La Congiura de' Pazzi (Alfieri, 1946)/Atto secondo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto primo | Atto terzo | ► |
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Giuliano, Lorenzo.
a te par forse, che possanza in noi
scemi or per me? Tu di tener favelli
uomini a freno: e il son costor? se tali
fossero, di’; ciò che siam noi, saremmo?
Giul. Lorenzo, è ver, benigna stella splende
finor su noi. Fortuna al crescer nostro
ebbe gran parte; ma piú assai degli avi
gli alti consigli. Cosmo ebbe lo stato,
ma sotto aspetto di privato il tenne.
Non è pur tanto ancor perfetto il giogo,
che noi tenerlo in principesco aspetto
possiam securi. Ai piú, che son gli stolti,
di lor perduta libertá le vane
apparenze lasciamo. Il poter sommo
piú si rafferma, quanto men lo mostri.
Loren. Giunti all’apice ancor, Giulian, non siamo:
tempo è d’ardir, non di pesare. Acchiuse
giá Cosmo in se la patria tutta, e funne
gridato padre ad una. O nulla, o poco,
Pier nostro padre alla tessuta tela
aggiunse: avverso fato i pochi ed egri
suoi dí, che al padre ei sopravvisse, tosto
ei succedendo a Cosmo, e a Piero noi,
si ottenne assai nell’avvezzar gli sguardi
dei cittadini a ereditario dritto.
Dispersi poscia, affievoliti, o spenti
i nemici ogni dí; sforzati, e avvezzi
ad obbedir gli amici; or, che omai tutto
di Cosmo a compier la magnanim’opra
c’invita, inciampo or ne faria viltade?
Giul. Saggi a fin trarla, il dobbiam noi; ma in vista
moderati ed umani. Ove dolcezza
basti al bisogno, lentamente dolci;
e all’uopo ancor, ma parcamente, crudi.
Fratello, il credi; ad estirpar que’ semi
di libertá, che in cor d’ogni uomo ha posto
natura, oltre i molti anni, arte e maneggio
vuolsi adoprar, non poco: il sangue sparso
non gli estingue, li preme; e assai piú feri
rigermoglian talor dal sangue...
Loren. E il sangue
di costoro vogl’io? La scure in Roma
Silla adoprò; ma quí, la verga è troppo:
a far tremarli, della voce io basto.
Giul. Cieca fiducia! Or non sai tu, ch’uom servo
temer si dee piú ch’altro? Inerme Silla
si fea, né spento era perciò; ma cinti
di satelliti e d’armi e di sospetto,
Cajo, e Nerone, e Domiziano, e tanti
altri assoluti imperator di schiavi,
da lor svenati caddero vilmente. —
Perché irritar chi giá obbedisce? Ottieni
altrimenti il tuo fine. È ver, del tutto
liberi mai non fur costor; ma servi
neppur di un solo. — Intorpidir dei pria
gli animi loro; il cor snervare affatto;
ogni dritto pensier svolger con arte;
scherno alle genti; i men feroci averti
tra’ famigliari; e i falsamente alteri
avvilire, onorandoli. Clemenza,
e patria, e gloria, e leggi, e cittadini
alto suonar; piú d’ogni cosa, uguale
fingerti a’ tuoi minori. — Ecco i gran mezzi,
onde in ciascun si cangi a poco a poco
prima il pensar, poi gli usi, indi le leggi;
il modo poscia di chi regna; e in fine,
quel che riman solo a cangiarsi, il nome.
Loren. Ciò tutto giá felicemente in opra
posero gli avi nostri: alla catena
se anello manca, or denno esserne il fabro
dei cittadin le stolte gare istesse.
Apertamente, in somma, un sol si attenta
di resisterci, un solo; e temer dessi?
Giul. Feroce figlio di mal fido padre,
da temersi è Raimondo...
Loren. Ambo si denno
schernire, e a ciò mi appresto: è dolce anch’ella
cotal vendetta...
Giul. E mal sicura.
Loren. In mente,
tant’è, fermo ho cosí. Quel giovin fero
vo’ tor di grado; e a suo piacer lasciarlo
spargere invan sedizíosi detti:
cosí vedrassi, in che vil conto io ’l tenga.
Giul. Nemico offeso, e non ucciso? oh! quale,
qual di triplice ferro armato petto
può non tremarne? Ingiuríar debb’egli,
chi spegner puote? A intorbidar lo stato,
perché cosí dargli tu stesso, incauto,
pretesti tanti? instigatore e capo
farlo cosí dei mal contenti? E sono
molti; piú assai, che tu non pensi. Aperta
dal tradimento, or chi cel guarda? basta
a ciò il sospetto? a tor quíete ei basta,
non a dar sicurezza.
Loren. Ardir cel guarda:
ardir, che ai forti è brando, e mente, e scudo.
Farei, tacendo, a nuove offese invito
al baldanzoso giovine rubello.
Ma ingiuríato, e, da chi ’l può, non spento,
fia ludibrio dei molti a chi il fai capo.
