La Scimitarra di Budda/16. L'inondazione

16. L'inondazione

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15. Il bandito Teon-Kai 17. Due giorni nella grotta di Koo-tching

16.

L'INONDAZIONE


I cavalli che il generoso bandito aveva regalato ai viaggiatori erano buoni animali di razza tonchinese, piccoli quanto i ronzini di Sardegna, dal mantello rossiccio, la testa leggera, l'occhio vivo e intelligente e i garretti di ferro.

Non sono i cavalli tonchinesi eccellenti corridori, ma resistono alle marce tanto in pianura che in montagna, accontentandosi di poche manate di foglie e di una sorsata d'acqua alla prima sosta.

Il bandito non aveva solo regalato i cavalli, ma anche molte provvigioni che aveva fatto caricare dietro le selle cinesi, le quali erano fornite di staffe corte all'orientale e di una grande gualdrappa di grosso panno che poteva servire anche di coperta d'accampamento.

Il bravo yankee, ancora entusiasmato dalla munificenza di Teon-Kai, non stava un momento fermo. Gridava, sferzava i cavalli, tastava le provvigioni e cacciava in bocca manate di frutta secche e baciava, forse troppo caldamente, i fiaschi di chou-chou che pendevano in gran numero dalle selle.

– Chi avrebbe detto – esclamò egli – che quel bandito, dopo aver minacciato di farci in pezzettini, ci avrebbe regalato tutto ciò? Quel tonchinese, ve lo dicevo, amici, è il più grande uomo che ci sia in tutta l'Asia. Sono sorpreso e scombussolato. Urrah per Teon-Kai! Urrah!

– Non metteteci tanto ardore, James – disse il Capitano ridendo. – Quell'uomo è il più birbone che io abbia incontrato in mia vita.

– Cosa dite? – chiese l'americano scandalizzato. – Volete impicciolirmi quel grand'uomo?

– Siete troppo severo, Capitano – disse il polacco, non meno entusiasmato dell'americano.

– Son giusto, amici – ribatté Giorgio. – Non sarei sorpreso se questa notte le sue orde ci piombassero addosso.

– Voi esagerate! – esclamò il testardo yankee. – Un uomo così generoso non può avere pel capo simili idee.

– Non avete udito, James, le parole che ci disse nel congedarci? E non avete notato quello sguardo?

– Infatti non avete torto, ora che ci penso. Che ne dici, Min-Sì, di quell'uomo?

Siè! – rispose semplicemente il cinese.

Siè? Che significa questa parola? Forse eccellente uomo?

– Tutt'altro, James – disse Giorgio. – Siè vuol dire menzognero, falso, uomo che ha due lingue e due coscienze.

– Devo credervi?

– Ma sicuro.

– Se lo dite voi deve esser vero, poiché dovete conoscere meglio di me i briganti.

– Per quale ragione? – chiese Giorgio sorpreso.

– Siete italiano e l'Italia è la patria dei briganti.

– L'Italia è la patria dei briganti? Siete anche voi uno di quelli che credono a simili fole?

– Me l'affermò con tutta serietà un inglese che cadde nelle loro mani mentre viaggiava negli Abruzzi.

– Quell'inglese era un burlone, James. A udire i francesi e gli inglesi, l'Italia è zeppa di briganti, mentre ve ne sono assai di più in Spagna, a Londra e a Parigi.

– A dire il vero, le due metropoli non scarseggiano né di assassini, né di ladri. Ah!

– Cosa c'è?

– Torna a piovere.

– Brutta cosa, James. Orsù, fuori le coperte e allunghiamo il passo; in questo terreno mi sento poco sicuro.

I cavalli, attraversate alcune collinette, entrarono in una grande pianura coperta qua e là di boschetti di ananassi, magnifiche piante adorne dal piede alla cima di grandi foglie lunghe non meno di un metro e larghe tre o quattro pollici, dal centro delle quali si staccano dei gambi carnosi, grossi, coperti all'intorno di grandi mazzi di frutta di un giallo lucente e a scagliette triangolari.

