La Scimitarra di Budda/15. Il bandito Teon-Kai

15. Il bandito Teon-Kai

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15.

IL BANDITO TEON-KAI


Il campo dei saccheggiatori era situato in mezzo ad una foresta di colossali alberi della canfora.

Si componeva di una trentina di capannucce sormontate da bandiere d'ogni colore e d'ogni grandezza e adorne di lance, di moschetti a miccia, d'archi, di turcassi riboccanti di frecce, di sciaboloni, di catane giapponesi e di coltellacci di tutte le forme ed ancora insanguinati.

Qua e là, in una confusione indescrivibile, v'erano buoi, cavalli, oche, anitre e polli che facevano un baccano infernale, e sdraiati al suolo, o addossati agli alberi, od occupati a giocare e a bere, un centinaio e mezzo di banditi di tutte le razze. V'erano dei tonchinesi dalla faccia schiacciata, la tinta abbronzata, anzi quasi olivastra, di statura bassa e che ridevano come pazzi mostrando i loro denti dipinti di nero; dei cinesi dagli occhi assai obliqui, dalla testa ornata del pen-sse e vestiti con lunghe sottane; dei cocincinesi vestiti riccamente con giubbe gialle ornate di raso rosso e con cappelli sormontati da variopinti pennacchi; malesi dal volto olivastro, feroce, lo sguardo tetro e armati del terribile kriss dalla punta avvelenata, e infine siamesi dalla testa romboidale, tinta terrea, labbra grosse e scolorite e denti dorati.

All'apparire dei prigionieri, tutti quegli uomini s'alzarono in piedi e corsero loro incontro guardandoli con curiosità, additandosi l'un l'altro gli occhi dell'americano e dei due europei e facendo udire scoppi di risa interminabili. Certamente non avevano mai visto uomini di tinta bianca e occhi orizzontali anziché obliqui.

L'americano arricciava il naso e si permetteva di menare qualche scappellotto ai curiosi, senza che questi mostrassero di aversene a male.

– Ci guardano come bestie rare – borbottava lo yankee. – Non è da gente educata il ridere in faccia.

I prigionieri attraversarono l'accampamento, poi vennero internati nel bosco, dove c'era un sentieruzzo appena visibile.

– Dove ci conducete? – chiese Giorgio ai banditi che lo circondavano.

– Dal capo – rispose un cinese.

– Abita nel bosco?

– Sì, ma in un palazzo principesco. Cammina e taci.

Per dieci minuti marciarono sotto quegli alberi, poi sbucarono in una magnifica pianura cinta di montagne tagliate a picco e solcata da parecchi fiumicelli che versavansi in pittoreschi laghetti. Colà, proprio nel mezzo, elevavasi una superba abitazione dipinta a forti colori, carica d'ornamenti di porcellana gialla e azzurra, circondata da magnifiche verande riboccanti di fiori, sostenute da svelte colonne.

Il tetto, arcuato all'insù alle estremità, era irto di comignoli, di comignoletti, di punte aguzze, di antenne sostenenti draghi mostruosi che frullavano con un cigolìo aspro, e da aste sostenenti bandiere a più colori.

I prigionieri si fermarono ad ammirare quel capolavoro dell'architettura cinese.

– Con che razza di bandito abbiamo da fare? – si chiese l'americano che non si raccapezzava più.

– Avanti – dissero i briganti, percuotendoli colle aste delle lance.

Li fecero passare sotto una porta adorna di tre teste di drago e li condussero attraverso a lunghi corridoi, le cui pareti erano artisticamente dipinte. L'americano ogni qual tratto guardava per terra, temendo di precipitare in qualche trabocchetto.

– Ma dove ci conducono questi uomini? – chiese egli che cominciava a diventare inquieto.

– Dal capo, mi hanno detto – rispose Giorgio.

Dopo alcuni minuti i prigionieri venivano introdotti in un elegante salotto, tappezzato di carta fiorita di tang e rischiarato da quattro piccole finestre i cui vetri erano sostituiti da fogli di carta oliata. La mobilia che specchiavasi sul lucidissimo pavimento di marmo azzurro, era semplicissima e strana. C'erano dei tavolini di bambù bassi assai ed estremamente leggeri, carichi di vasetti contenenti materie coloranti e unguenti preziosi, di caraffe di porcellana trasparente contenenti mazzi di peonie di un bel colore rosso fuoco, di chicchere di Ming color cielo dopo la pioggia, di mostriciattoli di porcellana variopinta e di palle e di pallottole di avorio pazientemente traforate.

