La Congiura de' Pazzi (Alfieri, 1946)/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Guglielmo, Raimondo.
darmi, o padre, non sai? Ti sei tu fatto
schiavo or cosí, che del mediceo giogo
non senti il peso, e i gravi oltraggi, e il danno?
Gugl. Tutto appien sento, o figlio; e assai piú sento
il comun danno, che i privati oltraggi.
Ma pur, che far degg’io? ridotti a tale
ha il parteggiare i cittadin di Flora,
ch’ogni moto il piú lieve, a noi funesto,
fia propizio ai tiranni. Infermo stato,
cangiar nol puoi (pur troppo è ver!) che in peggio.
Raim. Dimmi, deh! dove ora è lo stato? o se havvi,
come peggior si fa? Viviam noi forse?
Vivon costor, che di paura pieni,
e di sospetto, e di viltá, lor giorni
stentati e infami traggono? Qual danno
nascere omai ne può? che in vece forse
del vergognoso inefficace pianto,
ora il sangue si spanda? E che? tu chiami
un tal danno il peggior? tu, che gli antichi
tempi, ben mille volte, a me fanciullo
con nobil gioja rimembravi, e i nostri
d’ogni uom del volgo, or la cervice inchini?
Gugl. Tempo giá fu, nol niego, ov’io pien d’ira,
d’insofferenza, e d’alti spirti, avrei
posto in non cal ricchezze, onori, e vita,
per abbassar nuovi tiranni insorti
su la comun rovina: al giovenile
bollor tutto par lieve; e tale io m’era.
Ma, il trovar pochi, o mal fedeli amici
ai gran disegni; e il vie piú sempre salda
d’uno in altr’anno veder radicarsi
la tirannide fera; e l’esser padre;
tutto volger mi fea pensiero ad arti,
men grandi, ma piú certe. Io de’ tiranni
stato sarei debol nemico, e invano:
quindi men fea congiunto. Allor ti diedi
la lor sorella in sposa. Omai securi
di libertá piú non viveasi all’ombra;
quindi te volli, e i tuoi venturi figli,
sotto le audaci spazíose penne
delle tiranniche ali in salvo porre.
Raim. Schermo infame, e mal certo. A me non duole
Bianca, abbenché sia dei tiranni suora;
cara la tengo, e i figli ch’ella diemmi,
benché nipoti dei tiranni, ho cari.
Non dei fratelli la consorte incolpo;
te solo incolpo, o padre, di aver misto
al loro sangue il nostro. Io non ti volli
disobbedire in ciò: ma, vedi or frutto
di tal viltà: possanza e onor sperasti
cor da tal nodo; e infamia e oltraggi e scherno
ne abbiam noi colto. Il cittadin ci abborre,
e a dritto il fa; siamo al tiranno affini:
non ci odian piú, ci sprezzano i tiranni;
e il mertiam noi, che cittadin non fummo.
Gugl. Sprone ad eccelso oprar, non fren mi avresti,
al mio non basso cor premer lo sdegno,
e colorirlo d’amistà mendace,
tu per te stesso il pensa. È ver, ch’io scorsi
d’impazíente libertade i semi
fin dall’infanzia in te: talor, nol niego,
io men compiacqui; ma piú spesso assai
piansi fra me, nel poi vederti un’alma
libera ed alta troppo. Indi mi parve,
che a rattemprare il tuo bollor, non poco
atta sarebbe la somma dolcezza
di Bianca: al fin padre tu fosti; e il sei,
come il son io pur troppo... Ah! cosí stato
nol fossi io mai! visto per lei mi avrebbe
la mia patria morire, o in un con essa.
Raim. E, dove l’esser padre esser fa servo,
farmi padre tu osavi?
Gugl. Era per anco
dubbio allora il servaggio...
Raim. Era men dubbia
la viltá nostra allora...
Gugl. È ver; sperai,
che tardo essendo ogni rimedio e vano
al comun danno omai, tu fra gli affetti
di marito e di padre, il viver queto...
