La Nascita della Tragedia/Capitolo X
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Capitolo X.
È incontestabile tradizione, che la tragedia greca nella sua forma più antica aveva per oggetto esclusivamente i dolori di Dioniso, e che per un lunghissimo corso di tempo il solo personaggio scenico esistente fosse appunto Dioniso. Solo che con pari sicurezza è lecito affermare, che fino ad Euripide Dioniso non ha mai cessato di essere l’eroe tragico, ma che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo, Edipo e via dicendo, non furono più che maschere dell’eroe originario Dioniso. Che dietro tutte coteste maschere si celasse una divinità, è questa appunto la ragione essenziale della tanto ammirata «idealità» tipica di quelle celebri figure. Non so chi ha sostenuto, che tutti gl’individui, come individui, sono comici e perciò non tragici; donde s’inferirebbe, che i greci non poterono in generale comportare individui sulla scena tragica. Sembra che effettivamente abbiamo sentito così: lo prova in generale la distinzione e valutazione platonica dell’«idea» in contrapposto all’«idolo», cioè all’immagine; distinzione che è radicata profondamente nella natura greca. Per servirci della terminologia di Platone, si potrebbe in certo modo dire dei personaggi tragici della scena greca, che il Dioniso veramente reale compare in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe lottante e, per così dire, preso alla rete della volontà del singolo. Comparendo in tale conformità e parlando e agendo corrispondentemente, il dio somiglia a un individuo che erra, che si affatica, che patisce: e in generale il suo apparire in cotesta precisione ed evidenza epica è l’opera dell’oniromante Apollo, il quale con quell’apparizione allegorica chiarifica e illustra al coro il suo confuso stato dionisiaco. Ma in verità l’eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, è il dio che prova su di sé i dolori dell’individuazione, il dio di cui i miti meravigliosi raccontano, che fanciullo fu fatto a pezzi dai titani, e in quello stato lo adorarono sotto il nome di Zagreo: donde risulta evidente, che cotesto sbranamento, in cui consiste la vera e propria passione di Dioniso, è semplicemente la trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco; e che dunque dobbiamo considerare lo stato dell’individuazione come la fonte e la cagione originale di tutto il patire, come alcunché di rifiutabile per sé stesso. Dal riso di cotesto Dioniso nacquero gli dèi olimpici, dal pianto gli uomini. Durante la sua esistenza di dio fatto in pezzi Dioniso ha la duplice natura di un feroce demone selvaggio e di un mite e clemente dominatore. Ma la speranza degli epopti correva a una rinascita di Dioniso, che in un modo pieno di presentimenti bisogna che noi comprendiamo come la fine dell’individuazione: al ritorno di questo terzo Dioniso inneggiava strepitoso il cantico di giubilo degli epopti. E solo questa speranza spande un raggio di allegrezza sulla faccia del mondo dilaniato, rotto in individui: così lo configura il mito con l’immagine di Demetra immersa in eterna afflizione, la quale per la prima volta ritorna lieta, quando le vien detto che può di nuovo partorire Dioniso. Nelle considerazioni addotte abbiamo già tutti gli elementi di una profonda e pessimistica concezione del mondo, e perciò anche la dottrina dei misteri della tragedia: abbiamo cioè la teoria fondamentale dell’unità di tutto ciò che esiste, il criterio che giudièa l’individuazione come la cagione originale del male, l’arte come lieta speranza che il corso dell’individuazione sia rotto, come presentimento di una restaurazione dell’unità.
