L'uccisione pietosa/8
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Il terrore del trapasso.
Abbiam visto che, anche a prescindere dai casi di lento e disperato morire, Bacone e Moro, seguìti da buon numero di eutanatisti, hanno di mira proprio il momento del trapasso imaginandoselo penosissimo in ogni vivente. Ma è ciò vero? La cosa è dubbia, e già lo abbiamo detto.
L’agonia ha svariate manifestazioni a seconda della malattia di cui è l’esito e può durare un tempo diversissimo, da pochi minuti e da qualche ora a qualche giorno; e si capisce che la eutanasia non sarà applicabile, se non alle agonie prolungate e di aspetto impressionante. Quelli che più svegliano pietà ed orrore sono gli agonizzanti in cui la respirazione, fattasi dapprima irregolare per indebolimento della muscolatura degli organi respiratorii, diventa sempre più stentata, faticosa, alternata da singulti e da sospiri, talvolta con quelle intermittenze che costituiscono il così detto fenomeno di Cheyne-Stockes. In tutti questi infermi, per lo più vecchi od esauriti, il muco non potendo essere espulso con sufficienti moti di tosse o per progrediente insensibilità dei bronchi e della trachea, vi si accumula, e smosso dalla vieppiù affannosa ventilazione polmonare vi gorgoglia e produce il rumoroso rantolo mortale. Meno visibili sono le alterazioni che contemporaneamente avvengono nell’apparato circolatorio, mentre l’aspetto del moribondo è reso più ripulsivo dall’affilarsi dei suoi lineamenti, dallo spalancarsi della bocca ai cui angoli scola la saliva, dal sudore della fronte, dal color cianotico, giallognolo del volto.
Tutto questo rattristante insieme mimico porta in Medicina il nome storico di “facies hippocratica„, perchè già aveva colpita l’attenzione degli Antichi, e il Grande Maestro di Coo ne ha lasciata una classica descrizione. Ma notiamo bene che, nonostante quelle apparenze, l’agonizzante può mantenersi cosciente e rispondere alle domande che gli siano rivolte, o pronunciare parole e frasi riferentisi alla sua vita passata. In certi moribondi si ha un ritorno di imagini e di nozioni (ad esempio, linguistiche) che parevano da lungo tempo scomparse dalla sua memoria; questi casi, quantunque rari, mostrano che non sempre la morte colpisce da principio il sistema nervoso, sebbene sia di regola che le cellule nervose, quelle psichiche specialmente, sono le prime a morire.
Perciò l’agonia non può esser sempre accompagnata da dolore; perchè ciò fosse, converrebbe che la coscienza del vivente permanesse fino all’ultimo e assistesse terrificata e lucida al transito da vita a morte. Fortunatamente per l’Uomo, e anche per gli animali, la coscienza del morente è quasi sempre oscurata, e la morte sopravviene dopo che la sensibilità superiore, cerebrale, cosciente, se ne è andata. Le espressioni di sofferenza che noi, rattristati ed impotenti, vediamo in chi sta spegnendosi, anche se la malattia non fu per sè troppo dolorosa, come accade nel più dei casi, o fu del tutto indolora, come pur può avvenire, non dipendono da una lotta consapevole colla tetra Nemica che si avvicina: sono l’effetto di automatismi ereditarii o individuali ormai inconscii, sono sistemazioni organiche di difesa, nelle quali l’istinto lavora ormai ciecamente. Contrazioni, gesti di ripulsa, gemiti, sospiri, aggricchiar delle mani sulle coltri, tentativi inani di scendere dal letto, di portarsi verso la luce, tutti questi atti che accompagnano le agonie più tumultuose, hanno lo stesso valore psicologico del singhiozzo irrefrenabile per spasmo del diaframma, del rantolo per paresi delle fibre bronchiali, del sudore per paresi vasomotoria; parrebbero reazioni emotive, se non sapessimo che si effettuano per azioni reflesse subcoscienti sui centri inferiori della espressione: non vogliono significare consapevolezza e dolore.