Negli angoli della sala v'erano dei seggioloni di marmo e certe robe che il polacco chiamò sputacchiere. Dal soffitto pendeva un lanternone di talco e una peuka, la quale, agitando le ali di percallina dipinta, manteneva una corrente d'aria fresca. I prigionieri, con loro sorpresa, furono lasciati soli in quel locale.

– Non capisco più nulla – disse l'americano che cadeva proprio dalle nubi. – Con che razza di bandito abbiamo da fare? Questa dimora è di un principe, non di un furfante che svaligia i viaggiatori e che incendia i villaggi. Che sia un mago?

– Comincio a crederlo, James – rispose il Capitano. – Non mi è mai toccata un'avventura simile.

– A ogni modo l'avventura è magnifica.

– Purché al bandito non venga la brutta idea di tagliarci il collo.

– Un bandito che nuota in questo lusso...

– Zitto! – borbottò Min-Sì. – Ecco Teon-Kai.

Un lembo del muro si era improvvisamente staccato e sulla soglia di quella porta segreta era apparso un uomo in abito di seta azzurra, stretto da una fascia riboccante di pistoloni e di kriss malesi, e la testa coperta da un cappello conico di feltro, sormontato da un grande pennacchio. Era piuttosto basso, ma tarchiato e robusto come un toro, a giudicare dall'apparenza. Aveva una faccia assai larga, gli zigomi molto sporgenti, una fronte ampia solcata da una cicatrice e gli occhi obliqui, vivi, lampeggianti.

Egli si arrestò sulla soglia osservando attentamente i prigionieri, poi mosse verso di loro col più grazioso sorriso che sia mai apparso sulle labbra di un tonchinese, e incrociando le mani sul petto e muovendole lentamente pronunciò l'usuale:

Isin! Isin!

Il Capitano e i suoi compagni, assai sorpresi di quella accoglienza che erano mille miglia lontani dall'aspettarsi, si affrettarono a rispondere al saluto.

Teon-Kai fece loro cenno di accomodarsi nei seggioloni di pietra e, dopo di aver meditato alcuni istanti, chiese con voce armoniosa:

– Qual vento vi ha portati in questi luoghi, voi, che, se il colore non inganna, appartenete a quei popoli che abitano nei mari d'Occidente?

– Una scommessa – rispose il Capitano, che fissava con curiosità quello strano bandito.

– Siete europei?

– L'hai detto.

– Quale via tenete? – chiese il bandito.

– Quella che conduce a Yuen-Kiang.

– E cosa andate a fare colà?

– A cercare la Scimitarra di Budda.

Teon-Kai sbarrò gli occhi e il suo volto atteggiossi a profonda sorpresa.

– La Scimitarra di Budda! – esclamò egli.

– Ti sorprende?

– Forse.

Teon-Kai tacque e parve s'immergesse in profondi pensieri. Stette così parecchi minuti, con la testa china sul petto, poi rialzandola con un brusco gesto, disse:

– Tu dunque cerchi la Scimitarra di Budda?

– Sì, e ho giurato di trovarla, dovessi mettere sossopra l'Yun-Nan e la Birmania.

– E sai tu dove si trova?

– A Yuen-Kiang, m'hanno detto.

– E il luogo dove fu nascosta?

– L'ignoro.

– Ascoltami, straniero. Mi sono occupato anch'io di quest'arma e più volte mi sentii tentato di marciare su Yuen-Kiang colla mia banda. Sai, prima di tutto, chi fu a rubarla?

– Un fanatico buddista...

– Si dice invece sia stato un ardito brigante: ma fanatico o brigante, la Scimitarra fu rubata. Da quanto potei sapere, l'arma fu portata a Yuen-Kiang, ma là se ne perdettero le tracce. Di fronte a te hai tre vie; se vuoi trovarla bisognerà forse che tu le percorra tutte e tre.

– Il cammino non mi sgomenta e gli ostacoli non m'arrestano.

– Lo credo – disse il bandito. – Sta' attento ed imprimi nella tua mente quanto ti dirò.

– Parla.

– Una voce dice che la Scimitarra è nascosta nel tempio di Budda di Yuen-Kiang; una seconda voce dice che è nascosta nel Khium-Dogè del gran Siredo d'Amarapura; una terza dice che è murata sotto il «T» di ferro della piramide dello Scioè-Madù del Pegù.