Raim. Ma, se pur nato da null’altro io fossi,
marito quí securamente e padre,
uomo esser può? Non nacqui io certo a queste
vane insegne d’inutil magistrato,
che fan parer, chi l’ultim’è, primiero.
Oggi han perciò forse i tiranni impreso
di torle a me: tanto piú vili insegne,
che a simulata libertá son manto.
Fu il vestirmele infamia; e infamia al pari
lo spogliarmene or fia: mira destino.
Gugl. Fama ne corre, anch’io l’udii; ma pure
Raim. Perché nol credi? Oltraggi
non ci fero piú gravi? I tolti averi
piú non rammenti, e le mutate leggi,
sol per ferirne? Ingiuríati fummo
noi vie piú sempre, da che a lor congiunti
noi vilmente ci femmo.
Gugl. Odimi, o figlio:
ed al bianco mio crine, ed alla lunga
esperíenza or credi. Il giusto fiele,
che serbo forse anch’io nel cor profondo,
non lo sparger tu invano: ancor ben puossi
soffrire: e mai non credo abbianti a torre
donato onor, qual sia. — Ma, se ogni meta
essi pur varcan, taci: all’opre è tolto
dalle minacce il loco. Alta vendetta,
d’alto silenzio è figlia. A te dan norma,
come odíar si debba, i blandi aspetti
de’ tiranni con noi. Per ora, o figlio,
io soltanto a soffrir ti esorto e insegno...
Non sdegnerò, se poi fia d’uopo un giorno,
da te imparar, come ferir si debba.
SCENA SECONDA
Raimondo.
torni Salviati pria. — De’ miei disegni
nulla il padre penétra: ei non sa, ch’oggi,
piú che placargli, inacerbir mi giova
questi oppressori. — Ahi padre! a me tu mastro
or del soffrir ti fai? Se’ tu quel desso,
di cui non ebbe il difensor piú ardente
la patria un dí? Quanto in servir fa dotto
la gelida vecchiezza! — Ah! se null’altro,
col piú viver s’impara; acerba morte,
pria che apparar arte sí infame, io scelgo.
SCENA TERZA
Bianca, Raimondo.
s’anco me sfuggi?
Raim. Io favellai quí a lungo
dianzi col padre; ma non ho pur quindi
tratto sollievo a’ mali miei.
Bianca Buon padre,
sovra ogni cosa, egli è: per se non trema;
sol pe’ suoi figli ei trema. In petto l’ira,
per noi, raffrena il generoso vecchio:
non creder, no, spento il valor, né doma
la sua fierezza in lui: ch’io tel ridica,
deh! soffri; egli è buon padre.
Raim. Oh! dirmi forse
vuoi tu, ch’io tal non sono? Il sai, se nulla
valse a frenar mio sdegno, ognor tuoi prieghi,
valsero, o Bianca, a ciò; tuoi soli prieghi,
l’amor tuo casto, e il tuo materno pianto.
Dolce compagna io t’estimai, non suora
de’ miei nemici... Ma, ti par fors’oggi,
ch’io tacer debba ancora? oggi, che tolta,
senza ragion, stammi per esser questa
mia popolare dignità? che in bando
irne dovrem da questo ostel, giá sacro
di libertade pubblica ricetto?
Bianca Possenti sono; a che inasprir co’ detti
chi non risponde, ed opra? Assai può meglio,
che tue minacce, il tuo tacer placarli.
Raim. E placarli vogl’io?... — Ma, nulla vale
Bianca Nulla? d’un sangue
non io con loro?...
Raim. Il so; duolmene; taci;
nol rimembrare.
Bianca E che? men caro forse
mi fosti, o sei, perciò? Non sono io presta,
ove soffrir gl’imperj lor non vogli,
a seguirti dovunque? o, se l’altera
alma tua non disdegna aver di pace
stromento in me, son io per te men presta
a favellar, pianger, pregare, ed anco
a far, se il deggio, a’ miei fratelli forza?
