L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo XVIII
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CAPITOLO XVIII.
All’alba i coloni erano tornati in silenzio alla bocca della caverna, alla quale diedero il nome di cripta Dakkar, in ricordo del capitano Nemo.
Allora la marea era bassa, e poterono facilmente passare sotto l’arcata.
Il canotto di latta rimase all’ingresso, in guisa che fosse al riparo dalle onde. Per maggior precauzione, Pencroff, Ayrton e Nab, lo tirarono sul piccolo greto che confinava con uno dei lati della cripta, in un luogo in cui non correva alcun pericolo.
L’uragano era cessato colla notte. Gli ultimi brontolii erano svaniti nell’ovest. Non pioveva più, ma il cielo era carico di nuvole. Insomma, quel mese d’ottobre, principio delle primavere australi, non si metteva bene, e il vento aveva una tale variabilità che non permetteva di farvi assegnamento alcuno.
Cyrus Smith ed i suoi compagni, lasciando la cripta Dakkar, avevano ripresa la via del ricinto. Cammin facendo, Nab ed Ayrton ebbero cura di sbarazzare il filo, che era stato teso fra il ricinto e la cripta e che poteva servire più tardi.
Per via i coloni parlarono poco, chè i diversi incidenti di quella notte dal 15 al 16 ottobre li avevano impressionati troppo vivamente.
Quell’incognito la cui influenza li proteggeva con tanta efficacia, quell’uomo di cui la loro immaginazione faceva un genio, il capitano Nemo, non era più. Il suo Nautilus e lui erano sepolti in fondo ad un abisso. Pareva a ciascuno d’essere più che mai isolati. Si erano, per così dire, avvezzati a contare sul poderoso intervento, che ora veniva loro meno; e Gedeone Spilett e Cyrus Smith medesimo non si sottraevano a quell’impressione. Però stettero tutti in profondo silenzio, mentre seguivano la via del ricinto.
Verso le nove del mattino i coloni erano tornati al Palazzo di Granito. Era stato convenuto di spingere alacremente la costruzione della nave, e Cyrus Smith più che mai vi consacrò il suo tempo e le sue cure. Non si sapeva che cosa riserbasse l’avvenire, ed era una garanzia per i coloni l’aver a propria disposizione una nave solida, capace di tenere il mare anche in tempo burrascoso, e vasta tanto, da tentare, al bisogno, una traversata lunga. Se, compiuta la nave, i coloni non si decidevano ancora a lasciar l’isola Lincoln per andarsene o ad un arcipelago polinesiano del Pacifico o alle coste della Nuova Zelanda, almeno dovevano essi recarsi al più presto all’isola Tabor per lasciarvi la notizia relativa ad Ayrton. Ed era quella una indispensabile precauzione da prendere, per il caso che lo yacht scozzese riapparisse in quei mari.
Furono dunque ripigliati i lavori.
Cyrus Smith, Pencroff, ed Ayrton, ajutati da Ge deone Spilett, da Nab e da Harbert, semprechè non fossero impediti da alcun’altra bisogna pressante, lavoravano di continuo. Era necessario che la nave fosse pronta fra cinque mesi, vale a dire al principio di marzo, prima che i venti d’equinozio avessero reso impossibile la traversata. Perciò i carpentieri non perdettero un istante. Innanzi tutto bisognava compiere lo scafo, e, d’altra parte, non avevano a darsi pensiero di fabbricare gli attrezzi, perchè erano stati salvati interamente quelli dello Speedy.
La fine dell’anno 1868 trascorse in quegli importanti lavori, quasi ad esclusione d’ogni altro. In capo a due mesi e mezzo erano state messe a posto le coste ed adattati i primi fasciami. Si poteva già giudicare che i sesti dati da Cyrus Smith erano eccellenti e che la nave starebbe bene in mare.