– Nella piramide dello Scioè-Madù! – esclamò il Capitano.

– Che trovi di strano?

– Non avevo mai udito quella terza versione.

– Ora non dirai più così. Hai tanto coraggio tu di recarti fino al Pegù?

– Tanto da andare fino in India, se è necessario.

Teon-Kai lo guardò con maggior sorpresa.

– Che uomo! – esclamò egli con una vera ammirazione. – Vorresti rimanere con me?

Il Capitano, a quella domanda fatta così a bruciapelo, trasalì.

– No – disse di poi con voce ferma.

Sulla fronte del bandito passò come una nube.

– E se ti costringessi? – gli disse.

– Mi farei uccidere anziché diventare un brigante.

– Ti ripugna questo mestiere?

– Rifiuto perché bisogna che trovi la Scimitarra di Budda. Ho impegnato il mio onore.

Teon-Kai s'alzò, gli si avvicinò, e posando le mani sulle di lui spalle gli disse:

– Sei un brav'uomo! Domani partirai.

Batté due colpi su di un gong sospeso sulla soglia di una porta. Un bandito sfarzosamente vestito entrò portando un grande vassoio pieno di chicchere di porcellana color verde acqua di mare e una grande teiera ornata del ritratto di Bàdhidharama, ritto sulla zattera leggendaria.

Il thè senza il latte e senza zucchero, secondo l'uso cinese, venne versato nelle chicchere. Teon-Kai diede bravamente l'esempio vuotando parecchie tazze; l'americano lo imitò vuotandone una cinquantina per lo meno e si tirò vicino la teiera per vuotarne, se era possibile, altrettante.

L'amabile bandito s'intrattenne ancora pochi minuti a conversare coi prigionieri, parlando della sua banda e delle sanguinarie sue imprese, poi si ritirò avvertendoli che li aspettava a pranzo.

– Per Bacco! – esclamò l'americano, che si era gettato sulle chicchere, vuotandole una dopo l'altra. – Che brav'uomo! Non ho mai incontrato in mia vita una persona che somigli a questo bandito. Vi giuro, amici miei, che mi sentirei capace di amarlo, malgrado il suo muso giallo e i suoi baffi senz'anima.

– Ed io mi sentirei capace di abbracciarlo! – esclamò il polacco entusiasmato. – Parola d'onore che lo abbraccio se ci prepara un pranzo luculliano.

– È un uomo capace di prepararci un pranzo principesco, ragazzo mio. Tutto sta che la cucina sia buona.

– Non abbiate timore, James – disse il Capitano. – Non mancheranno né i famosi nidi di salangana, né il trepang, né copiosi ed eccellenti liquori, ma vi raccomando di usarne con moderazione onde non abbiate ad offrire lo spettacolo di uno straniero ubriaco.

– Oh! Voi mi offendete! Mi comporterò da vero americano, da gentiluomo perfetto. E intanto, che si farà fino all'ora del pranzo?

– Io propongo una russata sulla soglia – disse il polacco.

La proposta fu accolta con premura. I quattro prigionieri, se si può chiamarli così, si diressero verso la loggia più vicina, si sdraiarono sulle seggiole di bambù seminascoste fra le piante e chiusero gli occhi, invitati dal cicaleccio di una quarantina di hoo-mei o cantatori di Mongolia, che saltellavano sui muschi dei vasi.

Verso le quattro un bandito li svegliò e dopo averli fatti passare per un labirinto di paraventi, li introdusse in un secondo salotto, le cui pareti erano coperte di stoffa bianca trapunta in seta e nel mezzo del quale vedevasi una tavola apparecchiata, che curvavasi sotto il peso dei tondi di porcellana sovrapposti ad una tovaglia di carta fiorita. Il bandito vi era di già. Egli sedette in capo alla tavola ponendo il Capitano alla sua sinistra, che equivale al posto d'onore in Cina, l'americano alla sua destra e gli altri due di fronte.

Il pranzo cominciò con una larga sorsata di vino bianco, scipito, lievemente scaldato, poi si susseguirono dieci piatti, uno a caldo e due freddi, per dare riposo ai convitati, essendo abituati i cinesi a mangiare solamente i primi.

Quei piatti componevansi di riso cotto nell'acqua e di primissima qualità, di pasticci zuccherati, di radici di ninfea condite, di cavallette fritte, di uova d'anitra affogate, di branchie di storione, di nervi di balena in salsa zuccherata, di gamberi in guazzetto e di ventrigli di passero.

