – esclamò James. – Cosa significa ciò?
– È una specie di monastero riservato ai bonzi o sacerdoti di Budda – rispose il Capitano.
– E troveremo lassù qualche cosa da porre sotto i denti?
– Lo spero, James. So che i bonzi fanno buona accoglienza ai viaggiatori.
– Ma come mai si trova un monastero in queste selvagge e deserte regioni?
– Vi dirò che in Cina questi monasteri si trovano per lo più in luoghi quasi disabitati e talvolta quasi inaccessibili.
– E ve ne sono molti?
– Moltissimi, delle migliaia, anzi taluni contengono enormi ricchezze e hanno torri coperte di lamine d'oro e centinaia di idoli dello stesso metallo e di argento.
– Allora andiamo al Miao – disse l'americano. – Troveremo la via?
– La troveremo – rispose Min-Sì.
– Allora in cammino.
Levarono il campo e si diressero verso i monti e precisamente là dove ardevano i fuochi.
Dopo mille giri e rigiri attraverso vallette e burroni, e dopo essersi più volte smarriti e ben spesso riposati per rimettersi un po' in gambe, verso l'alba riuscivano a scoprire il sentiero che menava al Miao. Era erto assai, tagliato da fossati, da torrenti e da profondi crepacci e sparso di sassi aguzzi, ma i viaggiatori, che morivano di fame e avevano bisogno di un buon riposo, con un ultimo sforzo superarono tutti quei diversi ostacoli, e verso le otto si arrestavano dinanzi all'edificio, il quale, parte costruito in legno e parte in mattoni crudi, si addossava ad una rupe che Min-Sì asseriva essere scavata.
– Cercate di non mostrarvi troppo curiosi – disse il cinese. – Se i bonzi sospettano in noi delle spie, sono capaci di mettere dei potenti veleni nelle vivande.
La porta era aperta; essi entrarono girando intorno gli occhi. Il tempio era poco vasto, male illuminato, zeppo di idoli d'ogni grandezza, dinanzi i quali bruciavano, sopra vasi di bronzo, preziosi incensi e polvere di sandalo dal dolce profumo.
Un bonzo, con una lunga sottana di seta gialla, un cappello armeno in testa, e corone di osso ai fianchi, senza dimostrare sorpresa o timore, mosse loro incontro salutandoli cortesemente.
Min-Sì si affrettò a spiegare ciò che desideravano i suoi compagni, cioè un pranzo, dei viveri e possibilmente dei cavalli per continuare il viaggio. Il bonzo lo ascoltò in silenzio, poi, un po' sorpreso di vederli in così piccolo numero e così male in arnese intraprendere un così lungo viaggio, li assicurò che avrebbe fornito a loro viveri abbondanti e cavalli, che avrebbe mandato a comperare in un villaggio poco lontano.
Intanto che allestivano la colazione, quel buon bonzo condusse i viaggiatori a visitare il tempio, introducendoli in una vasta grotta, capace di contenere duecento e più persone e illuminata da una cinquantina di lampade di talco. Nel mezzo elevavasi una rupe, alta assai, scavata in mille forme, con gradinate per salirla, con iscrizioni bizzarre e gran numero di nicchie entro le quali si celavano degli idoletti di legno, di pietra, di rame e d'argento. Sulla cima poi, giganteggiava Fo, il patrono del tempio, un colosso di due metri, di pietra nera e di orribili lineamenti.
Terminata la visita, il bonzo condusse i visitatori in una terza grotta assai più piccola, illuminata da piccole feritoie aperte nella roccia, in mezzo alla quale una tavola bassissima piegavasi sotto il peso di numerosi piatti di porcellana pieni di pasticci di riso, di pesce secco alla salsa piccante, di frutta candite e di castagne d'acqua.
I cibi non erano molto svariati, ma vi era di che nutrire venti uomini della fatta di James. Immaginatevi se i viaggiatori, che avevano lo stomaco vuoto, non ne approfittassero!
Alla fine della colazione tre altri bonzi vennero a tenere compagnia agli avventurieri, regalandoli di larghe focacce fatte con una specie di farina che si estrae dal tronco di un albero comunissimo nel Kouan-Sì e nell'Yun-Nan.
L'americano, sempre ghiottone, ne mangiò una buona dozzina dichiarandole eccellenti.
Al thè la conversazione si appiccò animatissima.
Si parlò della Cina, della Scimitarra di Budda, dell'Europa, dell'America e, soprattutto, delle numerose religioni cinesi.