Pencroff metteva nel suo lavoro un’operosità febbrile e non tralasciava di brontolare quando l’uno o l’altro abbandonava l’accetta di carpentiere per il fucile di cacciatore. Pur bisognava far le provviste del Palazzo di Granito per il prossimo inverno. Ma era tutt’uno: il bravo marinajo non era contento quando gli operaj mancavano al cantiere. In tali occasioni egli faceva, per dispetto s’intende, il lavoro di sei uomini.
Tutta quella stagione d’estate fu brutta. I calori erano accascianti, e l’atmosfera, carica d’elettricità, si scatenava poi con violenti uragani, che turbavano profondamente gli strati dell’aria. Era caso raro che non s’udissero i brontolii lontani del tuono. Era come un mormorío sordo ma continuo, quale suole avvenire nelle regioni equatoriali del globo.
Il 1° gennajo 1869 fu anzi segnalato da un uragano d’una violenza estrema, e la folgore cadde molte volte sull’isola. Grossi alberi furono colpiti dal fluido ed infranti, fra gli altri uno di quelli enormi che ombreggiavano il cortile all’estremità sud del lago.
Aveva la meteora un rapporto qualsiasi coi fenomeni che si compivano nelle viscere della terra? Vi era forse connessione fra i turbamenti dell’aria e quelli delle parti interne del globo?
Cyrus Smith fu indotto a crederlo, perchè lo svilupparsi di quegli uragani fu segnalato da una recrudescenza di sintomi vulcanici. Fu il 3 gennajo che Harbert, salito fin dall’alba sull’altipiano di Lunga Vista per insellare uno degli onaggas, vide un enorme pennacchio sulla cima del vulcano. Harbert prevenne subito i coloni, i quali corsero ad osservare la vetta del monte Franklin.
— Eh! esclamò Pencroff, non sono vapori stavolta! Mi pare che il gigante non si accontenti più di respirare... esso fuma.
L’immagine adoperata dal marinajo traduceva appuntino la modificazione avvenuta nella bocca del vulcano. Già da tre mesi il vulcano eruttava vapori più o meno intensi, ma che non provenivano se non da ebolizioni interne delle materie minerali.
Questa volta ai vapori succedeva un fumo denso, che si elevava in forma d’una colonna bigia, larga oltre 300 piedi alla base ed allargantesi a guisa di un enorme fungo, all’altezza di sette od ottocento piedi dalla vetta del monte.
— Il fuoco è nel camino, disse Gedeone Spilett.
— E non lo potremo spegnere! aggiunse Harbert.
— Si dovrebbero spazzare ogni tanto i vulcani! esclamò Nab, che sembrò parlare coll’accento più serio del mondo.
— Buono, Nab, esclamò Pencroff, e faresti tu da spazzacamino?
E così dicendo mandò uno scoppio di riso.
Cyrus Smith esaminava attentamente il denso fumo eruttato dal monte Franklin, e porgeva orecchio, come se avesse voluto sorprendere qualche brontolio lontano. Poi tornando verso i compagni, da cui si era allontanato alquanto, disse:
— Infine, amici miei, un’importante modificazione è avvenuta, non giova dissimularlo. Le materie vulcaniche non sono più soltanto in istato di ebolizione, hanno preso fuoco; senza dubbio, siamo minacciati da una prossima eruzione.
— Ebbene, signor Smith, la vedremo l’eruzione, e batteremo le mani se andrà bene. O che, dobbiamo darci pensiero per questo?
— No, Pencroff, rispose Cyrus Smith, perchè l’antica via delle lave è sempre aperta, ed in grazia della sua disposizione, il cratere le ha finora gettate sempre al nord. Eppure...
— Eppure, posto che non vi è alcun profitto da trarre da un’eruzione, sarebbe meglio che non venisse, disse il reporter.
— Chissà, rispose il marinajo, ci può ben essere nel vulcano qualche utile e preziosa materia, che esso avrà la compiacenza di buttar fuori, e di cui noi faremo buon uso.
