La Scimitarra di Budda/14. Le prime piogge
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14.
LE PRIME PIOGGE
L'americano, il Capitano, il cinese e il polacco, ancora sbalorditi dell'improvviso attacco, si affrettarono a ripiegarsi verso la tenda che i predoni avevano quasi interamente vuotata. Non sapevano ancora con quanti banditi avevano da fare e, quantunque desiderosi di rifarsi dello smacco sofferto, non volevano cimentarsi ad un inseguimento attraverso fitte foreste e con quell'oscurità.
L'americano era furibondo e minacciava di scoppiare. Lasciarsi corbellare e derubare da cinesi era grossa, era enorme.
– Se mi capita sotto le unghie uno di quei cani, gli strappo il cuore – ripeteva egli fuori di sé.
– Calma, James – disse il Capitano. – Ci hanno derubato ben poca roba, giacché poco possedevamo.
– Ma i ladri sono cinesi.
– Che importa a voi che siano cinesi o tonchinesi o malesi?
– Non posso mandarla giù. Udiamo: che cosa volete fare?
– Rimanere qui e tenerci pronti a rispondere.
– Temete che ritornino?
– Non mi meraviglierei.
– Che vogliano farci qualche brutto tiro?
– Non è improbabile.
– Dove si saranno nascosti?
– Nel bosco e forse ci spiano.
– Se si facesse una trottata verso il bosco?
– Per farci ammazzare?
– Zitto – disse il cinese.
In lontananza si udiva un sordo rumore che sembrava il galoppo di parecchi cavalli, accompagnato da un tintinnìo di campanelli.
– Armate i fucili – disse il Capitano. – I birbanti ritornano.
Sul limite del bosco apparvero alcuni cavalieri, i quali si slanciarono di carriera attraverso la pianura. Il Capitano e i suoi compagni s'alzarono come un sol uomo facendo fuoco nel più fitto della banda. Un cavaliere batté l'aria con le mani e vuotò sconciamente l'arcione.
Gli altri, dopo poche archibugiate, volsero le spalle e si allontanarono di galoppo.
Per qualche minuto s'udirono lo scalpiccìo dei cavalli e le grida dei banditi, poi tutto tacque.
– Eh! Eh! – esclamò l'americano, stropicciandosi allegramente le mani. – Mi pare che quei ladroni non abbiano troppo coraggio. Ohe! Vedo laggiù un muso giallo che si dimena. Che sia un moribondo?
– Possiamo recarci laggiù – disse il Capitano. – I miao-tse, dopo la brutta accoglienza, non ritorneranno.
– Trottiamo, Giorgio.
– Adagio, James. Forse quel bandito non è morto né ferito mortalmente.
– Lo finiremo col calcio della carabina.
I due amici, raccomandato ai compagni di fare buona guardia, guadagnarono la riva di un ruscello in mezzo al quale rovesciato nell'acqua dimenavasi il bandito. L'americano gli si avvicinò. Aveva la faccia imbrattata di sangue e la fronte spaccata da una palla.
– Vattene all'inferno, canaglia – gli disse tuffandolo nella corrente. – Spero che domani notte le tigri ti avranno spolpato.
Ritornarono alla tenda, dinanzi alla quale andava e veniva il polacco, bestemmiando in dieci lingue.
– Ebbene, ragazzo, che cos'hai che brontoli tanto? – chiese James.
– Quei cani di briganti non ci hanno lasciato quasi nulla – rispose Casimiro.
– Abbiamo almeno la pentola?
– Per fortuna, sì.
– Allora siamo ancora ricchi. Domani mattina la caricheremo di carne.
– Ma non abbiamo nemmeno una bistecca.
– Abbiamo ammazzato due cavalli. Li mangeremo tutti e due e spero che farai onore al pasto.
– È carne di cavallo, sir James.
– Carne eccellente, ragazzo. Io mangerei anche una tarantola del Texas. Carne è sempre carne.
– Bravo, sir James; a domani dunque.
– A domani.
L'americano tornò nel suo letto e i suoi compagni si sdraiarono all'aperto colle carabine a portata di mano, ma nessun bandito si mostrò. Senza dubbio, spaventati dalla brutta accoglienza, avevano definitivamente preso il largo.
All'alba la pentola, ben caricata di carne di cavallo, borbottava allegramente spandendo un profumo gratissimo. Fecero una scorpacciata, e alle dieci del mattino levarono la tenda.
– Coraggio, James – disse il Capitano.
– Non ho bisogno d'incoraggiamenti – rispose l'americano. – Mi sento tanto forte da portarvi in spalla fino alle sorgenti del Si-Kiang.
– Ma le gambe?
