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vulcano, che dal greto del Palazzo di Granito non si poteva scorgere.

Ma una o due volte grandi ombre, velando il sole che descriveva il suo arco diurno in un cielo purissimo, indicarono che una densa nuvola di fumo passava fra il suo disco e l’isola. Il vento, soffiando dal largo, portava tutti quei vapori all’ovest.

Cyrus Smith e Gedeone Spilett notarono benissimo quel rabbujamento passeggiero, e cianciarono più volte dei progressi che faceva evidentemente il fenomeno vulcanico. Ma il lavoro non fu interrotto.

Era del resto importantissimo, per tutti i rispetti, che la nave fosse compiuta nel più breve termine possibile. Di fronte agli accidenti che potevano nascere, la sicurezza dei coloni sarebbe così meglio garantita. Chissà che quella nave non dovesse essere un giorno il loro unico rifugio?!

La sera, dopo cena, Cyrus Smith, Gedeone Spilett ed Harbert risalirono sull’altipiano di Lunga Vista. Era già notte buja, e l’oscurità doveva permettere di riconoscere se ai vapori ed al fumo accumulato nella bocca del cratere, si mescessero fiamme o materie incandescenti eruttate dal vulcano.

— Il cratere è in fiamme! esclamò Harbert, il quale, più lesto dei compagni, era giunto primo all’altipiano.

Il monte Franklin, distante sei miglia circa, appariva allora come una torcia gigantesca, in cima alla quale si agitavano alcune fiamme fuligginose. Tanto fumo, tante scorie e tante ceneri forse vi erano commiste, che il loro bagliore, molto attenuato, non si staccava più vivamente dalle tenebre della notte. Ma una specie di luce fulva si spandeva sull’isola e mostrava confusamente le boscaglie dei primi piani. Immensi turbini oscuravano le alture del cielo, attraverso le quali scintillavano alcune stelle.

— I progressi sono rapidi, disse l’ingegnere.