La Scimitarra di Budda/11. La traversata del Si-Kiang
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11.
LA TRAVERSATA DEL SI-KIANG
Luè-Koa e i suoi compagni avevano proprio preso la fuga. Approfittando delle fitte tenebre e del sonno degli stranieri, decisi di non andare più innanzi per paura di venire scoperti e presi dai cinesi della crociera, avevano attraversato silenziosamente il fiume, si erano arrampicati sulla giunca e avevano preso il largo dirigendosi probabilmente verso Tchao-King.
Il tiro non poteva riuscire meglio, né rendersi più dannoso ai viaggiatori, i quali, abbandonati su quell'isolotto senza viveri e senza battello, si trovavano ora in una posizione imbarazzantissima. Il viaggio minacciava di esser compromesso. L'americano era addirittura fuori di sé, scoppiava. Un onorevole cittadino della libera America, uno yankee puro sangue, essere corbellato in tal modo da dei cinesi, era qualcosa di fenomenale, diceva lui. E camminava innanzi e indietro sulla riva come un vero pazzo, strappandosi i capelli e sfogandosi con minacce da mettere i brividi, ed epiteti che pareva non dovessero finire più.
– Ah! Brigante di Luè-Koa! – tuonava egli terribilmente accigliato. – Mascalzoni dal muso giallo! Giuocare così un par mio, uno yankee della mia fatta! Se mi capiti tra le mani ti torco il collo come a un pollo, ti stritolo, ti polverizzo, ti arrostisco! Rubarmi il mio chou-chou! Uh! Guai a te se giungo a prenderti! Pezzo d'asino, canaglia, brigante, traditore, ladrone...
– Calma, James, calma – diceva il Capitano. – A che far tanto fracasso?
– Calma, dite voi! Vi pare niente essere stato burlato da quei furfanti, da quelle teste pelate? Birbanti! Burlare un americano!
– E non hanno burlato anche un italiano forse?
– E anche un polacco? – aggiunse Casimiro.
– Ma intanto non abbiamo un sorso di chou-chou fra tutti e quattro. Come si vivrà senza una tazza di liquore?
– Ne troveremo dell'altro. Orsù, non scoraggiatevi, che infine ci siamo sbarazzati di quei birbanti che una volta o l'altra ci avrebbero certamente assassinati.
L'americano s'arrestò.
– Toh! – esclamò egli, cangiando tono. – Forse avete ragione. Non dirò che quei briganti mi facessero paura, ma, se devo dire il vero, mi annoiavo colle loro eterne minacce. Però non so come faremo a continuare il viaggio senza barca e senza cavalli.
– Colle nostre gambe, sir James – disse il polacco. – Gli americani spero sapranno camminare.
– Altro che! Camminiamo come le ferrovie; siamo di ferro noi.
– Allora tutto va benone.
– E i viveri? – chiese Min-Sì.
– Per i viveri ci penso io – disse James. – Domani batterò le foreste e le paludi, e stanerò elefanti, rinoceronti, tapiri...
– Ma quali paludi? – lo interruppe il Capitano.
– E quali foreste? – disse Casimiro. – Ah, sir James, voi vi siete dimenticato che la vostra possessione non ha duecento metri di circuito. Fate una croce agli elefanti, ai rinoceronti e ai tapiri.
L'americano rimase lì di stucco, ma non si scoraggiò.
– Bah! – esclamò egli. – Troveremo dei fagiani, delle anitre, delle oche. Vedrai, ragazzo mio, il massacro che faremo. Non si creperà, te lo assicuro. Il difficile sarà lasciare la nostra possessione.
– Penseremo domani a questo – disse Min-Sì. – Si dice che la notte porta consiglio, approfittiamone e andiamo a dormire.
– Mi sembra che il nostro cannoniere abbia ragione. L'ho sempre detto io che le teste piccole racchiudono la sapienza. E potremo addormentarci senza tema di svegliarci decapitati?
– Non abbiate timore, sir James – disse il polacco. – Veglierò io, corpo d'una pipa; la prima giunca che vedo la prendo a schioppettate.
– Là, così va bene; schioppettate, sempre schioppettate. Buona notte, ragazzo.
L'americano, Giorgio e Min-Sì si ricacciarono sotto la tenda e Casimiro si sedette fra le erbe, col fucile sulle ginocchia e gli occhi fissi sulle rive del fiume.
La notte passò tranquillissima. Il silenzio fu solamente rotto dalle urla delle fiere che venivano a dissetarsi sulle rive del fiume.
– E dunque, sono tornati i briganti? – chiese l'indomani l'americano appena uscì dalla tenda.
– Non ho visto alcuno, sir James – rispose il polacco. – I barcaioli filano verso Tchao-King, mangiandosi i nostri viveri e rinforzandosi col nostro chou-chou.
– Abbiamo proprio nulla da porre sotto i denti?
– Nemmeno una briciola di biscotto.
In quell'istante uscivano dalla tenda il Capitano e Min-Sì che avevano terminato allora allora una lunga discussione.