– Oh! Le gambe sono di ferro e di ferro battuto. Avanti, io darò l'esempio.
Abbandonarono la pianura e si cacciarono in mezzo ad una foltissima piantagione di bambù tulda, piante che hanno fusti forti, snelli, forniti di foglie larghissime che nel breve spazio di trenta giorni raggiungono la bella altezza di cinquanta piedi.
La marcia in mezzo a quelle gigantesche graminacee era tutt'altro che facile. I viaggiatori erano costretti a guizzare come pesci fra una continua semioscurità e a lavorare accanitamente di coltello; per di più davano spesso il capo in grosse ragnatele che schifosi ragni avevano teso.
L'americano, tutto bagnato di sudore, s'arrabbiava.
– Auff! – esclamò egli, arrestandosi per la centesima volta onde liberarsi da una ragnatela che gli avvolgeva il capo. – Ma questo è il regno dei ragni! Che non finiscano più questi bambù del malanno? Che il diavolo se li porti via tutti!
– Olà! – disse il Capitano in tono di rimprovero. – Non disprezzate tanto piante come queste.
– E perché?
– Se sapeste a cosa servono, non parlereste così male.
– Servono a far disperare i galantuomini che vanno pei loro affari.
– Voi bestemmiate, James.
– Parlo come un libro stampato.
– Un cinese benedirebbe ciò che voi maledite.
– Cinese vuol dire bestia. Vorrei sapere cosa ne fanno di queste canne che irriterebbero il più flemmatico inglese.
– Ma mille e mille cose. Ne traggono una bevanda deliziosa, mangiano il midollo che è buonissimo, i giovani germogli li divorano come asparagi e ne hanno tutto il sapore; anche delle foglie fanno magnifiche stuoie, dei ramoscelli eleganti canestri, graticci, lavori di lusso, leggerissime sedie, carta bellissima mescolandoli con un po' di cotone e certe materie grasse, istrumenti musicali, ecc. E coi fusti fanno scale, vasi, tubi per condurre acqua, canotti, zattere e infine capanne. Che volete trarre di più da una pianta?
– Ma queste piante sono allora miracolose!
– Quasi, James.
– Mi farete assaggiare i vostri asparagi, eh?
– Quando vorrete. Basterà tagliare i giovani germogli e farli bollire.
– Questa sera faremo una indigestione di asparagi. Urrah pei bambù!
– Urrah per gli asparagi! – tuonò il polacco.
– Zitto! – disse il Capitano curvandosi verso terra.
– Oh! Oh! – esclamò l'americano. – Che c'è di nuovo? I banditi ritornano forse?
– Mi pare d'aver udito una archibugiata.
– Se sono i banditi, me li mangio tutti.
– Bando agli scherzi, James. Fucile sotto il braccio e avanti!
La marcia fu ripresa con maggior rapidità, abbattendo a destra e a manca quelle grandi canne che si rovesciavano con mille crepitii, e due ore dopo i viaggiatori giungevano ai piedi d'una catena di montagne che correva dal nord al sud.
L'americano non ne poteva più. Le ferite, non ancora perfettamente cicatrizzate, lo facevano soffrire assai, però non osò lagnarsi. Dichiararsi sfinito lui, uno yankee puro sangue, gli pareva una enormità e si vergognava. Sarebbe andato fino in Birmania piuttosto che confessarsi debole.
La salita della catena fu incominciata verso il mezzodì, ma assai lentamente per la forte inclinazione della costa. E non un viottolo, non un passaggio, non la traccia del più piccolo sentiero. Non c'erano che rupi e rupi che bisognava scalare con grandi fatiche e grandi pericoli, coperte qua e là da cespugli spinosi e da qualche gruppo di occhi di drago.
I viaggiatori di quando in quando erano obbligati ad arrestarsi per dar riposo al povero americano e ne approfittavano per volgere uno sguardo al paese sottoposto. Con loro grande sorpresa, per quanto girassero gli occhi, non riuscirono a vedere un solo villaggio in piedi. Parecchi ve n'erano sull'orlo delle piantagioni, ma tutti rovinati o arsi dal fuoco.
– Che sia scoppiata la guerra? – si chiese il Capitano, arrestandosi ai piedi di una altissima rupe che dovevano scalare.
– Bisogna crederlo – rispose Min-Sì. – Sono passato più volte per questi luoghi e ho sempre veduto villaggi popolosi.
– Da chi è mossa questa guerra? – chiese l'americano.
– Chissà! Forse dal Tonchino che non è troppo lontano. Fors'anche da bande di briganti che al sud pullulano.
– Sarebbe una bella cosa se c'imbattessimo in una di queste bande.