Se l’istinto della conservazione è insito in ogni creatura vivente in quanto, come scrive il dott. Barbillion, esso non è che una forma particolare della legge della conservazione dell’Energia universale; e se l’Uomo ha tentato in ogni tempo di eludere il principio opposto alla Vita, cioè la Morte, si comprende come anche all’avvicinarsi inesorabile della Grande Nemica, quell’istinto possa risorgere prepotente e farci fino all’ultimo momento combattere e anche sperare di sfuggirle. Non è quasi mai la paura di “esser morto„, ossia di trovarsi sbalzato nell’Al di là, ciò che assilla il pensiero del moribondo, salvo che non venga a turbarlo la credenza del fantastico premio o castigo nell’Altra Vita: è proprio la paura di “morire„, la paura del “passaggio„. Niuno vi pensa a mente calma in mezzo alla salute più florida; niuno vi si avvicina senza un intimo, profondo fremito del cuore; ognuno pensa all’agonia come ad un periodo di inimmaginabili sofferenze. È vero che la Medicina può fino ad un certo punto molcere i dolori della malattia in corso, ma si ha ragion di dubitare che essa possa fare lo stesso a riguardo dello stato agonico, ove questo fosse veramente così penoso come al Moro e a parecchi eutanatisti è sembrato.
La frase comune “lottare con la Morte„, è condensata nel termine “agonia„, che vuol proprio dire “lotta„; ma toltine pochissimi casi, per i quali è permesso supporre che la Vita se ne vada in tale lucidità di coscienza da poter comprendere l’approssimarsi della sua fine, nella immensa maggioranza delle morti la lotta è semplicemente organica, non psichica; anzi, può ben dirsi che l’agonia cominci con lo spegnersi della luce del cervello, ossia con la cessazione della funzione della sua grigia corteccia. E neanco dopo la morte gli elementi organici muoiono tutti ad un tratto e simultaneamente; si sono visti crescere capelli, barba, unghie per qualche ora dopo l’esalazione dell’ultimo respiro; anzi, in certi casi le ossidazioni e combustioni vitali si perseguono così che nel cadavere si nota un aumento della temperatura. Il solo segno sicuro della vera morte (dopo che si è studiato per secoli questo inquietante problema) vien dato dalla putrefazione, che però non impegna subito ed egualmente tutte le cellule del corpo, come dimostrò Arrigo Tamassia. Con la imbalsamazione gli antichi Egizî e Peruviani hanno prolungata per secoli la permanenza non solo delle forme, ma pur anco delle strutture vitali, sebben private del loro requisito caratteristico, la funzione della Vita; orbene, in generale la fisonomia di quei morti perpetuati è serena e calma, come se riposassero: essi non mostrano traccia alcuna della presupposta lotta per non morire.
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Qui si entra in un dominio oscurissimo della Psicologia, anzi di tutto il Sapere umano: ci si trova dinanzi all’enigma, per ora insoluto e forse insolubile, della “Coscienza„. Non se ne può dir altro in questo luogo, se non che quella “psiche„ che avvertiamo in noi stessi, su cui rivolgiamo il lavoro analitico di introspezione, che accompagna l’attività cerebrale quando sentiamo, percepiamo, pensiamo e ragioniamo, quando ci commoviamo per affetti o per sentimenti, quando ci decidiamo ad agire per un dato fine; quella che ci permette di farci una rappresentazione del mondo esterno e del nostro corpo, e ci porta a sentire gli stimoli derivanti dall’uno e dall’altro, fra cui quei mutamenti disintegrativi dell’io fisico e morale, che ci arrecano sofferenza e dolore, non comprende tutto lo “psichismo„ che opera in noi: ne è soltanto la porzione superiore, la coscienza vigile, la coscienza pr. detta. Al di sotto, al di fuori di essa l’Uomo possiede una psiche latente, intima, più vasta e profonda, che elabora nel silenzio impressioni, ricordi, tendenze, e talvolta emerge dai suoi recessi per penetrare nell’altra, passando, come dicono gli psicologi, sopra la sua soglia; questa è la subcoscienza, o coscienza subliminale, che sta di mezzo fra l’incosciente fisiologico e la mentalità propriamente detta.