SCENA SECONDA
Lorenzo, Giuliano, Guglielmo, Raimondo.
lascia, ten prego. — O voi, (che ancor ben noto
non m’è qual nome vi si deggia e onore)
me giá implacabil vostro aspro nemico,
or supplichevol voi mirate in atto.
Meglio, il so, meglio a mia cadente etade
liberi detti, e liberissime opre
si converriano, è ver; né le servili,
bench’io le adopri, piaccionmi. Ma solo
non son io del mio sangue; onde, è gran tempo,
alla fortuna vostra e a ria crudele
necessitá soggiacqui. In voi me poscia,
la mia vita, il mio aver, l’onore, e i figli,
tutto affidai; né ad obbedir restío,
piú ch’altri fui. Ciò che si sparge or dunque,
creder nol posso; che a oltraggiar Raimondo
e in lui me pur d’immeritato oltraggio,
voi vi apprestiate. Ma, se ciò fia vero,
chiederne lice a voi ragion pur anco?
Giul. Perché al tuo figlio pria ragion non chiedi
del suo parlar, dell’opre sue?...
io di renderla a lui: né piú graditi
testimonj poss’io mai de’ miei sensi
trovar di voi...
Loren. Son noti a me i tuoi sensi. —
Ma, vo’ insegnarti, che ad urtar coi forti
pari vuolsi all’invidia aver l’ardire;
e, non men pari all’alto ardir, la forza.
Di’; tal sei tu?
Gugl. Di nostra stirpe il capo
finora pur son io; né muover passo
fia chi s’attenti, ov’io nol muova. Io parlo
dell’opre. E che? giudici voi giá forse
de’ pensieri anco siete? o i vani detti
son capital delitto? oltre siam tanto? —
Ma se tal dritto è in voi, perch’uomo impari
meglio a temer; che siete or voi? vel chieggo.
Raim. Che son essi? e tu il chiedi? In suon tremendo
tacitamente imperíosi e crudi
non tel dicon lor volti? — Essi son tutto;
e nulla noi.
Giul. Siam delle sacre leggi
noi l’impavido scudo; a’ rei tuoi pari
fuoco del ciel distruggitor siam noi;
sole ai buoni benefico ridente.
Loren. Tali siam noi da te sprezzare in somma.
Giá un voler nostro il gonfalon ti dava;
altro nostro voler, piú giusto, il toglie.
D’immeritato onor per noi vestito,
dimmi, a qual dritto ei ti si dié, chiedesti?
Raim. Chi nol sapea? mel dava il timor vostro;
mel toglie il timor vostro: a voi regale
norma e Nume, il timore. A voi qual manca
pregio di re? voi l’arti crude, e i fieri
vizj, e i raggiri infami, e il pubblic’odio,
tutto ne avete giá. Le generose
fin che l’aura è seconda, itene, o prodi.
Non che gli averi, a chi vi spiace tolta
sia la vita e l’onor: lo sparso sangue
dritto è sublime al principato, e solo.
Ardite omai: fatevi pari ai tanti
tiranni, ond’è la serva Italia infetta...
Gugl. Figlio, tu il modo eccedi. È ver, che lice,
finché costor di cittadini il nome
tratto non s’hanno, a ciascun uomo esporre
il suo pensier; ma noi...
Loren. Tardi sei cauto:
di frenarlo, in mal punto ora ti avvisi.
Non ten doler; suoi detti, opra son tua.
Lascia or ch’ei dica: ognor sta in noi l’udirlo.
Giul. Giovine audace, or l’innasprir che giova
gli animi giá non ben disposti? Il meglio
per te sará, se tu spontaneo lasci
il gonfalon, che ad onta nostra invano
serbar vorresti; il vedi...
Raim. Io vil, d’oltraggi
degno farmi in tal guisa? Odi: queste arti,
per comandar, ponno adoprarsi forse;
ma per servir non mai. S’io ceder debbo,
ceder voglio alla forza. Onor si acquista
anco tal volta in soggiacer, se a nulla
si cede pur, che all’assoluta e cruda
necessitá. — Mi piacque i sensi vostri
udito aver, come a voi detto i miei.
Or, nuovi mezzi a víolenza nuova
vedere attendo, e sia che vuole: io ’l giuro;
esser vo’ di tirannide crescente
vittima sí, ma non stromento io mai.
SCENA TERZA
Lorenzo, Giuliano, Guglielmo.
fa ch’ei meglio si adatti; e a ciò gli giova
coll’esempio tuo stesso. Al par di lui
tu pur ci abborri, e a noi cedesti, e cedi:
dotto il fa del tuo senno. Io non pretendo
amor da voi; mal fingereste; e nulla
io ’l curo: odiate, ma obbedite; ed anco
obbedendo, tremate. Or vanne, e narra
a codesto tuo finto picciol Bruto,
che il vero Bruto invan con Roma ei cadde.
Gugl. Incauto è il figlio, il veggio. Eppur di padre
ognor con lui le sagge parti adopro;
soffrir gl’insegno; ei non l’impara. Antica
non è fra noi molto quest’arte ancora:
degno è di scusa il giovenil fallire;
si ammenderá. — Ma tu, Giulian, che alquanto
sei di fortuna e di poter men ebro,
tu il fratello rattempra: e a lui pur narra,
che se un Bruto non fea riviver Roma,
pria di Roma e di Bruto altri pur cadde.