– Ditemi: – disse ad un certo punto il Capitano – ammettete voi che anticamente i cinesi avessero una religione?
– Certamente – rispose uno dei bonzi che sembrava di gran lunga più istruito degli altri. – Non vi dico che allora adorassero Fo, Budda o Confucio, ma rendevano omaggio a Tien (il cielo), e a Chan-ti l'Ente Supremo che creò la terra e gli astri come il vostro Dio, e che fu il padre di tutti i popoli. Eterno, giusto, immutabile, Chan-ti vedeva tutto, scrutava il più profondo dei cuori umani, dirigeva il moto della terra e degli altri mondi, puniva il delitto e il vizio, premiava le virtù, creava o precipitava gli imperatori e avvertiva gli uomini della sua collera, perché si pentissero a tempo. Una parte di questa religione si è conservata anche oggi.
– E questi primi popoli offrivano sacrifici a questo Chan-ti?
– Certamente – rispose il bonzo. – Si costruivano, dentro un circolo di rami d'albero e di zolle, due altari semplicissimi, chiamati tane, sui quali l'imperatore offriva sacrifizi agli spiriti superiori e agli antenati.
– A quei tempi non si conosceva ancora la religione di Fo?
– No, poiché la religione di Fo fu introdotta in Cina solamente verso il sessantesimo quinto anno dell'era vostra, ai tempi dell'imperatore Han-Ming-Ti.
– Ma da dove venne questa nuova religione?
– Dall'India, e la introdusse in Cina un bonzo portando le immagini del dio e i quarantadue capitoli della religione dipinti su di una tela. Quel bravo uomo fece tanti proseliti, che alla decima luna dello stesso anno si era di già innalzata una statua a Fo. Le popolazioni tutte l'adottarono con grande entusiasmo, appoggiandola caldamente il principe di Tcheon, e si fondarono in quasi tutte le province gran numero di Miao e bonzerie.
– E in che consiste questa religione? – chiese l'americano.
– Nell'amore e nella pietà degli uomini verso ogni essere vivente, non esclusi i più piccoli animali.
L'americano fu lì lì per scoppiare in una grande risata. Un rapido e minaccioso sguardo del Capitano gli chiuse prontamente la bocca.
– L'anima d'ogni uomo e d'ogni animale che muore – continuò il bonzo – passa in un altro corpo più nobile o più schifoso, secondo i meriti del defunto.
– Sicché voi, dopo morto, potete rivivere nel corpo di un rinoceronte? – disse l'americano che frenava con grande pena le risa.
– Potrebbe darsi! – rispose gravemente il bonzo.
– Ma è ben vista dall'attuale imperatore la vostra religione? – chiese Giorgio.
– Per nostra disgrazia, no. Se potesse scacciare tutti i seguaci di Fo, lo farebbe.
– E perché non vi scaccia? – domandò l'americano.
– Perché bisognerebbe che scacciasse la metà del suo popolo. Del resto, non crediate che tutti gli imperatori abbiano odiato la nostra religione. Contiamo un imperatore e un'imperatrice che abbracciarono la grande e vera religione di Fo: Cu-ti, della dinastia dei Leang, che entrò in una bonzeria e che vi sarebbe rimasto per sempre se non fosse stato strappato dai grandi, che dovettero pagare una grossa somma di denaro per scioglierlo dal giuramento, denaro che portò un colpo terribile nella nostra setta, poiché gran numero di seguaci, sdegnati, rinunciarono e maledirono la religione; l'imperatrice Hou-Ki, moglie dell'imperatore Leang-ou-ti, la quale, dopo aver fondato un magnifico tempio a Fo, si fece bonzessa tagliandosi i magnifici suoi capelli. Disgraziatamente venne arrestata dall'imperatore Yung-tse-gu e annegata nell'Hoang-ho.
– Sicché, nessuno dei due morì bonzo – disse l'americano con accento beffardo.
– Nessuno – rispose il bonzo aggrottando lievemente le ciglia.
Min-Sì credette di scorgere un minaccioso lampo balenare negli occhi del bonzo e, temendo un conflitto, tagliò la conversazione chiedendo il permesso di recarsi a riposare per ripartire l'indomani all'alba.
I bonzi condussero i viaggiatori in una stanzetta tappezzata di graticci di bambù e freschissima, dove soffici stuoie surrogavano i letti: James, il Capitano, il polacco e il cinese, dopo essersi assicurati che non vi erano entrate segrete ed aver barricata la porta, si sdraiarono sulle stuoie addormentandosi profondamente.