Orbene, quelle tendenze ereditarie (istinti) od acquisite (abitudini) permangono sempre pronte a trasformarsi in atti e si scaricano spontaneamente sotto stimoli che non sorpassano la soglia, ma che sono sufficienti per eccitare i centri dello psichismo inferiore. Allora si produce l’“automatismo„ del quale fanno parte le reazioni che l’organismo effettua senza che la coscienza superiore ne abbia sentore e per inevitabili connessioni anatomo-fisiologiche. I moti caratteristici dell’agonia, come già dissi, sono di questo genere; appartengono alla Fisiologia anzichè alla Psicologia, e costituiscono una difesa involontaria, subcosciente, fors’anco incosciente; non si rappresentano alla coscienza vigile in quanto non arrivano ai centri più alti dello psichismo, o, se ci arrivano, li trovano ormai in condizioni tali da non potervi più risvegliare la consapevolezza. Ne consegue che non può esservi “dolore„ se non entrano in funzione le cellule della corteccia.
Nella morte i centri sono a poco a poco invasi dal torpore colla diffusione dei veleni biolitici che la morte sprigiona da tutti i nostri tessuti. Forse il tessuto nervoso sarà l’ultimo a dare questi prodotti auto-tossici, perchè esso possiede una resistenza singolare (acquisita per selezione naturale, non per dono di Provvidenza!), e lo si vede nella morte per inedia, dove l’organo che meno perde di peso è per l’appunto il cervello; ma alla fine, la coscienza si ottenebra assai prima della dissoluzione della corteccia, bastando un lieve dissesto di questo delicatissimo tessuto per intorpidirla ed addormentarla. Il celebre clinico inglese Guglielmo Osler, nel suo bellissimo libro Science and Immortality, dice di avere tenuto conto del modo di morire di ben 500 dei suoi malati; orbene, i quattro quinti non hanno manifestato sofferenze nell’agonia: 90 però hanno sofferto dolori fisici, 11 dell’angoscia, 2 un vero terrore, uno si è mostrato eccitato, uno ha espresso del rimorso. Il Sicard sostiene perciò che grande è il numero delle morti serene, anche se la coscienza del moribondo è lucida; ma la immensa maggioranza degli uomini muore nella più perfetta incoscienza: ossia, quasi tutti, scompariamo, per nostra fortuna, nell’“eutanasia naturale„.
Non si nega che esistano stadî preagonici dolorosissimi, ma il “passaggio„ da vita a morte non appare realmente così atroce, come ci si raffigura. Tutti conosciamo le morti rapidissime indotte dalla narcosi chirurgica (per quanto siano in fondo abbastanza rare), allorquando o per una intolleranza individuale impreveduta ed imprevedibile il narcotico abbia colpito, assiderato i centri bulbari, o si sia praticata una cloroformizzazione troppo intensa o troppo prolungata. Orbene, quei pazienti operandi passano insensibilmente, per così dire, pacificamente, dal sonno anestesico alla morte e non manifestano segni di sofferenza alcuna.
Qualora si esamini il meccanismo fisiologico della cloronarcosi, si trova che essa va dalle funzioni superiori del sistema nervoso (sensibilità cerebrale, coscienza) alle inferiori; dalle più evolute filogeneticamente e dalle più recenti ontogeneticamente a quelle che costituiscono la forma primordiale delle reazioni vitali, risiedenti nel bulbo, e che diremmo organiche (respirazione, circolazione). Ora è allo stesso modo che progredisce l’agonia: così che questa può essere considerata, come scrive Barbillion, una anestesia naturale. Nell’agonia la prima ad estinguersi sarà la sensibilità cosciente; quindi il potere eccito-motorio della midolla spinale, con che scompare anche la sensibilità reflessa; in ultimo viene attaccato il bulbo: la inspirazione di ossigeno e la eliminazione d’acido carbonico diventano sempre più difficili, provocandosi così la intossicazione progressiva del “nodo vitale„, e alla fine il respiro si ferma ed il cuore cessa di pulsare: è la morte! “Il morente non può essere dunque lo spettatore lucido della sua fine, e con ciò sfugge alla prova più spaventosa che si possa immaginare... Tutto il dramma si compie e si risolve nel silenzio e nelle tenebre dell’Incosciente, al modo istesso che all’origine della vita individuale si era durante lunghi mesi elaborato nelle tenebre e nel silenzio lo sviluppo di un organismo che solo tardi acquista coscienza di sè„; la differenza sta soltanto nel tempo di questo lento acquisto e di questa rapidissima perdita della consapevolezza di vivere.