L'americano, malgrado fosse carico di provviste, ne fece una bella raccolta e li dichiarò eccellenti; e non aveva torto poiché anche le popolazioni indocinesi li chiamano «re delle frutta».

A mezzodì, dopo aver percorso una ventina di miglia, fecero una fermata per dar riposo ai cavalli e per preparare il pranzo.

L'americano riprese le sue funzioni di gran cuoco della spedizione e mise sui carboni ardenti un gran beef-steak di sei chilogrammi che aveva trovato appeso alla sella del piccolo cannoniere-spaccamonti.

Mentre egli e il suo aiutante s'affaccendavano attorno al fuoco, il Capitano e il cinese inventariavano i viveri. V'erano nei sacchi di cuoio più di trenta chilogrammi di piccolo riso, di forma allungata, trasparente, di una bontà proverbiale, che i cinesi danno da mangiare ai soli malati, tanto è delicato. Sul cavallo del polacco il Capitano trovò una quarantina di chilogrammi di pesce secco di fiume, del quale si fa un consumo stragrande in tutta la Cina meridionale e specialmente nel Tonchino. Oltre a ciò, sugli altri cavalli, v'erano nidi di salangane, pinne di pescecane, enormi beef-steak sanguinolenti, frutta secche, chou-chou e una discreta provvista di zucchero ridotto in sciroppo.

L'americano, rosso come una peonia di Cina, interruppe l'inventario mettendo sotto il naso del Capitano l'enorme beef-steak che aveva appena levato dai carboni.

Il pranzo fu fatto in fretta, innaffiato da alcune sorsate di sciroppo e di chou-chou, poi i quattro si rimisero in sella, premurosi di porre una certa distanza fra i loro cavalli e le orde di Teon-Kai. Man mano che procedevano, sempre sotto una pioggia torrenziale, la pianura andava sensibilmente abbassandosi e coprendosi di risaie e di paludi irte di bambù tulda, in mezzo ai quali volteggiavano stormi di gazze, di beccaccine e di gallinelle.

Il Capitano, per porsi un po' al riparo dall'acqua, condusse i compagni in mezzo ad una foresta d'alberi della canfora, colossali piante che in grossezza di poco la cedono ai famosi baobab dell'Africa centrale.

L'americano rimase sbalordito dinanzi a quei colossi che venti uomini sarebbero stati incapaci di abbracciare.

I cinesi danno a questi preziosi alberi il nome di tchang e la canfora che estraggono ha un valore di poco inferiore a quella di Borneo. L'ottengono per mezzo della distillazione, tagliando dapprima le fronde che mettono a macerare per tre giorni in una vasca d'acqua piovana e facendole poi bollire in una marmitta. Occorre un buon mese prima che la canfora diventi dura e una nuova bollitura per purificarla. In Cina se ne fa un uso grandissimo e soprattutto adoperano assai il legno, che conserva l'odore per molti e molti anni e ben s'adatta alla costruzione di cofanetti e persino di barche e giunche.

L'americano ebbe per un istante l'idea di fare un alt per raccogliere un po' di quella preziosa materia, ma la paura di venire raggiunto dai banditi lo indusse ad abbandonare la pazza impresa. La notte fu passata in mezzo a quegli alberi sotto una pioggia continua, che non permise di dormire né agli uomini né agli animali.

L'indomani pioveva ancora a dirotto. Il cielo era ingombro di neri nuvoloni e tirava, ad intervalli, un vento forte e così caldo, da far quasi credere che avesse attraversato gli ardenti deserti della Persia o dell'Africa. I lampi non scarseggiavano e il tuono rumoreggiava incessantemente nella profondità della vôlta celeste. Abbassandosi ancora la pianura, il Capitano e Min-Sì divennero inquietissimi.

– La va male – disse Giorgio, osservando gli orizzonti del nord e del sud.

– Avete paura della pioggia? – chiese l'americano, che sgocciolava come se fosse uscito allora allora da un fiume. – Sono inezie queste.

– Non è la pioggia che io temo.

– Cosa, allora? Le febbri forse? Bah! Noi siamo uomini di ferro.