– Ebbene, – chiese l'americano – cosa si fa?
– Abbandoniamo l'isolotto – rispose il Capitano.
– Mi dispiace immensamente abbandonare questo Eden. E quando avremo raggiunto la riva, dove andremo?
– Sempre dritti fino a Yuen-Kiang.
– E non contate di marciare su di una città per comperare qualche cavallo?
– È pericoloso, James. Siamo stranieri e voi sapete cosa vuol dire essere tali.
– Ne ho avuta una prova a Tchao-King!
– Io non so comprendere come quei furfanti di musi gialli abbiano tanta paura degli stranieri – disse il polacco.
– È sempre stato così, Casimiro – rispose il Capitano. – Hanno paura che gli stranieri, introducendo nuovi costumi, alterino quelli del paese, generando nuove religioni e nuovi partiti, che potrebbero suscitare disordini e fors'anche rivoluzioni. L'impero cinese è malfermo e fanno di tutto onde impedire che si sfasci.
– Ma – osservò l'americano – questi stranieri, se introducono nuove abitudini, insegnano altresì nuove industrie, danno una spinta al commercio, allargano le relazioni e migliorano in tal modo le condizioni della popolazione.
– Giustissimo, James, ma i cinesi considerano appunto il commercio che fanno cogli stranieri dannosissimo per loro. Ed infatti li priva di una grande quantità di sete, di thè, di porcellane e di mille altri prodotti, che se rimanessero nell'impero costerebbero molto meno di quello che costano oggi.
– Ma in cambio ricevono prodotti europei, americani.
– Sono prodotti inutili pei cinesi, che ne hanno fatto senza per migliaia d'anni.
– Ma si arricchiscono.
– Chi è che si arricchisce? Il forte commerciante, ma il popolo muore di fame.
– Permettetemi di dubitarne.
– Vi darò un esempio. Un tempo esistevano in Cina migliaia e migliaia di cotonifici che occupavano milioni di operai; arrivarono gli europei, portarono i loro cotoni lavorati e le fabbriche si chiusero.
– Perché?
– Perché i cotoni cinesi costavano il doppio dei cotoni europei. Domani gli europei troveranno modo di fare una seria concorrenza alle sete lavorate, alle carte dipinte ecc., e altre fabbriche, che occupano oggi parecchi milioni di persone, si chiuderanno e la miseria crescerà. Che vi pare?
– Se devo dirvi il vero, i cinesi non ragionano male, Giorgio. E, ditemi, a quanti milioni ascende il commercio che fanno con l'Europa?
– Prima del 1842, secondo Sommerat, non ammontava che a ventiquattro o a ventisei milioni e veniva esercitato specialmente dalla Compagnia delle Indie, che vi mandava quattro grossi vascelli e una ventina di legni minori; la Francia vi mandava due navi ed esportava per due o tre milioni di merci; l'Olanda ne spediva quattro, il Portogallo altrettante, l'America qualcuna. Oggi i vascelli che approdano ai porti cinesi si contano a migliaia, poiché tutte le potenze trafficano colla Cina.
– E ditemi...
– Basta, James. Rechiamoci nella nostra foresta a tagliare degli alberi per la costruzione d'una zattera.
– Se costruite una zattera, abbatterete tutta la mia foresta – disse l'americano con rammarico.
– Vi dispiace?
– Un po', lo confesso.
– Però non vi opporrete.
– Vi condurrò colà io stesso – disse lo yankee ridendo.
– Andiamo, adunque, e voi, compagni, cercate d'ammazzare qualche anitra: torneremo affamati.
– Vi prometto un arrosto superbo – disse il polacco.
– Bada che non sia troppo cotto – avvertì l'americano. – Se lo bruci ti tirerò le orecchie.
– Sarà cotto a puntino, sir James.
Il polacco e il piccolo cinese, presi i fucili, partirono per la caccia, e l'americano e Giorgio si cacciarono in mezzo ai famosi boschi formati da quattro gelsi, quindici cespugli e ventiquattro bambù, che fortunatamente erano assai grossi e altissimi.
In meno di un'ora la foresta fu a terra. Avuto il materiale, una zattera in brevissimo tempo fu costruita presso la riva. Non era molto grande, ma solidissima e capace di portare cinque o sei persone.
– A colazione – disse il Capitano, quando il lavoro fu compiuto. – Poi ci imbarcheremo.
– Cacciatori, costruttori, americani, cinesi, italiani, polacchi, tutti a tavola! – gridò Casimiro.
L'americano in quattro salti giunse al campo.
Il cuoco aveva fatto miracoli.
Due anitre e una mezza dozzina di uccelli chiamati ciue-uen, raccomandati particolarmente dal cinese, finivano di arrostire e in un canto borbottava una pentola che mandava un profumo speciale.
– Ohe, ragazzo! – esclamò James con voce piena d'entusiasmo. – Hai aggiunto qualche altro piatto all'arrosto?
– Certamente, sir James. Il nostro piccolo cannoniere rovistando nella vostra possessione ha trovato una certa pianta somigliante a un cavolo.