L'americano, punto abituato a servirsi dei bastoncini d'avorio che in Cina suppliscono assai male i cucchiai, si trovò imbarazzatissimo a mangiare il suo piatto di riso, ma si aiutò con un cucchiaio di dimensioni straordinarie, e allora che bocconi! Il degno yankee, cieco ai gesti del Capitano che gli raccomandava di moderarsi e sordo alle paroline di Min-Sì, divorava per quattro, servendosi spesso delle dita e qualche volta persino della lingua per pulire i piatti. Vuotava un piatto e tosto se ne tirava vicino un secondo, un terzo, un quarto, un quinto; triturava le ossa come fosse un cane a digiuno d'una settimana; intingeva le dita in tutti i guazzetti e si metteva alle labbra le salsiere piene di liquidi neri, gialli e rossi, tracannandoli come bevesse del whisky o del vino. Pareva che volesse dare al bandito una prova della capacità del suo stomaco senza fondo; e anche il polacco non rimaneva indietro.

Dopo la prima portata, i servi misero in tavola una quarantina di grandi caraffe ripiene di succo d'aranci, di succo d'ananas e d'acqua dolce. L'americano e il polacco, che avevano calcolato sopra una cinquantina di bottiglie di vino, furono sconcertati; però fecero onore a tutti quei liquidi e in modo tale che in pochi istanti la terza parte di quelle caraffe era vuota.

La seconda portata, pure di dieci piatti, si compose di nidi di salangana alla gelatina, dichiarati eccellenti dai due ghiottoni, di ranocchi, di occhi di montone all'aglio, di ravioli al latte, di branchie di storione in composta, di pinne di pescecane, di uova di piccioni, di gemme di bambù al sugo e di fricassea di gin-seng con insalata zuccherata.

Tutti questi piatti passarono dinanzi all'americano, il quale li rese ai servi affatto vuoti, anzi discretamente puliti dalle sue dita e dalla sua lingua.

Teon-Kai pareva assai sorpreso e non staccava gli occhi da quel Gargantua che continuava a ingoiare con crescente ingordigia.

– Ma è un vero elefante – ripeteva l'amabile bandito ridendo.

La terza parte di quel pranzo, veramente luculliano per gli stranieri, ma affatto naturale per un tonchinese o cinese, si compose di altri dieci piatti esclusivamente caldi, posti sopra recipienti contenenti dei carboni accesi. Ultimo fu il thè, servito in leggerissime chicchere di porcellana azzurra.

Il bandito si scusò di non essersi procurata una compagnia drammatica, senza la quale un gran pranzo non è completo, accoppiando i cinesi e i tonchinesi alla soddisfazione del palato quella della vista e dell'udito.

– Non importa – disse l'americano che faceva crepitare la sua sedia tanto era diventato grosso. – Io preferisco una pipa e una bottiglia di liquore a una compagnia drammatica.

Il generoso bandito capì a volo ciò che desiderava l'insaziabile convitato, e fece portare parecchie caraffe piene di spiritosi rosoli, delle pipe e un vaso di tabacco odoroso. Tosto la conversazione cominciò animatissima.

L'americano, che aveva tracannato troppo, chiacchierava per dieci. Bisognava udirlo narrare le battaglie della Indipendenza americana! Che confusione!

Anche Min-Sì chiacchierava molto, ma anch'egli aveva le idee oscure e parlando di letteratura cinese confondeva le poesie del celebre Licu-Yen con quelle di Pan-hoei-pan, i versetti di Confucio con quelli di Kiai-Giu-Y o colle favole di Su-Ma-Kuang. Il polacco invece si sbizzarriva a parlare di vascelli, di brigantini, di golette, di barchi, di brick, di ancore, di cannoni, ma di tratto in tratto perdeva il filo, non lo ritrovava più e finiva col lasciarsi cadere sulla sedia mandando certi sospironi da crederlo malato.

I convitati si ritirarono verso la mezzanotte nelle stanze a loro assegnate, ma, eccettuato Giorgio, tutti assai mal fermi in gambe e colla testa pesante. Ciò non impedì però che all'indomani, all'alba, fossero tutti in piedi e pronti a partire.

Il bandito li aspettava nel salone con un vassoio pieno di chicchere di thè. Però non era più l'uomo del giorno innanzi che sorrideva sempre e chiacchierava volentieri; era serio assai, taciturno, pensieroso, di cattivo umore.