Ricordiamo inoltre il fatto che i malati del sistema nervoso, avendo lesi quasi sempre i centri psichici, sia primitivamente, sia in conseguenza dei progressi della affezione, giungono nella immensa maggioranza dei casi alle soglie dell’estremo passo senza averne coscienza, e quindi colla sensibilità ottusa, fors’anco spenta, rispetto al presunto patimento dell’agonia e della morte. D’altra parte, la Psicologia non ci ha ancora perfettamente illuminati su quello stato da noi chiamato “incoscienza„. E dicono: siamo sicuri che la coscienza si ritiri davvero dall’organismo di un morente, o non vi saranno gradi, siano pur minimi, di sensibilità subcosciente, di quella che i fisiologi dicono “bruta„, che risiederebbe nei centri gangliari subcorticali o centrali, e della quale non potremmo privare senza ribrezzo e rimorso una creatura umana? Poichè, in sostanza, finchè c’è sensibilità c’è vita; e questa è sacra!
Ma ecco il quesito: il “passaggio„ è proprio “sentito„ da colui che lo compie? E dico “sentito„ intendendo alludere sempre alla coscienza che noi abbiamo del nostro io, alla parte che dicemmo vigile o superiore della coscienza totale, dato che questa, secondo le ultime direttive e vedute della Psicologia scientifica, ha una larga zona marginale che sfumerebbe verso l’incosciente. Si può ritenere che in questa zona, pur avverandovisi dei fenomeni attivi, quali son quelli che i psicologi classici dicono con Leibnitz “percezioni minime„, e che la odierna Metapsichica, allargando immensamente il concetto leibniziano, ha battezzato per opera di Carlo Richet come “criptestesia„, non esista un processo ultra-umano di coscienza eguale a quello che noi avvertiamo in piena veglia; nel qual caso è anche supponibile che vengano a mancare quegli elementi del Dolore e del Piacere che noi percepiamo mediante i centri superiori o corticali, perchè resi insensibili dall’intossicazione agonica. Ma come non abbiamo nessuna idea di ciò che possa essere la psiche degli animali inferiori, e tanto meno possiam comprendere la natura della forza misteriosa che si manifesta nei fenomeni della Vita, i quali a loro volta male si differenziano, per una Scienza veramente positiva, da quelli della Realtà fisico-chimica universale, così ai limiti della nostra coscienza ignoriamo ciò che di questa possa sussistere nel momento in cui la Vita cede alla Morte, e l’organismo, privo d’ogni sua funzione speciale, entra nel circolo perenne delle per noi cieche (ma chi sa se lo sono!) forze di Natura. Altro enigma formidabile e insolubile!
Ad ogni modo, l’avvicinarsi del “passaggio„ non è quasi mai avvertito con pena; dissi già che vi son moltissimi casi di morte serena, e noi dobbiamo individualmente sperare che anche a noi tocchi la stessa fortuna. Forse gioverà quella che i credenti (ma con significato diverso) chiamano “preparazione alla buona morte„: rassegnarsi al destino dei viventi, che è quello di morire; avvicinarsi al passo supremo con la maggior calma dello spirito, e non temerlo! V’è da credere infatti, che sullo stato sensitivo generale (cenestetico) che precede la morte, abbia influenza il temperamento fisiopsichico o l’abituale mentalità del soggetto; non deve essere un caso fortuito se l’olimpico e sempre felice Volfango Goethe spirò dopo avere pronunciata la idealissima frase “Più luce, più luce„, mentre quel perpetuo infelice che fu Giacomo Leopardi esclamò di non vederci più, e lo sciagurato Guy de Maupassant, già da tempo ossessionato dalla tanatofobia, si spense sul suo giaciglio manicomiale col triste grido: “Oh! le tenebre, oh le tenebre!„.
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Ma supponiamo pure che agli agonizzanti si dovesse applicare la eutanasia; siccome si tratterà sempre delle agonie più penose e perciò più lunghe, trascinantisi per ore e per giorni, sorge il quesito pratico del momento in cui il medico potrà predire con sicurezza la morte del paziente. L’“uomo di scienza„ in certi casi si trova qui quasi altrettanto povero del profano; la Biologia non possiede dati e criterî assoluti per affermare la imminenza dell’estremo sonno. Non potremmo ingannarci sulla agonia, anzi, ciò che è ben più terribile, sul reale significato terminale di quegli spasmi e di quei rantoli? Su quali nozioni positive predire a termine fisso la cessazione di una vita? Confessiamo francamente che spesso ci sbagliamo: il più consumato professionista ora vide ritardare, ora vide con sua sorpresa affrettarsi la morte del suo ammalato; che più? in qualche caso la morte stessa, sebbene prognosticata secondo tutte le regole cliniche, non venne!