Raim. Per me pregare? e chi pregar? tiranni? —
Tu il pensi, o donna? e ch’io il consenta, speri?
Bianca Possanza hai tu, ricchezze, armi, seguaci,
onde a lor far tu apertamente fronte?...
Raim. Pari al lor odio, in petto io l’odio nutro;
maggior d’assai l’ardire.
Bianca Oimè! che parli?
Tenteresti tu forse?... Ah! perder puoi
e padre, e moglie, e figli, e onore, e vita...
E che acquistar puoi tu? Lusinga in core
non accogliere omai: desio verace
di prisca intera libertà non entra
in questo popol vile: a me tu il credi.
Credi a me; nata, ed allevata io in grembo
di nascente tirannide, i sostegni
io ne so tutti. A mille a mille i servi
tu troverai, nel lor parlar feroci,
vili all’oprar, nulli al periglio; od atti
solo a tradirti. Io, snaturata e cruda
tanto non son, che i miei fratelli abborra;
ma gli ho men cari assai, da che li veggo
a te sí duri; e i lor superbi modi
spiaccionmi assai. Se alla funesta scelta
per te son madre, oppresso sei; non posso,
né vacillar degg’io. Ma tu, per ora,
deh! non risolver nulla: a me la impresa
di farti almen, se lieto no, securo,
lasciala a me; ch’io ’l tenti almeno. Io forse
appien non so, come a tiranno debba
di un cittadino favellar la sposa?
Fors’io non so, fin dove alle non lievi
ragioni unir non bassi preghi io possa?
Son madre, e moglie, e suora; in chi ti affidi,
se in me non fidi?
Raim. Oh cielo! il parlar tuo
mi accora, o donna. Anch’io pace vorrei;
ma, con infamia, no. Che dir potresti
per me ai fratelli? ch’io non merto oltraggi?
Ben essi il san; quindi mi oltraggian essi:
ch’io non soffro le ingiurie? a che far noto
ciò che dal sol mio labro saper denno?
Bianca Ah!... Se a loro tu parli,... oimè!...
Raim. Che temi?
Cangiarmi, è vero, io l’alma omai non posso;
ma so tacer, se il voglio. In mente ho sempre
te, Bianca amata, e i figli miei: s’io nacqui
impetuoso, intollerante, audace,
non perciò mai motto né cenno a caso
io fo: ti acqueta; anch’io vo’ pace.
Bianca Eppure
ti leggo in volto da fera tempesta
sbattuto il core... Ah! non vegg’io forieri
di pace in te.
Raim. Lieto non son; ma crudi
disegni in me non sospettare.
Bianca Io tremo;
né so perché...
Raim. Perché tu m’ami.
E di che amore!... A vera gloria il campo,
deh, concesso or ti fosse!... Ma, corrotta
etá viviam: gloria è il servir; virtude,
l’amar se stesso. Or, che vuoi tu? cangiarci
uom sol non puote; e altr’uom che te, non conti.
Raim. Perciò mi rodo, e perciò... taccio.
Bianca Or vieni;
volgiamo altrove il piede: in queste stanze
porre tal volta il seggio lor son usi
i miei fratelli...
Raim. Il so: quest’è il recesso,
ove l’orecchio a menzognere lodi
s’apre, ed il core alla pietá si serra.
Bianca Vieni or dunque; al velen, ch’ogni tua vena
infesto scorre, alcun dolce pur mesci.
Oggi abbracciati i nostri figli ancora
non hai. Deh! vieni: a te il diranno anch’essi
con gl’innocenti taciti lor baci,
meglio ch’io col parlar, che pur sei padre.
Raim. Deh, potessi cosí, com’io rammento
di padre il nome, oggi obbliar quel d’uomo! —
Ma, andianne omai. — Se a me sien cari i figli,
tu il vedrai poscia. — Ah! tu non sai (deh, fia
che mai nol sappi!) a qual funesta stretta
traggano i figli un vero padre; e come,
il troppo amarli a perderli lo tragga.