Cyrus Smith crollò il capo da uomo che non si aspettava nulla di buono dall’eruzione, il cui sviluppo era già considerevole. Egli non considerava gli effetti dell’eruzione colla leggerezza di Pencroff. Se le lave, per causa dell’orientazione del cratere, non minacciavano direttamente le parti boschive o coltivate dell’isola, altre complicazioni potevano avvenire. In fatti, non è raro che le eruzioni siano accompagnate da terremoti, ed un’isola della natura della Lincoln, formata di materiali diversi, basalto da una parte, granito dall’altra, lave al nord, terreno mobile al mezzodì, materie che per conseguenza non potevano essere facilmente legate fra di loro, avrebbe potuto correre il rischio di essere disaggregata. Se adunque il traboccare delle sostanze vulcaniche non formava un gran pericolo, qualsiasi movimento nell’ossatura terrestre, scuotendo l’isola, poteva produrre conseguenze fatali.
— Mi pare, disse Ayrton, il quale si era coricato in modo da appoggiare l’orecchio a terra, mi par d’udire un sordo brontolìo. Sembra il rumore d’un carro carico di sbarre di ferro.
I coloni ascoltarono con estrema attenzione, e poterono accertarsi che Ayrton non s’ingannava; ai brontolii si univano talvolta muggiti sotterranei, che formavano una specie di rinforzando, come se una brezza violenta avesse soffiato nelle profondità del globo. Pur non s’udiva ancora alcuna detonazione propriamente detta. Si poteva dunque argomentare che i vapori ed il fumo trovassero un libero passaggio attraverso il condotto centrale e che, essendo larga la valvola, non avverrebbe alcuna dislocazione, nè si avrebbe a temere lo scoppio.
— Vediamo, disse allora Pencroff; non torniamo noi al lavoro? Che il monte Franklin fumi, sbraiti, gema, vomiti fuoco e fiamme quanto gli piace, questa non è una ragione per starcene colle mani in mano. Andiamo, Harbert, Nab, Ayrton, signor Cyrus, signor Spilett, oggi bisogna che tutti pongano mano all’opera; dobbiamo adattare il fasciame, e una dozzina di braccia non saranno troppe. Fra due mesi voglio che il nostro nuovo Bonaventura — perchè gli conserveremo questo nome, non è vero? — galleggi sulle acque di porto Pallone.
Non vi era un momento da perdere. Tutti i coloni, le cui braccia erano domandate da Pencroff, scesero sul greto e lavorarono a collocare le precinte, grosse bordature che formano la cintura del bastimento, e trattengono saldamente le coste del suo scheletro. Era quella una bisogna grave e penosa, a cui tutti dovettero pigliar parte. Si lavorò dunque assiduamente tutto quel giorno del 3 gennajo senza inquietarsi del vulcano, che dal greto del Palazzo di Granito non si poteva scorgere.
Ma una o due volte grandi ombre, velando il sole che descriveva il suo arco diurno in un cielo purissimo, indicarono che una densa nuvola di fumo passava fra il suo disco e l’isola. Il vento, soffiando dal largo, portava tutti quei vapori all’ovest.
Cyrus Smith e Gedeone Spilett notarono benissimo quel rabbujamento passeggiero, e cianciarono più volte dei progressi che faceva evidentemente il fenomeno vulcanico. Ma il lavoro non fu interrotto.
Era del resto importantissimo, per tutti i rispetti, che la nave fosse compiuta nel più breve termine possibile. Di fronte agli accidenti che potevano nascere, la sicurezza dei coloni sarebbe così meglio garantita. Chissà che quella nave non dovesse essere un giorno il loro unico rifugio?!
La sera, dopo cena, Cyrus Smith, Gedeone Spilett ed Harbert risalirono sull’altipiano di Lunga Vista. Era già notte buja, e l’oscurità doveva permettere di riconoscere se ai vapori ed al fumo accumulato nella bocca del cratere, si mescessero fiamme o materie incandescenti eruttate dal vulcano.
