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atto secondo 311
Raim.   Non niego

io di renderla a lui: né piú graditi
testimonj poss’io mai de’ miei sensi
trovar di voi...
Loren.   Son noti a me i tuoi sensi. —
Ma, vo’ insegnarti, che ad urtar coi forti
pari vuolsi all’invidia aver l’ardire;
e, non men pari all’alto ardir, la forza.
Di’; tal sei tu?
Gugl.   Di nostra stirpe il capo
finora pur son io; né muover passo
fia chi s’attenti, ov’io nol muova. Io parlo
dell’opre. E che? giudici voi giá forse
de’ pensieri anco siete? o i vani detti
son capital delitto? oltre siam tanto? —
Ma se tal dritto è in voi, perch’uomo impari
meglio a temer; che siete or voi? vel chieggo.
Raim. Che son essi? e tu il chiedi? In suon tremendo
tacitamente imperíosi e crudi
non tel dicon lor volti? — Essi son tutto;
e nulla noi.
Giul.   Siam delle sacre leggi
noi l’impavido scudo; a’ rei tuoi pari
fuoco del ciel distruggitor siam noi;
sole ai buoni benefico ridente.
Loren. Tali siam noi da te sprezzare in somma.
Giá un voler nostro il gonfalon ti dava;
altro nostro voler, piú giusto, il toglie.
D’immeritato onor per noi vestito,
dimmi, a qual dritto ei ti si dié, chiedesti?
Raim. Chi nol sapea? mel dava il timor vostro;
mel toglie il timor vostro: a voi regale
norma e Nume, il timore. A voi qual manca
pregio di re? voi l’arti crude, e i fieri
vizj, e i raggiri infami, e il pubblic’odio,
tutto ne avete giá. Le generose