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FRANCESCO MARIA MOLZA

               Le grazie, c’ha d’intorno ognor presenti,
               Poco sente e gradisce, e lieta e vaga
               32Sol di sè stessa sè medesma appaga.
          Nè rugiada già mai fresca di notte,
               Quando la luna i campi arsi rintegra,
               E l’assetate piagge e dal sol cotte,
               36Copie d’argento, e i sacri boschi allegra,
               A Giove l’erbe a supplicar condotte
               Così ristora, e rende ogni ombra integra,
               Come la chiara vista o ’l vago piede
               40Di questa, che nel cor mio regna e siede.
          Velloso armento, che bel piato pasce,
               Ov’ella di sedersi ha per costume,
               Quanto più rode, più tanto rinasce
               44D’erboso e vago per sì chiaro lume:
               Tal valor portò seco dalle fasce
               Questa Fenice da l’aurate piume:
               Dunque, pastori omai casti e divoti,
               48Porgete a lei e non a Pale i voti.
          Chè potrà quella terra di leggero,
               Ch’ella col piede pargoletto preme,
               Risponder largo ad ogni avaro impero,
               52E colmar dei bifolchi ogni alta speme:
               Chè fioriran per qualunque sentiero
               Via maggior frutti che non porta il seme:
               Nè potrà danneggiar grandine, o belva,
               56O di loglio o d’avene orrida selva.
          Nè, perchè il verno i solchi aspro non rompa,
               E la sementa non offenda il gelo,
               Nè per continua pioggia si corrompa
               60Sovra l’umido suo terrestre velo,
               Accolti in lunga e coronata pompa.
               Sparger i prieghi vi fia d’uopo al cielo;

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