– Temo una inondazione, James. Voi sapete che abbiamo il Si-Kiang al nord e il Pe-Kiang al sud; questi due fiumi non di rado straripano nella stagione delle piogge.

– Faremo un bagno.

– Aspettate che i due fiumi si rovescino su questa pianura e vedrete poi che bagno! Vi sarà tanta acqua da annegare anche uno yankee.

– Oibò! – esclamò il testardo. – Quattro bracciate ed eccoci in salvo.

– Siete un gran brav'uomo, James. Per Bacco, vorrei vedervi attraversare cento leghe d'acqua.

– Cento leghe, avete detto? Una inondazione di cento leghe!

– Mi pare, sir James, – disse il polacco – che sia una distanza da sgomentare anche uno yankee forte come un rinoceronte.

– Ma allora annegheremo! Sarebbe duro affogare in un fiume cinese. Fosse almeno americano!

– Vi risparmierebbe, forse? – domandò il piccolo cinese.

– Non dico questo, ma... infine sarebbe un fiume americano. Bisogna assolutamente prevenire l'inondazione. Toh, se si costruisse una zattera?

– Se la portate sulle vostre spalle, facciamola – disse il Capitano. – Avete delle idee originali, amico James.

– Si tratta di salvare la pelle. Vi fosse almeno qualche rifugio!

– Non ne vedo alcuno.

– Ora che ci penso, ne conosco uno – disse Min-Sì.

– Dov'è? – chiesero i tre bianchi con qualche ansietà.

– Sui confini della provincia, presso l'Yun-Nan. Vi è una grotta magnifica, quella di Koo-tching. In due giorni si può raggiungerla.

– E saremo sicuri là dentro?

– Nella grotta no, ma sulla collina sì.

– Quando è così, siamo a buon porto – disse il Capitano. – In viaggio e senza perdere tempo.

La speranza di raggiungere il promesso ricovero rianimò i viaggiatori, i quali, senza più curarsi dei rovesci d'acqua, spinsero i cavalli al galoppo sulla via dell'ovest.

I poveri animali procedevano con molta fatica, essendo il terreno inzuppato d'acqua. Sprofondavano fino a mezza gamba nei bassifondi, s'impigliavano fra le erbe acquatiche e scivolavano sul fango degli stagni, dei laghetti e dei torrenti che crescevano ad ogni istante di numero.

Alla sera i viaggiatori, stanchi, intirizziti, macerati dalla pioggia, si accamparono sotto un banano, che rizzavasi triste e solitario nell'umida pianura.

Fu una notte orribile. Al di fuori il vento ruggiva e pioveva a catinelle inzuppando la tenda; sotto la crosta terrestre correvano le acque, le quali, trapelando attraverso i pori, spegnevano il fuoco e bagnavano uomini e animali. Si sarebbe detto che un gran lago si estendeva sotto il suolo e che subiva le oscillazioni delle maree; anzi, accostando l'orecchio a terra, udivansi cupi fragori come se le acque sotterranee fossero in burrasca.

Non fu possibile dormire pel vento, per la pioggia e per la paura di venire sorpresi dalla inondazione. Venti volte il Capitano, assai inquieto, si alzò e si arrampicò sul banano cercando di scoprire ciò che succedeva ai confini dell'orizzonte, e venti volte l'americano s'alzò temendo che la crosta terrestre si sfondasse sotto il peso degli accampati.

Alle sei del mattino, sorseggiato un po' di thè, i viaggiatori ripigliavano la faticosa marcia, premurosi di raggiungere la grotta di Koo-tching, la sola che potesse salvarli dalla imminente inondazione. I cavalli erano stanchi ancora prima di mettersi in viaggio e assai inquieti.

Occorrevano le fruste per farli trottare e sovente volgevano la testa e tentavano di fuggire verso l'est.

Il terreno era eguale a quello percorso il dì innanzi, senza un bosco, anzi senza un albero. Non si vedevano che canne palustri da pochi giorni cresciute e miseri cespugli.

Non una capanna, non un recinto, non un solo animale per quanto si girasse lo sguardo.