— Il cratere è in fiamme! esclamò Harbert, il quale, più lesto dei compagni, era giunto primo all’altipiano.
Il monte Franklin, distante sei miglia circa, appariva allora come una torcia gigantesca, in cima alla quale si agitavano alcune fiamme fuligginose. Tanto fumo, tante scorie e tante ceneri forse vi erano commiste, che il loro bagliore, molto attenuato, non si staccava più vivamente dalle tenebre della notte. Ma una specie di luce fulva si spandeva sull’isola e mostrava confusamente le boscaglie dei primi piani. Immensi turbini oscuravano le alture del cielo, attraverso le quali scintillavano alcune stelle.
— I progressi sono rapidi, disse l’ingegnere.
— Non è da stupire, rispose il reporter. Il risveglio del vulcano data già da un certo tempo. Vi ricordate, Cyrus, che i primi vapori apparvero verso il tempo in cui abbiamo frugato nei contrafforti della montagna per iscoprire il nascondiglio del capitano Nemo? Se non m’inganno era verso il 15 ottobre.
— Sì, rispose Harbert, e sono oramai due mesi e mezzo.
— I fuochi sotterranei hanno adunque covato per dieci settimane, ripigliò a dire Gedeone Spilett, e non è da maravigliare che prorompano ora con tanta violenza.
— Non le sentite voi le vibrazioni del suolo? domandò Cyrus Smith.
— Certo, rispose Gedeone Spilett, ma da questo ad un terremoto...
— Non dico che siamo minacciati da un terremoto, rispose Cyrus Smith. Dio ce ne preservi! No, queste vibrazioni sono dovute alla effervescenza del fuoco centrale. La corteccia terrestre altro non è che la parete d’una caldaja, e voi sapete che la parete d’una caldaja, sotto la pressione dei gas, vibra come una lastra sonora. È ciò che avviene in questo momento.
— Oh! i bei zampilli di fuoco! esclamò Harbert.
In quella spicciò dal cratere una specie di fuoco d’artifizio, di cui i vapori non avevano potuto scemare il bagliore. Migliaja di frammenti luminosi si avven tavano in direzione contraria. Alcuni, sorpassando la cupola di fumo, si lasciavano dietro un vero polverio incandescente. Quest’eruzione fu accompagnata da scoppi successivi, come d’una batteria di mitragliatrici.
Cyrus Smith, il reporter ed il giovinotto, dopo d’aver passato un’ora sull’altipiano di Lunga Vista, ridiscesero sul greto e tornarono al Palazzo di Granito.
L’ingegnere era pensieroso, quasi inquieto, tanto che il reporter credette dovergli chiedere se presentisse qualche pericolo, di cui l’eruzione fosse causa diretta od indiretta.
— Sì e no, rispose Cyrus Smith.
— Pure, riprese a dire il reporter, la più gran disgrazia che ci potrebbe capitare non sarebbe essa un terremoto che mettesse sottosopra l’isola? Ora io non credo che questo sia a temere, poichè i vapori e le lave hanno trovato un libero passaggio per prorompere al di fuori.
— E perciò, rispose Cyrus Smith, non temo un terremoto nel significato che si dà solitamente alle commozioni del suolo cagionate dalle espansioni del vapori sotterranei; ma altre cause possono produrre altri disastri.
— Quali, caro Cyrus?
— Non so, bisogna ch’io veda, ch’io visiti la montagna. Fra qualche giorno saprò che cosa dirvi.
Gedeone Spilett non insistette, e presto, malgrado le detonazioni del vulcano, la cui intensità cresceva e che ripetevano gli echi dell’isola, gli ospiti dei Palazzo di Granito dormirono un sonno profondo.
Passarono tre giorni, il 4, 5 e 6 gennajo. Si lavorava sempre alla costruzione del battello, e, senza spiegarsi altrimenti, l’ingegnere affretto quanto poteva i lavori.