– Che Budda le tenga lontane, sir James.
– Avresti paura, cannoniere-spaccamonti? Quattro colpi di fucile ed ecco i briganti in fuga. Non hai veduto come scapparono quelli che ci attaccarono la scorsa notte?
– Zitto – esclamò Giorgio, che involontariamente sussultò.
Un colpo d'arma da fuoco s'era udito fra i monti.
– I briganti! – esclamò l'americano.
In lontananza scoppiarono delle grida acutissime; pareva che della gente chiamasse aiuto.
– Casimiro, – disse il Capitano – scala questa rupe e guarda ciò che succede sull'opposto versante della montagna.
Il polacco, spronato da quelle grida che l'eco dei monti ripeteva, aiutandosi coi piedi e colle mani, aggrappandosi alle sporgenze e alle radici, scalò la rupe e giunto sulla cima guardò.
Nel mezzo di una piccola valle, una borgata ardeva come un covone di paglia. Attorno ad essa il polacco scorse una cinquantina d'uomini bizzarramente vestiti e molto bene armati, alcuni occupati a cacciare innanzi mandrie di buoi e di cavalli ed altri a dare la caccia ad alcuni drappelli di contadini, che, carichi delle loro migliori cose, cercavano di raggiungere le montagne.
– Ehi, ragazzo del demonio! – urlò l'americano che non poteva stare più fermo. – Cosa vedi dunque?
– Uno spettacolo stupendo, sir James. Un villaggio che arde come un zolfanello e poi... poi... Mille saette! Quelli là sono briganti!
– Briganti? – esclamò lo yankee.
– Sì, briganti e non perdono tempo. Sono carichi di bottino e se la battono.
– Dove vanno? Sono molti? Parla, ragazzo mio, parla.
– Vanno all'ovest e sono più di cinquanta bene montati e bene armati. Vedo picche e archibugi.
– Sono i banditi della notte scorsa – disse l'americano. – Andiamo a massacrarli.
– Calma, James – disse il Capitano. – Lasciate che vadano pei fatti loro.
– Non sono che cinquanta...
– E vi sembrano pochi?
– E volete rimanere qui?
– Tutt'altro, andremo innanzi, ma senza combattimenti. Orsù, scaliamo la rupe e andiamo a vedere che cosa succede.
Aiutandosi l'un l'altro, dopo aver corso venti volte il pericolo di fracassarsi le costole, raggiunsero la cima della rupe che formava il culmine della montagna e s'arrestarono ad ammirare lo spaventevole spettacolo che presentavasi dinanzi a' loro occhi.
Lì, proprio sotto il monte, ardeva un grosso villaggio. Immani lingue di fuoco ora giallastre e ora rosse s'alzavano fra turbini di fumo al disopra dei tetti sfondati, con un ronzìo sordo e prolungato. Ogni qual tratto un muro crollava con cupo fragore, rovinava un tetto, crollava una terrazza, si sfasciava un campanile e da quelle rovine slanciavansi su, verso il cielo, nuvoloni di fumo e nembi di scintille che il vento portava fin sulle creste dei monti.
Il Capitano e i suoi compagni scesero in fretta la montagna e giunsero al villaggio. Alcuni cinesi si aggiravano presso le capanne incendiate, cacciandosi coraggiosamente fra il fumo e le fiamme per salvare gli ultimi avanzi delle loro ricchezze. Alla vista dei nuovi arrivati si sparpagliarono per la valle, ma rassicurati dalle parole amichevoli di Min-Sì e dall'atteggiamento pacifico del Capitano, non tardarono a ritornare, raccontando che i saccheggiatori appartenevano alla banda del toncinese Teon-Kai. Udendo come il Capitano intendesse proseguire, lo sconsigliarono.
– Se voi andate innanzi, – disse uno di quei poveri diavoli – troverete senza dubbio il feroce bandito che vi spoglierà di tutto. Badate a me, deviate o tornate indietro.
– È impossibile – riprese il Capitano. – Del resto, siamo in quattro, tutti coraggiosi e bene armati.
– E poi essi saranno ubriachi – aggiunse l'americano. – Li massacreremo e faremo vomitar loro tanto sangue quanto è il chou-chou che hanno bevuto.
– Quanti erano i banditi? – chiese Giorgio.
– Cinquanta o sessanta, armati di lance, di sciabole e di moschettoni.
L'americano fece una smorfia. Anch'egli trovava che erano troppi per quattro uomini.
– Cosa facciamo, Giorgio? – domandò.
– Andremo innanzi. Indietreggiare non si può.
– E se ci assalgono?