A mezzodì i cavalieri fecero una sosta presso alcuni cespugli intristiti; masticarono un po' di riso, bevettero un sorso di chou-chou, poi ripresero la marcia sempre sotto la pioggia.

– Non finirà più questo tempaccio? – esclamò l'americano.

– Pazienza, James – disse il Capitano. – Questa sera ci ricovereremo nella grotta.

– Darei un anno della mia vita per un pentolone di riso bollente. Se continua questa vitaccia da cane diverrò magro come un'aringa e giallo come un popone.

– Questa sera avrete fuoco e riso bollente.

Alle sette, nel momento che le tenebre calavano, il cinese che trottava in testa a tutti additò un'altura che appena scorgevasi attraverso la fitta cortina d'acqua.

– Cos'è? – chiese Giorgio.

– L'altura di Koo-tching – disse Min-Sì.

– Era tempo! – esclamò l'americano. – Non ne potevo più.

I cavalli, frustati spietatamente, si precipitarono innanzi, fendendo le acque incalzanti, accecati dai lampi e assordati dagli scrosci delle folgori. Alle otto i poveri animali, insanguinati e bagnati di pioggia e di sudore, giungevano ai piedi della collina, arrestandosi dinanzi ad una nera apertura.

– La grotta – disse il cinese.

I cavalieri balzarono a terra e s'introdussero nell'antro tirandosi dietro i cavalli. Dopo alcuni istanti s'arrestarono su di una discesa assai inclinata, sdrucciolevole, umida.

– Olà! – esclamò l'americano, che non vedeva più in là del suo naso. – Dove siamo noi?

– Aspettate che accendiamo un po' di fuoco – rispose il cinese. – Vieni, Casimiro.

Il polacco e il cinese uscirono e si arrampicarono sulla collina, raccogliendo due bracciate di legna e alcuni rami resinosi che dovevano ardere come torce.

Min-Sì accese uno di quei rami, la cui fiamma rossastra illuminò vivamente l'antro.

– Seguitemi – diss'egli. – Lasciamo qui i cavalli ed entriamo nella seconda grotta che è più ampia e più asciutta.

Ciascuno, dopo aver gettato uno sguardo inquieto sulla gran pianura spazzata dalla bufera, si caricò del fucile, delle munizioni, della coperta e dei viveri e seguì il piccolo cinese che illuminava la via.

La prima grotta era assai ampia, alta più di quaranta piedi, lunga e larga non meno di cento, tutta fessa e umidissima. Nel fondo scorgevasi un nero corridoio che scendeva dolcemente, ingombro di superbe stalattiti, dalle quali cadeva l'acqua con rumore lento, misurato, monotono. L'eco era sonorissima e il passo dei viaggiatori e le loro parole si ripercuotevano parecchie volte dentro gli antri.

Dopo dieci minuti i viaggiatori giungevano nella seconda grotta, alla cui vista emisero un grido di stupore. Era una specie di cupola, coperta di meravigliose incrostazioni pietrose, alta più di centottanta piedi e vasta assai. Da terra sorgevano delle bizzarre colonne che sembravano scolpite dalla mano di un espertissimo artista, sottili, scannellate, contorte, trasparenti come alabastro, e delle rocce, grosse talune, scavate le altre e coperte di curiose incrostazioni gialle, azzurre, rosse e di pianticelle pietrificate ancor più meravigliose, colle loro foglioline sottili, sulle quali scorgevansi ancora le nervature. Dalla vôlta poi pendevano lunghe stalattiti, bitorzolute, trasparenti, come fossero di vetro, alcune sottili come aghi e altre terminanti in forma di goccia, e su in alto scintillavano certe faccettine così perfette e così chiare, che potevansi scambiare per piccolissimi astri.

– Magnifica! Superba! – esclamò l'americano.

– Confesso che non ho mai visto nulla di simile – disse il Capitano. – È stupenda.

– Dite incantevole; questo è il palazzo di qualche fata e noi ci staremo comodi infischiandoci del vento e della pioggia.

– Meglio ancora ci staremo quando avremo acceso un buon fuoco – disse Min-Sì.

– Tu parli come un libro stampato, piccolo cannoniere. Animo! Carica la pentola.