Quando gli avventurieri ebbero sorseggiato il thè, divenne ancor più cupo.

Parve imbarazzato, indeciso; poi tutto ad un tratto si avvicinò al Capitano, domandandogli a bruciapelo:

– Vuoi rimanere con me?

– No – rispose Giorgio, per niente sorpreso da quella improvvisa domanda. – Devo assolutamente trovare la Scimitarra di Budda, te lo dissi già.

Il bandito corrugò lievemente la fronte e dopo alcuni istanti di silenzio continuò:

– E se io ti nominassi capo della mia banda?... Se i tuoi amici diventassero pure amici miei?

– Non lo posso, mi capisci? Bisogna che io sia libero, affatto libero, per ritornare di poi a Canton.

– Libero! – esclamò il bandito, nei cui occhi balenò un lampo minaccioso. – Libero!...

– Teon-Kai, – disse il Capitano gravemente – sei forse un uomo che manca alle promesse dopo dodici sole ore?

– E se io mancassi alla promessa di ieri?

– In tal caso non darei una tazza di thè della tua vita.

Il bandito guardò fissamente il Capitano, il quale sostenne impavido quello sguardo di fuoco, poi strinse le spalle di lui con tale forza che le ossa crocchiarono.

– Ma sai tu che io ho centocinquanta banditi? – disse con tono di voce che metteva i brividi. – Sai tu che quei centocinquanta uomini sono centocinquanta tigri, pronte al mio più piccolo cenno a sbranare te e i tuoi compagni?

Il Capitano non rispose. Min-Sì, James e Casimiro, stupiti nell'udire quel bandito parlare tutto d'un tratto così e della brutta piega che prendevano le cose, non respiravano quasi più.

– Ascolta – continuò il bandito con istrana voce. – Tu sei coraggioso, lo leggo ne' tuoi occhi, ma possiedo certi arnesi che strappano urla anche ai coraggiosi. Cosa diresti tu se ti facessi schiacciare lentamente fra due pietre? Cosa diresti tu se ti facessi aprire il ventre e gettarvi dentro olio bollente? Cosa diresti tu se ti facessi segare vivo? Mi comprendi, fiero straniero?

– Ti comprendo – rispose il Capitano tranquillamente. – Da un brigante è lecito aspettarsi tutto.

– Questo è un insulto che pagherai con una grossa taglia.

– Se si tratta di estorcerci del denaro, fissa la somma.

– Non si tratta di denaro. Voglio uno dei tuoi compagni.

– Teon-Kai! – esclamò il Capitano respingendo il bandito. – Se insisti, ti giuro che non uscirai vivo di qui.

– Ah! Tu minacci. Ebbene, guarda.

Un fischio acuto fendette l'aria. Una tenda si alzò e venti uomini apparvero puntando sui viaggiatori venti archibugi.

– Ebbene, perché non mi bruci le cervella? – chiese il bandito ridendo.

Il Capitano e i suoi compagni, sorpresi, spaventati, si erano gettati indietro impugnando le pistole.

– Acconsenti a cedermi uno dei tuoi compagni? – chiese Teon-Kai.

– No, mille volte no – rispose il Capitano. – Non lo posso, Teon-Kai.

Il bandito con un cenno della mano fece abbassare gli archibugi, prese per un braccio il Capitano e lo trasse verso la porta mostrandogli quattro cavalli carichi di viveri. Dalle selle pendevano le quattro carabine e grossi fiaschi contenenti senza dubbio polvere e palle.

– Sei un valent'uomo – gli disse. – Ho voluto tentarti, ma tu sei di ferro e possiedi un coraggio straordinario. È d'uopo che io ti dia un regalo: va' e prenditi quei cavalli, giacché sei libero.

– Lo sapevo io che Teon-Kai era un uomo generoso – disse il Capitano. – Dammi la tua mano ché io la stringa.

Un istante dopo i quattro viaggiatori salirono in sella.

– Partite – disse Teon-Kai quasi con collera. – Partite e non volgetevi indietro... Fuori del mio campo non rispondo di quello che può accadervi.

I cavalieri compresero la minaccia e si allontanarono di gran carriera.

Teon-Kai rimase sulla soglia della porta con le braccia incrociate e lo sguardo scintillante: si sarebbe detto che egli stesse tramando un sinistro progetto.