SCENA QUARTA
Lorenzo, Giuliano.
Loren. Odo.
Favellan molto, indi ognor men li temo.
Giul. Tramar può ognun...
Loren. Pochi eseguir...
Giul. Quell’uno
esser potria Raimondo.
Loren. Anzi, ch’ei sia
l’ardir, le forze, i mezzi: ei tentar puote,
ma riuscir non mai: ch’altro chiegg’io?
da lui ne aspetto ad inoltrarmi il cenno.
Ei tenti; oprerem noi. Poter ne accresce,
e largo ci apre alla vendetta il campo,
ogni ardir de’ nemici. In tranquilla onda
poco innante si va: di nostra altezza
fia il periglio primier l’ultima meta.
Giul. Il voler tutto a un tempo, a un tempo spesso
fea perder tutto. Ogni periglio è dubbio;
né mai, chi ha regno, de’ suoi schiavi in mente
lasciar cader pur dee, ch’altri il potrebbe
assalir mai. L’opiníon del volgo
che il nostro petto invulnerabil crede,
il nostro petto invulnerabil rende.
Guai, se alla punta del ribelle acciaro
la via del core anco tralucer lasci;
giorno vien poscia, ove ei penétra, e strada
infino all’elsa fassi. Oggi, deh! credi,
fratello, a me; deh! no, non porre a prova
né il poter nostro, né l’altrui vendetta.
A me ti arrendi.
Loren. Alla ragion mi soglio
arrender sempre; e di provartel spero. —
Ma lagrimosa a noi vien Bianca: oh quanto
mi è duro udir suoi pianti!... e udirgli è forza.
SCENA QUINTA
Bianca, Lorenzo, Giuliano.
essere a me signori aspri vi piace,
pria che fratelli? Eppur, sí cara io v’era
giá un dí; sorella ognor vi sono; e voi
a Raimondo mi deste: ed or voi primi
l’oltraggiate cosí?
Bianca, or sei tu del sangue tuo, che il dritto
piú non discerni? Hai con Raimondo appreso
ad abborrirci tanto, che omai noto
il nostro cor piú non ti sia? Null’altro
far vogliam noi, che prevenir gli effetti
del suo livore. Ad ovviar piú danno,
benigni assai, piú ch’ei nol merta, i mezzi
da noi si adopran; credilo.
Bianca Fratelli,
cari a me siete; ed ei mi è caro: io tutto
per la pace farei. Ma, perché darmi
in moglie a lui, se v’era ei giá nemico;
perché oltraggiarlo, se a lui poi mi deste?
Giul. Che alla baldanza sua freno saresti
sperammo noi...
Loren. Ma invan: tale è Raimondo,
da potersi pria spegner che cangiarlo.
Bianca Ma voi, que’ modi onde si cangia un core
libero, invitto, usaste voi mai seco?
Se il non essere amati a voi pur duole,
chi vel contende, altri che voi?
Loren. Deh! come
quel traditore ha in te trasfuso intero
il suo veleno! Egli da noi ribella
te nostra suora; or, se opreran suoi detti
in cor d’altrui, tu il pensa.
Bianca A grado io forse
il regnar vostro avrei, se un uom vedessi
dalla feroce oppressíon di tutti
esente, un solo; e l’un, Raimondo fosse:
Raimondo, a cui d’indissolubil nodo
voi mi allacciaste; in cui giá da molti anni
inseparabil vivo, e ingiurie mille
seco divido e soffro; a cui d’eterna
fede e d’amor (misera madre!) io diedi
cara pur troppo e numerosa prole: —
Giul. Torgli il suo ufficio, altro non è che il torgli
di perder se, piú che di offender noi.
Anzi, tu prima indurlo ora dovresti
a rinunziarlo...
Bianca Ah! ben mi avveggio or come
per vie diverse ad un sol fin si corra.
Vittima fui di vostre mire; io il mezzo
fui, non di pace, d’indugio a vendetta.
Oh! ben sapeste in un la possa e l’alma
assumer voi di re. Fra i pari vostri,
ogni vincol di sangue è tolto a giuoco...
Ahi lassa me, ch’or me n’avveggo io tardi!
Perché nol seppi (oimè!) pria d’esser madre?
Ma in somma il sono; e sposa, e amante io sono...
Loren. Biasmar non posso il tuo dolor;... ma udirlo
piú non possiamo. — Ove il dover ci appella,
fratello, andianne. — E tu, che in cor tiranni
reputi noi, non ciò che a lui vien tolto,
mira ciò ch’ei, nulla mertando, or serba.
SCENA SESTA
Bianca.
Presso a costor vano è il mio pianto: usbergo
han di adamante al core. Al piè si rieda
di Raimondo infelice: ei non si sdegna
almen del pianger mio. Chi sa? piú lieve
forse da lui... Che forse? esser può dubbio?
Sagrificar pe’ figli suoi se stesso
ogni padre vedrem, pria ch’un sol prence
sagrificar, non che di suora al pianto,
di tutti al pianto una sua scarsa voglia.