Il cinese, aiutato dal polacco, si mise all'opera e, quantunque la legna fosse umida, accese un gran falò capace d'arrostire un bue.

Le rupi, i colonnati, le stalattiti e le stalagmiti si coprirono di rosso, e la vôlta della cupola scintillò come se fosse smaltata di diamanti. La pentola, ben colma, cominciò a grillettare, spandendo all'intorno un appetitoso profumo.

Non è a dire se ognuno fece onore al pranzo, che fu innaffiato coll'ultima bottiglia di chou-chou che il previdente Capitano aveva serbato da una settimana.

L'americano vuotò la sua tazza alla prosperità e alla libertà d'Italia e Giorgio la sua alla prosperità dell'America.

– Amici miei, – disse lo yankee, sempre di buonumore – io proporrei di rimanere qui fino al termine della stagione piovosa. Abbiamo ancora riso e pesce secco per quindici e più giorni e una buona provvista di thè! Qui non fa freddo, qui non piove, qui si può dormire. Cosa volete di più?

– La medesima idea è venuta anche a me – disse il Capitano. – E perché non si potrebbe...

– Perché l'inondazione ci minaccia – lo interruppe Min-Sì.

– Al diavolo l'inondazione – esclamò l'americano. – Io me ne infischio.

– Anzi non dobbiamo infischiarcene, sir James. Siamo a sessanta metri sotto la superficie del suolo e se la piena giunge, ci annegheremo.

– E vuoi andare a dormire all'aperto?

– Non dico questo.

– Min-Sì ha ragione – disse il Capitano. – Questa notte però possiamo rimanere qui. Il fragore della piena ci sveglierà e faremo presto ad uscire.

– Allora mi corico presso il fuoco e chiudo gli occhi – disse l'americano. – Sono due notti che non dormo.

Lo yankee stese la sua coperta e vi si coricò sopra coi piedi rivolti verso il fuoco. I suoi compagni, che cadevano dal sonno, non tardarono ad imitarlo.

Il Capitano però non fu capace di chiudere occhio, malgrado si sentisse rotto dalle fatiche. Sinistre inquietudini lo assalivano e lo tenevano sveglio. Il suo pensiero correva sempre alla inondazione che poteva da un istante all'altro giungere e coprire l'immensa pianura racchiusa fra le due fiumane giganti.

Più volte uscì per esaminare l'orizzonte e più volte accostò l'orecchio a terra parendogli di udire dei sordi rumori. Si era accoccolato dinanzi al fuoco da pochi minuti, quando fu destato dallo scalpitare e dal nitrire dei cavalli e da un lontano fragore che s'avvicinava con estrema rapidità. Scattò in piedi precipitandosi verso la galleria con gli orecchi tesi.

Si udiva in lontananza un sordo muggito, un fragore simile a quello che fa una fiumana che irrompe inondando la campagna, o a quello del mare in un giorno di tempesta.

– All'erta! All'erta! – gridò egli, correndo verso i compagni.

– Che c'è? – chiese l'americano, svegliatosi di colpo.

– La piena! Tutti in piedi!

Non ci voleva di più per farli sorgere. Si caricarono in fretta e in furia delle armi, delle coperte, delle munizioni, della pentola e si slanciarono nella galleria.

Il fragore che annunciava la rotta si avvicinava sempre colla rapidità del lampo e si ripercuoteva dentro le caverne con tale intensità che pareva che le vôlte crollassero.

Urtandosi l'un l'altro, cadendo e risollevandosi, cozzando contro le pareti e le stalattiti, ansanti, smarriti, atterriti, si precipitarono fuori, cercando di guadagnare la collina, ma il tempo mancò.

Il Pe-Kiang aveva rotto gli argini e invadeva la pianura. Un'onda gigantesca, spumeggiante, muggente saliva dal sud strappando alberi, canne, cespugli ed erbe, avanzandosi con rapidità incalcolabile.

Essa arrivò muggendo e s'infranse contro l'altura con estrema violenza, irrompendo poi nella caverna ove inghiottì cavalli e uomini.