Già, è ancora arduo in un certo numero di casi (rarissimi, ma reali) stabilire se la vita è cessata in un corpo; e ce lo dice l’affannarsi dei fisiologi e dei medici-legisti per trovare i “segni certi„ della morte. Non mancano esempi di seppellimento di corpi ancora vivi, e se l’evento non è così frequente come tanti suppongono (veggasi il libro pauroso dell’Agabiti, Tortura sepolcrale, Roma, 1913), il fatto è accaduto e può verificarsi oggi o domani. Vi sono persone così dubitose dei criterî posseduti dalla Medicina professionale per accertare la morte, che vivono in preda ad una continua apprensione di restarne vittime; e pensano sempre al modo di sfuggire al pericolo, e vi provvedono con meticolose precauzioni espresse nei loro reiterati testamenti e codicilli; qualcuno arriva alla più ansiosa e folle delle ossessioni, che io ho descritto pel primo sotto il nome di “tafefobia„. Certo, i casi di risveglio improvviso e duraturo delle forze organiche di resistenza, e quindi di quella che il pubblico crede e chiama “resurrezione„, sono rari, eccezionali; ma nessun medico ha tanta “scienza in corpo„ da arbitrarsi ad escluderne la possibilità in ogni contingenza particolare: si conoscono esempi memorabili di questo ritorno alla vita quando questa pareva del tutto spenta. E non per falso pregiudizio, nè sempre per dispregio alla Medicina vi sono quelli che insistono sulla possibilità, se non sulla frequenza, di deplorevoli errori di fronte ad una “morte apparente„, o, come meglio diceva Claudio Bernard, ad una “vita latente„.
È vero, dunque, che per rarissima eccezione ci può capitare uno di quei casi in cui è ancora possibile la reviviscenza. Questo evento fu narrato più volte, e la Mistica se ne giova pei suoi fini. Possiamo distinguerli in due gruppi: quelli delle malattie organiche comuni, e quelli delle malattie del sistema nervoso. Figurano nel primo le forme asfittiche del coléra e di altre malattie infettive; le forti perdite di sangue in persone deboli o gravemente ferite; le profuse emorragie delle donne per parti laboriosi e con placenta previa; gli avvelenamenti con gaz irrespirabili o per narcotici, oppio, cloroformio, veronale, morfina e simili; certe azioni violente di annegamento, strangolamento e impiccagione; le intense commozioni con forte scuotimento del corpo, come si son viste nell’ultima guerra; l’asfissia dei neonati per distocia, ecc. Appartengono al secondo gruppo, in primissima fila, l’isterismo, che ha occasionato nei tempi passati e anche adesso occasiona le più spettacolose risurrezioni, massime sotto lo stimolo di riti religiosi; poi l’epilessia, la eclampsia, la catalessi, la demenza precoce catatonica, i deliquii per eccessiva stanchezza muscolare, e certe intensissime emozioni fra cui primeggia lo spavento. Ma quando accortamente si informi sui precedenti del caso e sappia definire la causa di quell’apparente stato di morte, il medico prudente avrà quasi sempre modo di scampare al rischio di rilasciare un’attestazione o affermazione intempestiva.
Se in ogni caso di morte occorre andare guardinghi prima di giudicare che l’individuo è realmente trapassato, se i segni assoluti della morte reale ci mancano tuttora e quelli che si ritengono buoni rimangono pur sempre incerti e relativi, ne consegue che la diagnosi di prossima, sicura morte, è circondata da difficoltà assai più forti di quello che comunemente e troppo facilmente si creda. Io penso con raccapriccio al momento in cui, sanzionato il principio dell’eutanasia, potessi essere invitato a pronunciare la mia sentenza, anche se confortata dal consenso unanime di un Collegio o di un Tribunale medico; da solo, non mi sentirei quasi mai in grado di esprimere un diagnostico netto e infallibile di morte imminente: associato a colleghi, penserei che essi, come me, mancano di un criterio sicuro. E così, forse, mi troverei nel più dei casi costretto a negare la mia firma alla sentenza di “uccisione pietosa„. Vorrei insomma adottare in ogni consimile evento il motto che Douté mise in testa ad una sua Dissertazione della Sorbona nel 1682: “Ergo metu quam audaciâ medicus felicior„.