Poc’anzi si è mostrato, che l’epos omerico è il poema della civiltà olimpica, col quale essa ha cantato il suo inno di vittoria sul terrore della titanomachia. Adesso, sotto l’influenza soverchiante della poesia tragica, i miti omerici rinascono trasfigurati, e in questa metempsicosi mostrano che nel frattempo la civiltà olimpica è stata vinta da una più profonda concezione del mondo. L’altero titano Prometeo ha annunziato al suo tormentatore olimpico, che un supremo pericolo minacciava la sua dominazione, se al momento opportuno non si alleava con lui. In Eschilo apprendiamo l’alleanza del titano con Giove spaventato, trepidante per la propria fine. Così l’antica età dei titani riceve un seguito, è riportata nuovamente dal Tartaro alla luce. La filosofia della selvaggia e nuda natura guarda col viso sbendato della verità i miti del mondo omerico che le danzano davanti: essi impallidiscono, tremano sotto lo sguardo folgorante di questa dea, finché il pugno potente dell’artista dionisiaco li piega al servigio della nuova divinità. La verità dionisiaca assume l’intero dominio del mito come simbolica della sua conoscenza, e la esprime parte nel pubblico culto della tragedia, parte nella celebrazione segreta delle feste drammatiche dei misteri, ma sempre sotto l’antico velame mistico. Quale forza era cotesta, che liberava Prometeo dall’avoltoio e trasformava il mito in strumento della sapienza dionisiaca? È la forza erculea della musica: come tale, ascesa nella tragedia alla sua manifestazione suprema, la musica sa interpetrare il mito con una significazione nuova e più profonda; e noi sopra abbiamo già caratterizzato appunto in questo valore la facoltà più potente della musica. Giacché la sorte di ogni mito è quella di rattrappirsi a poco a poco nell’angustia di una pretesa realtà storica, e di essere trattato con pretese storiche da un’epoca posteriore, come un fatto puro e semplice; e i greci erano già interamente sulla via di cambiare la faccia a tutto il loro sogno mistico giovanile, e di marchiarlo con sagacità e con arbitrio come la loro storia prammatica della giovinezza. È questo infatti il modo come sogliono morire le religioni: muoiono, cioè, quando i presupposti mistici di una religione, esaminati dall’occhio rigido e critico di undommatismo ortodosso, vengono sistematizzati come una somma completa di avvenimenti storici; quando si principia perciò a difendere affannosamente la credibilità dei miti, ma si ripugna a ogni loro naturale crescimelito e sviluppo; quando dunque il sentimento del mito si estingue, e ne prende il posto la pretesa della religione a far valere le sue basi storiche. Ed ecco che il genio neonato della musica afferra il mito moribondo; e nella sua mano esso rifiorisce, e rifiorisce con colori che non ha mai mostrato, con un profumo che suscita il presentimento di un mondo metafisico. Dopo quest’ultimo risplendimento esso cade, le sue foglie appassiscono, e i beffardi Luciani dell’antichità si affrettano a ghermire i fiori sbattuti da tutti i venti, scoloriti e aridi. Con la tragedia il mito viene al suo contenuto più profondo, alla sua forma più finitamente espressiva: esso si risolleva ancora una volta, come un eroe ferito, e tutta la forza che gli rimane, insieme con la pacatezza piena di sapienza del moribondo, gli accende negli occhi il lume estremo, potente.
Che cosa volevi, o sacrilego Euripide, quando cercasti di piegare ai tuoi servigi questo moribondo? Tra le tue mani gagliarde esso peri; e allora adoperasti un mito contraffatto, mascherato, che come la scimmia d’Ercole sapesse solamente adornarsi della clamide antica. E come ti morì tra mani il mito, ti morì anche il genio della musica: anche se con avida rapina avessi saccheggiato tutti i giardini della musica, pure non avresti adoperato altro a tuo uso, che una musica contraffatta e mascherata. E perché tu abbandonasti Dioniso, Apollo abbandonò te. Scova pure dalla loro tana tutte le passioni, ed esorcizzale nel tuo cerchio magico; affila e aguzza pure pei discorsi dei tuoi eroi una dialettica sofistica: ebbene, anche i tuoi eroi hanno passioni meramente contraffatte e mascherate, e recitano discorsi meramente contraffatti e mascherati.