– Oh! Oh! – esclamò l'americano, dimenando le mascelle. – I cavoli mi piacciono immensamente. A tavola, signori, se non volete che scappi via colla pentola.
Si sedettero per terra assalendo vigorosamente quel cavolo, che i cinesi chiamano pen-nai. L'americano lo dichiarò eccellentissimo. Portato l'arrosto, afferrò un ciue-uen.
– Ecco un volatile che mi è nuovo – diss'egli. – Ehi, Casimiro, lascia le anitre e mordi questa roba che deve essere delicatissima.
Il polacco ubbidì, ma tanto l'uno che l'altro, dopo la prima dentata, sostarono guardandosi in faccia.
– Che razza d'uccello è mai questo? – esclamò l'americano. – Ha un certo sapore...
– Corpo di una pipa! – gridò il polacco. – Io pure ho notato lo strano sapore del mio volatile. Ohe! Min-Sì, che roba è mai questa?
– Voi mangiate degli uccelli buonissimi – rispose il cinese che rideva sotto i baffi pendenti. – I ciue-uen sono un boccone prelibato.
L'americano arrischiò un secondo boccone, ma subito scagliò lontano il volatile e si mise a sputare come avesse bevuto una tazza di tossico.
– Ah, maledetto uccello! – urlò egli spaventato. – Il birbante era pieno di veleno! Sputa, sputa, Casimiro, sputa fuori!
– Santo Iddio! – gemette il polacco, saltando in piedi. – Siamo morti! Aiuto, Capitano, aiuto! Ah, canaglia di un cannoniere-spaccamonti, avvelenare due galantuomini!
Il Capitano si sbellicava dalle risa.
– Corpo di un cannone! – tuonò lo yankee, che credeva realmente di essere spacciato. – E voi ridete! Vi pare poco crepare avvelenati?
– Ma, miei disgraziati amici, – disse alfine Giorgio – voi avete addentato dei ciue-uen fortemente aromatizzati. Non sapete che questi uccelli si ubriacano di pepe?
– Si ubriacano di pepe? Vi sono degli uccelli in questo dannato paese che si ubriacano come da noi gli uomini col whisky? Ehi, Casimiro, consoliamoci; era semplice pepe.
– Ma ho la gola in fiamme.
– Estingueremo il fuoco con un'eccellente oca, ragazzo mio. Animo!
I due valentuomini attaccarono il rimanente dell'arrosto e lavorarono così bene di denti, che dieci minuti dopo non restavano che le ossa. Una lunga sorsata d'acqua perlata del Si-Kiang, come diceva l'americano, bastò a spegnere totalmente gli effetti troppo calorosi dei ciue-uen.
Alle quattro fu dato il segnale della partenza. I viaggiatori si affrettarono a imbarcarsi sulla zattera, portando con loro le armi, le munizioni e la tenda. Il polacco si mise al timone, gli altri tre a prua, armati di lunghe pertiche.
Il galleggiante, abbandonato a se stesso, staccossi dalla riva, rimase un momento lì a scricchiolare, poi prese il largo scendendo il fiume con la rapidità di una canoa a sei remi.
Gli uomini di prua, piantando le pertiche nel letto del fiume, riuscirono a fargli prendere una direzione obliqua, ma fu cosa di pochi minuti. Spinta dalla corrente che saltava a bordo, fu presa dai gorghi e si mise a roteare con tale furia da subissarsi per metà.
Il polacco, mal fermo in gambe come era, cercò con un colpo di barra di rimetterla sulla buona via, ma fu atterrato. Il timone e i remi, in un batter d'occhio, furono spezzati.
– Maledizione! – urlò Casimiro.
La zattera, in balìa dei gorghi che si moltiplicavano nel mezzo del Si-Kiang, turbinava su se stessa e sembrava quasi da credere che si trovasse in mezzo al terribile Maëlstrom della Norvegia. Ora deviava e filava all'est colla rapidità di una freccia, ora immediatamente arrestavasi, incatenata da nuovi gorghi che muggivano sinistramente intorno ad essa.
I quattro viaggiatori, impotenti ad arrestare quella corsa disordinata, si erano uniti al centro dell'apparecchio, caricandosi di tutte le loro robe, più che persuasi di naufragare sui banchi sabbiosi che dividevano in parecchi canali l'irata fiumana. Talvolta, sotto i loro piedi, sentivano i bambù alzarsi come se radessero dei bassi fondi.
– Attenti! – gridò ad un tratto il Capitano.
La zattera correva dritta in direzione di un isolotto sabbioso. Vi urtò contro con molto impeto, si sollevò fuori dalle acque e si spezzò per metà; una parte si frantumò e l'altra, montata dai viaggiatori, continuò a discendere la corrente.
Non vi era da perdere un solo momento. Il Capitano, James, Casimiro e il cinese strapparono dal rottame alcuni bambù e, puntando tutti assieme, lo spinsero verso la riva, mettendosi in salvo.