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franti, fra gli altri uno di quelli enormi che ombreggiavano il cortile all’estremità sud del lago.

Aveva la meteora un rapporto qualsiasi coi fenomeni che si compivano nelle viscere della terra? Vi era forse connessione fra i turbamenti dell’aria e quelli delle parti interne del globo?

Cyrus Smith fu indotto a crederlo, perchè lo svilupparsi di quegli uragani fu segnalato da una recrudescenza di sintomi vulcanici. Fu il 3 gennajo che Harbert, salito fin dall’alba sull’altipiano di Lunga Vista per insellare uno degli onaggas, vide un enorme pennacchio sulla cima del vulcano. Harbert prevenne subito i coloni, i quali corsero ad osservare la vetta del monte Franklin.

— Eh! esclamò Pencroff, non sono vapori stavolta! Mi pare che il gigante non si accontenti più di respirare... esso fuma.

L’immagine adoperata dal marinajo traduceva appuntino la modificazione avvenuta nella bocca del vulcano. Già da tre mesi il vulcano eruttava vapori più o meno intensi, ma che non provenivano se non da ebolizioni interne delle materie minerali.

Questa volta ai vapori succedeva un fumo denso, che si elevava in forma d’una colonna bigia, larga oltre 300 piedi alla base ed allargantesi a guisa di un enorme fungo, all’altezza di sette od ottocento piedi dalla vetta del monte.

— Il fuoco è nel camino, disse Gedeone Spilett.

— E non lo potremo spegnere! aggiunse Harbert.

— Si dovrebbero spazzare ogni tanto i vulcani! esclamò Nab, che sembrò parlare coll’accento più serio del mondo.

— Buono, Nab, esclamò Pencroff, e faresti tu da spazzacamino?

E così dicendo mandò uno scoppio di riso.

Cyrus Smith esaminava attentamente il denso fumo eruttato dal monte Franklin, e porgeva orecchio,