L'epopea della bonifica nel Polesine di San Giorgio/3
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Non è possibile ripercorrere la storia delle terre del Polesine di San Giorgio senza narrare, parallelamente, quella delle valli salse che si dilatano attorno alla città di Comacchio. Se la storia dell’agricoltura non può mancare di rievocare il confronto che si è protratto, per millenni, tra i popoli dediti alla coltivazione dei campi e quelli viventi dei prodotti della pastorizia, un confronto che segna, ad esempio, l’intera storia della Cina, le vicende dell’agricoltura del Polesine di San Giorgio sono determinate, per una successione non esigua di secoli, dal confronto, non meno crudo, tra le esigenze del grano e quelle di cefali e anguille.
A spiegare il conflitto si deve ricordare la propensione naturale di un vasto novero di specie marine a risalire i fiumi, in primavera, alla ricerca di pastura nelle acque dolci. Se, salito il pesce, i passaggi che ne hanno consentito l’accesso vengano chiusi, e negli stagni in cui si sia insediato sia mantenuta una salinità sufficiente alle sue esigenze biologiche, il pesce crescerà e potrà essere catturato quando, in inverno, aperti gli sbocchi, tenderà naturalmente a tornare in mare. Il meccanismo della pesca negli stagni salsi impone la chiusura delle comunicazioni tra le valli e il mare dalla fine di maggio, quando si conclude la risalita del novellame, e la fine di gennaio, quando hanno termine le catture.
La secolare contesa comacchiese tra pesca e agricoltura ha quattro protagonisti: il potere politico, nei secoli che rievochiamo il potere papale, titolare dei diritti eminenti sulle valli salse, un imprenditore privato che affitta le valli, la popolazione comacchiese, che gode del diritto di pesca su alcune valli e che assicura all’imprenditore la manodopera necessaria alle attività alieutiche, i proprietari, infine, dei terreni agricoli confinanti con le valli. La pesca nelle valli di Comacchio costituisce, tra il Cinquecento e l’Ottocento, la più lucrosa impresa di acquacultura d’Italia, forse d’Europa. Un’impresa oltremodo redditizia nonostante che la società comacchiese abbia sempre rivendicato il diritto collettivo sul pesce di tutte le acque locali, in un conflitto incessante con il proprio datore di lavoro, nei cui confronti non ha mai rinunciato a quella che la controparte tentava di impedire come pesca “di frodo”, l’ardimentosa attività notturna del “fiocinino” comacchiese.
Nonostante parte del pescato sia perduta nel conflitto con la popolazione, di cui la miseria alimenta la tenacia, tra il Cinquecento e l’Ottocento il prezzo del pesce è tale da rendere l’appalto oltremodo lucroso. Nel 1587 Alfonso II affitta le valli per l’ingente cifra di 52.000 scudi, una cifra che i contratti successivi non assicureranno alla Camera apostolica per l’intero corso del Seicento, quando le valli saranno cedute per cifre prossime ai 20.000 scudi romani. Concedendo, peraltro, le autorità pontificie, il progressivo ampliamento delle valli, gli appaltatori saranno indotti ad aumentare il corrispettivo, che nel 1772 toccherà i 55.000 scudi romani.
Gli appaltatori sono disposti ad accrescere il canone della concessione alla condizione di potere governare le acque secondo le esigenze della pesca, che sono esigenze esattamente opposte a quelle dell’agricoltura, siccome impongono, dopo la risalita del pesce, di sbarrare le comunicazioni tra le valli e il mare. Nei mesi chiave delle colture agrarie ai terreni adiacenti alle valli salse viene impedito, così, qualunque scolo, le acque piovane si accumulano elevando il livello delle valli di acqua dolce, il franco di coltura si riduce, la coltivazione diviene improduttiva su terreni che, permesso lo scolo, potrebbero essere adeguatamente coltivati. E’ la ragione del peggioramento, tra il Cinquecento e l’Ottocento, delle condizioni agronomiche dei terreni del Polesine di San Giorgio, che si deteriorano in proporzione esattamente inversa alla dilatazione delle valli da pesca e all’entità del pescato della più feconda laguna mediterranea.