Quei nostri vecchi Colleghi avevano una idea più alta della nostra funzione sociale, sebbene il genio comico di Molière li colpisse coi suoi sarcasmi e con la insuperabile parodia di Sganarello; per essi il medico vero era quello “fisico e morale„, secondo la bella frase del Gagliardi, che scriveva a Roma nel 1718. Nell’imminenza della fine di un suo paziente il medico non deve soltanto sentirsi investito dell’ufficio scientifico di combattere il male e di ostacolare l’appressarsi della morte, ma deve mostrarsi anche consapevole della sua umanissima missione di confortatore verso quelli che temono, piangono e si disperano attorno al letto di un moribondo. Il suo còmpito sarà allora di convincerli che quelle terrificanti espressioni di pena e di lotta non sono avvertite da chi si spegne, e con ciò combatterà l’opinione comune che il trapasso sia spaventosamente disaggradevole per chi lo compie. Questa sua opera morale apporterà sempre qualche consolazione a chi vede morire una persona cara.
Un punto solo mi par giusto, ma anche esso con riserva, nella pagina del Maeterlinck, che ho citato al § 6°; ed è là dove incolpa i medici di prestarsi a “trascinare in lungo le atroci convulsioni dell’agonia„. Con ciò egli allude, di certo, ai mezzi eccitanti, che noi usiamo negli ultimi stadî delle malattie, quando ormai ogni speranza parrebbe mancare: rubefazioni della pelle, iniezioni di caffeina, etere, muschio, olio canforato, stricnina, ecc., ecc. (qualcuno ha anche pensato alla flagellazione!). Per un buon numero di casi forse l’accusa è vera o, almeno, ha parvenza di verità. Quando un paralitico, un tabetico, un senile in marasma, un apoplettico, sono agli estremi, e i parenti, fra le lagrime ci chiedono di prolungare quella agonia, noi difficilmente ce ne schermiamo, e, colle migliori intenzioni di fare opera doverosa, ricorriamo alla siringa del Pravaz, senza altro effetto che di provocare un sussulto o un gemito di più nel moribondo. Il fatto sta che nessun olio canforato, nessuna essenza di muschio, nessun senapismo o centigramma di stricnina, saprebbe arrestare il processo morboso nella sua ineluttabile discesa verso la fine: noi riusciamo appena a suscitare qualche reflesso di difesa nell’incosciente o assopito malato; fors’anco (ed il pensiero tremendo mi ha spesso conturbato mentre compievo quell’ufficio) noi riportiamo il dolore entro la soglia di una coscienza che stava allontanandosi e perdendo sè stessa. Facciamo noi con ciò opera utile alla vita che si sta spegnendo? E sopratutto facciamo opera umana, ossia morale?
Confesso che in ciò io vado d’accordo con Maeterlinck; sono fra coloro che raccomandano ai loro parenti e famigliari di non chiedere al medico che tenti quel falso, forse doloroso fermo sulla vita, e inutile quando essa starà per fuggire dal corpo. Per mio conto, vorrei chiudere, se sarà possibile, gli occhi alla luce nell’assopimento progrediente della coscienza senza quelle oramai vane resistenze alle leggi imprescrittibili di Natura. Debbo però osservare al Poeta belga che la sua ragionevole condanna di questi tentativi inefficaci contro l’agonia non porta affatto ad accettare l’opposta tesi, del dovere che avrebbero i medici di abbreviarla o anticiparla! Noi vogliamo far nostre le belle parole del Bouquet:
“Noi medici ci sforziamo di guarire quando la cosa è possibile; di sollevare rendendo tollerabile la vita quando la salute perfetta eccede i mezzi di cui disponiamo; nei casi in cui ogni scienza è impotente, ci si chiede di essere almeno dei consolatori. Ecco la trinità dei nostri doveri: noi respingiamo ogni aggiunta che non ci potrebbe essere se non di aggravio. La morte è la nostra nemica: siamo qui per combatterla, non per affrettarne il trionfo„.