La Palingenesi di Roma/La Distruzione/II. L'aurora della morale umana

II. L'aurora della morale umana

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II.


L’AURORA DELLA MORALE UMANA.


La morale romana fu sempre una morale civica. L’uomo non contava e non valeva, se non in quanto partecipava alla vita pubblica; le sue virtù personali eran tenute in conto, soltanto se servivano alla comunità. Anche certi vizi, quando riuscivano utili alla repubblica, venivan senz’altro lodati come virtù.

Il Cristianesimo, invece, sostituì alla morale civica la morale personale, in modo che il cristiano rendeva direttamente conto delle sue azioni a Dio, e, come cittadino del mondo, non si curava di chi governasse il suo corpo, non preferiva questo a quel paese, uno straniero a un compatriota. Un barbaro o uno schiavo, se buoni e virtuosi cristiani, valevano ai suoi occhi assai più di un romano o di un senatore, viziosi ed increduli. La giustizia e la reputazione degli uomini lo lasciavano indifferente. Tutte le guerre spargevano il caro sangue di uomini a lui uguali.

E allora, veniva fatto di concludere, perchè combattere, se bisogna amare i nemici come sè stessi, e [p. 50 modifica] tendere la guancia sinistra a chi ci percuote sulla destra?

Se tutte le virtù civiche fortificavano il regno terrestre, a che servivano per le glorie di quello divino? Perchè ammirare il coraggio, quando non serviva che ad uccidere e a farsi uccidere, come gladiatori, per un padrone inutile? Perchè conquistare il mondo e imporgli le proprie leggi, se soltanto contavano quelle di Dio, alle quali si deve obbedire non per forza ma per amore? Perchè accumular denari arricchendo nello stesso tempo lo Stato con la privata avarizia, se tanto le vere ricchezze stanno nel proprio cuore o nei cieli; se inutile è pensare al domani, poiché Dio provvederà ai nostri bisogni, come dà cibo e vesti agli uccelli del cielo? Perchè migliorare la propria condizione e render sicuro lo Stato, se nella sofferenza sta la vera gioia, e nel patire l’ingiustizia altrui, si prova l’infinito godimento di sentirsi migliore?

Esagererebbe chi attribuisse al Cristianesimo soltanto tutto questo capovolgimento della antica morale. Già in seno al paganesimo le grandi filosofie universalistiche, come lo stoicismo, avevano incominciato ad opporre la morale umana alla morale civica. Seneca era arrivato ad affermare « homo res sacra homini » immaginando una città universale ove tutti potessero abitare — amici e nemici, padroni e servi, patrizi e plebei — senza distinzione di nazionalità, di classe e di diritti politici. Nella stessa storiografia noi abbiamo veduto a Livio, per il quale il grande [p. 51 modifica] cittadino è l’uomo perfetto, succedere Tacito, che pur essendo tenacemente tradizionalista, giudica gli imperatori ed i grandi secondo un criterio di morale personale, ossia alla stregua della loro virtù e dei loro vizi privati. Ma nella filosofia e nelle storie pagane la nuova morale non si contrappone all’antica: si sovrappone a lei come una conciliazione, un perfezionamento, un addolcimento; il cristianesimo invece tronca ogni transazione, spinge alle ultime conseguenze il principio che importa soltanto l’adempimento dei doveri verso Dio, dinnanzi a cui tutti gli uomini sono uguali. Ma così facendo, il cristianesimo compiva una rivoluzione immensa, per cui la storia di Roma, oggetto fino allora di tanta venerazione, diventava un’orribile e incomprensibile anarchia.