Il monte Franklin era allora incappucciato da una calotta tenebrosa di sinistro aspetto, e oltre le fiamme eruttava macigni incandescenti, alcuni dei quali ricadevano nel cratere medesimo. Il che faceva dire a Pencroff, il quale non voleva considerare il fenomeno se non dal suo aspetto dilettevole:
— To’! il gigante giuoca alle palle!
Le materie eruttate ricadevano nell’abisso e non pareva che le lave gonfiate dalla pressione interna si fossero elevate ancora fino all’orifizio del cratere.
Almeno lo sbocco del nord-est, che era in parte visibile, non versava alcun torrente sulla scarpa settentrionale del monte.
Per quanto premurosi fossero i lavori di costruzione, altre cure reclamavano la presenza dei coloni in altri punti dell’isola. Prima di tutto bisognava andare al ricinto, dove era chiuso il gregge di mufloni e di capre, e rinnovarvi la provvista di foraggio per quegli animali.
Fu allora convenuto che Ayrton vi si recherebbe il domani; e siccome poteva bastare egli solo per questa bisogna, di cui aveva egli l’abitudine, Pencroff e i coloni manifestarono una certa maraviglia quando intesero l’ingegnere dire ad Ayrton:
— Poichè andate domani al ricinto, vi accompagnerò.
— Eh! signor Cyrus, esclamò il marinajo, i nostri giorni di lavoro sono contati, e se ve ne andate anche voi, saranno quattro braccia di meno.
— Torneremo domani, rispose Cyrus Smith; ma ho bisogno di andare al ricinto.... desidero riconoscere a che punto è l’eruzione.
— L’eruzione!... l’eruzione! rispose Pencroff in aria poco soddisfatta. La bella cosa quest’eruzione! Che importa a me dell’eruzione?
Checchè ne pensasse il marinajo, l’esplorazione disegnata dall’ingegnere ebbe luogo il domani.
Harbert avrebbe ben voluto accompagnare Cyrus Smith, ma non volle addolorare di troppo Pencroff, e rimase.
Il domani, all’alba, Cyrus Smith ed Ayrton, salendo sul carro aggiogato ai due onaggas, pigliarono di gran trotto la via del ricinto. Passavano sopra la foresta grosse nuvole, a cui il monte Franklin forniva di continuo materie fuligginose. Queste nuvole, che rotolavano grevi nell’atmosfera, erano evidentemente composte di materie eterogenee. Non era soltanto al vulcano che dovevano l’essere così stranamente opache e massicce; scorie in istato di polvere, come a dire pozzolana polverizzata e ceneri bigie fine come la polvere più minuta, stavano sospese in mezzo alle loro grosse volute. Codeste ceneri sono tanto tenui, che furono viste star in aria per mesi intieri. Dopo l’eruzione del 1783 in Islanda, per oltre un anno l’atmosfera fu sì carica di polvere vulcanica, che a stento lasciava passare i raggi del sole.
Ma più spesso codeste materie polverizzate ricadono, come avvenne in quest’occasione. Cyrus Smith ed Ayrton erano appena giunti al ricinto, quando cadde una specie di neve nerastra simile a leggera polvere da caccia, e mutò in un istante l’aspetto del suolo. Alberi, praterie, tutto sparve sotto uno strato grosso molti pollici, Ma per gran ventura il vento soffiava da nord-est e la maggior parte della nuvola andò a disperdersi verso il mare.
— È singolare, signor Smith, disse Ayrton.
— È grave! rispose l’ingegnere. Questa pozzolana, queste pietre pomici polverizzate, tutto questo polverío minerale, in una parola, dimostra quanto sia profondo il turbamento negli strati inferiori del vulcano.
— Ma non c’è nulla a fare?
— Nulla, tranne rendersi conto dei progressi dei fenomeno. Pensate voi, Ayrton, alle cure da dare al ricinto. Frattanto io risalirò fino al di là delle sorgenti del rivo Rosso, ed esaminerò lo stato del vulcano nel suo pendío settentrionale. Poi....