– Ci lasceremo prendere se saranno molti. Vedrete che ce la caveremo senza pagare una taglia troppo grossa.
– Avanti, adunque – disse il polacco.
Regalarono a quei disgraziati cinesi una manata di tael e si misero in marcia seguendo il sentiero preso dai saccheggiatori, che dirigevansi verso ovest.
Di tratto in tratto trovarono le tracce dei banditi. Il suolo era calpestato dai cavalli e dalle mandrie rubate al villaggio e qua e là si trovavano degli oggetti che, senza accorgersi, avevano perduto. Fra questi vi erano dei gusci di noci di cocco, chiusi da un tappo e pieni di un liquore assai forte, ottenuto con riso fermentato per mezzo della calce.
L'americano e il polacco, accortisi che quel liquore non differiva molto dal chou-chou, s'affrettarono a raccoglierli.
– I banditi rubano e noi raccogliamo – disse lo yankee. – Quell'animale di Teon-Kai doveva lasciarsi indietro qualche bue. Ditemi, Giorgio, sono coraggiosi i tonchinesi?
– Niente affatto.
– Sicché potremo attaccare i banditi senza trovare una seria resistenza.
– Ma credete voi che la banda sia formata di soli tonchinesi? Ci saranno degli abitanti del Laos, dei siamesi, dei malesi, e fors'anche dei ragiaputra, guerrieri, questi ultimi, formidabili.
– Che dite mai, Giorgio? Dei guerrieri ragiaputra nel Tonchino!
– E perché no?
– Ma i ragiaputra sono nell'India.
– Eppure ve ne sono anche nell'Indocina. Il re di Siam tiene alla sua corte due compagnie di guerrieri ragiaputra e una ventina di tartari. Alcuni possono essersi uniti alla banda di Teon-Kai, e se ci troviamo dinanzi a tali guerrieri vi consiglio di deporre le armi.
– Sarà una nuova onta da aggiungere alle bastonate e alle fughe...
– Su pei tetti – lo interruppe maliziosamente il polacco.
– Sì, cattivo ragazzo, su pei tetti...
– E su tetti cinesi.
– Sì, briccone, su tetti cinesi. Auff! questa Scimitarra di Budda costa già degli immensi sacrifici.
Calavano le tenebre quando giunsero sull'orlo di una cupa foresta di banani. Il Capitano, visto che il luogo era deserto e acconcio per accampare senza correre il pericolo di venire scoperti, comandò l'alt. La tenda, una misera coperta tutta bucata che avevano comperata al villaggio saccheggiato, fu rizzata, e ognuno vi si cacciò sotto senza arrischiarsi ad accendere il fuoco per paura di attirare l'attenzione dei banditi.
Nessun saccheggiatore si mostrò durante la notte, né fu udita alcuna fucilata.
– Noi siamo fortunati – diceva l'indomani l'americano.
– Meglio così – rispose il Capitano. – I saccheggiatori hanno cambiato strada, a quanto pare.
– Eppure non mi sarebbe spiaciuto di fare la conoscenza di Teon-Kai. Toh! Che simpatico nome!
– Che puzza di bandito ad un miglio di distanza. Andiamo, amici, abbiamo dormito troppo. Oggi faremo un bel tratto di via.
Si riposero in cammino, inoltrandosi nella foresta che era così fitta da non permettere sempre il passaggio e sparsa di frutta cadute dagli alberi.
Avevano appena percorso mezzo miglio quando il Capitano bruscamente si arrestò. Aveva visto un uomo slanciarsi dai rami di un albero e nascondersi dietro ad un cespuglio.
– Adagio, ragazzi – disse, armando la carabina.
Non aveva ancora terminato che una fragorosa detonazione scoppiava ai suoi fianchi, avvolgendolo in una nube di fumo. Era stato l'americano.
– I banditi! – aveva gridato, scaricando la carabina.
Sei uomini, bizzarramente vestiti, armati di lance, di archi e di moschettoni, si erano slanciati fuori dai cespugli.
I quattro viaggiatori scaricarono a casaccio le armi e girarono precipitosamente sui talloni dandosi alla fuga. Dietro di loro si slanciarono parecchi cavalieri spronando rabbiosamente i cavalli.
– Fuggite! Fuggite! – gridò Min-Sì, raccomandandosi alle proprie gambe.
Non avevano percorso ancora cento passi che cinquanta cavalieri li circondavano, togliendoli di mira con gli archibugi. L'americano e i suoi compagni, che avevano prudentemente nascoste le pistole sotto agli abiti, cedettero ai banditi le carabine e i coltelli e si lasciarono condur via. Cinque minuti dopo, circondati sempre dalla banda, giungevano al campo di Teon-Kai.