— Poi, signor Smith?
— Poi farò una visita alla cripta Dakkar... voglio vedere... insomma tornerò a prendervi fra due ore.
Ayrton entrò allora nel cortile del ricinto, ed aspettando il ritorno dell’ingegnere si occupò dei mufloni e delle capre, che sembravano provare un certo malessere in causa di quei primi sintomi dell’eruzione.
Frattanto Cyrus Smith, essendosi avventurato sulla cresta dei contrafforti dell’est, fece il giro del rivo Rosso, e giunse là dove i suoi compagni ed egli avevano scoperto una sorgente solforosa nella loro prima esplorazione.
Le cose eran ben mutate! Invece d’una sola colonna di fumo, egli ne contò tredici, che zampillavano sul suolo come se fossero state spinte con impeto da qualche stantufo. Era evidente che la crosta terrestre soffriva in quel punto del globo una spaventevole pressione. L’atmosfera era satura di gassolforosi, di idrogeno, d’acido carbonico misto a vapori acquei.
Cyrus Smith sentiva fremere quei tufi vulcanici, che occupavano la pianura e che altro non erano se non ceneri polverizzate, e ridotte dal tempo a masse dure. Pur non vide alcuna traccia di nuove lave.
E di ciò l’ingegnere potè accertarsi meglio quando ebbe esaminato tutte le balze settentrionali del monte Franklin.
Turbini di fumo e di fiamme sfuggivano dal cratere, una grandine di scorie cadeva sul suolo, ma nessun sbocco di lave avveniva ancora: il che provava come il livello delle materie vulcaniche non avesse ancor raggiunto l’orifizio superiore del condotto centrale.
— Preferirei che ce ne fossero, pensò Cyrus Smith; almeno sarei certo che le lave hanno ripreso la loro via consueta. Chissà invece se non si verserà da qualche nuova bocca? Ma non è qui il pericolo. Il capitano Nemo l’ha ben preveduto! No, non è qui il pericolo!
Cyrus Smith si avanzò fino all’enorme ghiajata, il cui prolungamento incorniciava il golfo del Pesce-cane. Potè dunque esaminare da quella parte le antiche striscie di lave. Non era dubbio, per lui, che l’ultima eruzione risalisse ad un tempo molto lontano.
Allora egli rifece i suoi passi, porgendo orecchio ai brontolii sotterranei, che si propagavano come un tuono continuo e da cui si staccavano terribili detonazioni. Alle nove del mattino era di ritorno al ricinto.
Ayrton lo aspettava.
— Gli animali sono provveduti, disse costui.
— Bene, Ayrton.
— Sembrano inquieti, disse Ayrton.
– È l’istinto che parla ad essi, e l’istinto non inganna mai.
— Quando vorrete....
— Pigliate un fanale ed un acciarino, e partiamo.
Ayrton fece quanto gli veniva indicato. Gli onaggas, staccati, vagavano nel ricinto. La porta fu chiusa all’esterno, e Cyrus Smith, precedendo Ayrton, prese, verso l’ovest, lo stretto sentiero che conduce alla costa.
Entrambi camminavano sopra un terreno fatto soffice dalle materie polverulente cadute dalle nuvole. Non si vedeva alcun quadrupede nei boschi. Anche gli uccelli erano fuggiti.
Talvolta una brezza sollevava lo strato di cenere, ed i due coloni, avvolti da un turbine opaco, più non si vedevano. Badavano allora ad applicarsi un fazzoletto sugli occhi sulla bocca per non essere acciecati e soffocati.
Cyrus Smith ed Ayrton non potevano in queste condizioni camminare rapidamente; inoltre l’aria era greve, come se il suo ossigeno fosse bruciato in breve e fosse divenuta disadatta alla respirazione. Ogni cento passi bisognava arrestarsi a pigliar fiato.
Erano dunque trascorse le ore dieci quando l’ingegnere ed il suo compagno giunsero alla cresta di quel cumulo di roccie basaltiche e porfiritiche che formava la costa nord-est dell’isola.
Ayrton e Cyrus Smith cominciarono a discendere per quella costa scoscesa, seguendo press’a poco la via detestabile, che in quella notte d’uragano li aveva condotti alla cripta Dakkar. Di pieno giorno quella via era meno pericolosa, e d’altra parte lo strato di cenere che copriva le roccie permetteva d’assicurar meglio il piede nella loro superficie inclinata.
Giunsero presto alla spalla, che prolunga la spiaggia ad un’altezza di 40 piedi circa. Cyrus Smith si ricordava che quella spalla, inclinata con dolce pendío, giungeva fino al livello del mare. Sebbene la marea fosse bassa, non si scorgeva alcun greto, e le onde, sporche di polvere vulcanica, venivano direttamente a battere i basalti del litorale.
Cyrus Smith ed Ayrton ritrovarono senza stento l’ingresso della cripta Dakkar, e si arrestarono sulla rupe, che formava il piano inferiore della spalla.
— Il canotto di latta deve essere là, disse l’ingegnere.
— Vi è, signor Smith, rispose Ayrton tirando fuori il lieve battello dalla volta dell’arcata, sotto cui era al riparo.
— Imbarchiamoci, Ayrton.
I due coloni s’imbarcarono nel canotto. Una lieve ondulazione lo spinse più profondamente sotto la vôlta bassa della cripta, e colà Ayrton, dopo aver battuto l’acciarino, accese il fanale. Poi afferro i due remi, posando il fanale a prua in maniera da gettar la luce innanzi. Cyrus Smith prese il timone e si diresse verso il mezzo della cripta.
Non vi era più il Nautilus per illuminare colle sue luci la caverna. Forse l’irradiazione elettrica, sempre nudrita dal suo possente focolare, si propagava ancora nel fondo delle acque, ma nessun bagliore usciva dall’abisso in cui riposava il capitano Nemo.
La luce del fanale, benchè insufficiente, permise all’ingegnere di farsi innanzi seguendo la parete destra della cripta.
Un silenzio sepolcrale regnava sotto quella vôlta, almeno nella sua parte anteriore, perchè non andò molto che Cyrus Smith sentì distintamente brontolii che partivano dalle viscere della montagna.
— È il vulcano, disse.
Presto, insieme col rumore, si fecero palesi le combinazioni chimiche con un odore acre e con vapori solforosi, che pigliarono alla gola l’ingegnere ed il compagno.
— Ecco quello che temeva il capitano Nemo, mormorò Cyrus Smith, la cui faccia impallidì leggermente. Pur bisogna andare fino alla fine.
— Andiamo! rispose Ayrton, e curvandosi sopra i suoi remi, spinse il canotto.
Venticinque minuti dopo aver passato l’ingresso, il canotto giungeva alla parete terminale e si arrestava. Cyrus Smith, salendo allora sopra la sua panca, diresse la luce alle varie parti della parete, che separavano la cripta dal condotto centrale del vulcano. Quanto era grossa quella parete? Cento piedi o dieci? Impossibile determinarlo.
Ma i rumori sotterranei erano così chiari, che non era possibile che la muraglia fosse molto grossa. L’ingegnere, dopo averla esplorata orizzontalmente, confisse il fanale sopra un remo e la esaminò di nuovo a maggior altezza.
Colà, a traverso fessure appena visibili, a traverso i prismi disuniti, traspirava un fumo acre, che infettava la caverna. Delle fessure solcavano la muraglia, ed alcune più visibili scendevano fino a due o tre piedi soltanto dalle acque della cripta.
Cyrus Smith stette ancora pensoso, poi mormorò qualche parola.
— Sì, il capitano aveva ragione, qui è il pericolo, il terribile pericolo!
Ayrton non disse nulla; ad un cenno di Cyrus Smith egli ripigliò i remi, e mezz’ora dopo l’ingegnere e lui uscivano dalla cripta Dakkar.