L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo XV
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CAPITOLO XV.
Vol. VI, pag. 27.
Ma i fuochi sotterranei dovevano essi cagionare qualche eruzione violenta?
Ecco una cosa che non si poteva prevenire. Pure, anche ammettendo l’ipotesi d’un’eruzione, era probabile che l’isola Lincoln non avesse a soffrire nel suo insieme, giacchè gli scoli delle materie vulcaniche non sempre sono disastrosi.
Già l’isola era stata posta a questa prova, come attestavano gli scoli di lave che erano nelle coste settentrionali della montagna. Inoltre la forma del cratere e la galleria aperta sul suo vertice dovevano spingere le materie eruttate alla parte non fertile dell’isola. Pure il passato non impegnava necessariamente l’avvenire.
Spesso sulla vetta dei vulcani, antichi crateri si chiudono e se ne aprono di nuovi. Il fatto avvenne nei due mondi, nell’Etna, nel Popocatepelt, nell’Orizaba, e alla vigilia d’un’eruzione si può temere ogni cosa. Bastava un terremoto, fenomeno che accompagna talvolta le effusioni vulcaniche, perchè le disposizioni interne della montagna fossero modificate e nuove vie s’aprissero alle lave incandescenti.
Cyrus Smith spiegò tali cose ai compagni, e, senza esagerare la situazione, ne fece loro conoscere il pro e il contro.
Infine non ci si poteva nulla. Il Palazzo di Granito, tranne per un terremoto che commovesse il suolo, non pareva dover essere minacciato. Ma per il ricinto avevasi tutto da temere se qualche nuovo cratere si aprisse nelle pareti sud del monte Franklin.
Da quel giorno i vapori non cessarono di librarsi sulla vetta della montagna, e si potè anzi riconoscere che crescevano d’altezza e di densità, senza che alcuna fiamma si mescesse alle loro dense volute.
Il fenomeno si concentrava ancora nella parte inferiore del cratere del vulcano.
Peraltro, col bel tempo furono ripresi i lavori. Si spingeva il più possibile la costruzione della nave, e per mezzo della cascata del greto, Cyrus Smith riuscì a rizzare una sega idraulica che spartì più rapidamente i tronchi d’albero in tavole ed in travicelli.
Il meccanismo di quell’apparecchio fu semplice al pari di quelli della Norvegia. Un primo movimento orizzontale da imprimere al legno, un altro movimento verticale da dare alla sega, era tutto quanto si trattava di ottenere; e l’ingegnere vi riuscì con una ruota, con due cilindri e due puleggie disposte convenientemente.
Verso la fine del mese di settembre lo scafo della nave, che doveva essere attrezzata da goletta, si drizzava sul cantiere da costruzione.
La membratura era quasi tutta terminata, e siccome le coste erano trattenute da un’armatura provvisoria, si poteva già vedere la forma del battello.
Quella goletta, sottile a prua e svelta nelle forme di poppa, doveva essere evidentemente adatta ad una traversata lunga se fosse necessario, ma l’adattamento del fasciame, delle serrette interne e del ponte dovevano richieder ancora un gran tempo. Per buona sorte le ferramenta dell’antico brik si erano potute salvare dopo l’esplosione sottomarina.
Dai fasciami e dai bracciuoli mutilati, Pencroff ed Harbert avevano strappato i perni e gran numero di chiodi di rame. Era un’economia per il fabbro, ma i carpentieri ebbero molto da fare.
I lavori di costruzione dovettero essere interrotti una settimana per quelli delle messi, della falciatura del fieno e dei varî raccolti che abbondavano nell’altipiano di Lunga Vista.
Compiute queste bisogne, tutti gl’istanti furono quind’innanzi consacrati al compimento della goletta.
Quando giungeva la notte i lavoratori erano proprio estenuati. Per non perdere tempo avevano mutato l’ora dei pasti. Desinavano al mezzodì e non cenavano se non quando la luce veniva loro a mancare. Risalivano allora al Palazzo di Granito e non tardavano a coricarsi.
Talvolta, peraltro, la conversazione, se volgeva sopra qualche argomento interessante, ritardava alcun poco l’ora del sonno.
I coloni si lasciavano andare a parlare dell’avvenire: discorrevano volentieri dei mutamenti che porterebbe nella loro condizione un viaggio della goletta alle terre più vicine. Ma in mezzo a quei disegni dominava sempre il pensiero d’un ritorno ulteriore all’isola Lincoln. Essi facevano conto di non abbandonare mai quella colonia fondata con tanti stenti e così bene riuscita, ed alla quale le comunicazioni coll’America darebbero nuovo sviluppo.
Pencroff e Nab, sopratutto, speravano di finirvi i loro giorni.
– Harbert, diceva il marinajo, non abbandonerai tu mai l’isola Lincoln?
– Mai, specialmente se tu decidi di rimanere.
– È bello e deciso, rispondeva Pencroff, vi aspetterò. Voi mi condurrete vostra moglie ed i vostri figliuoli, ed io di quei piccini ne farò certi arnesi!...
– Siamo d’accordo, replicò Harbert ridendo e facendosi rosso.
– Voi, signor Cyrus, soggiunse Pencroff acceso d’entusiasmo, voi sarete sempre il governatore dell’isola! Vediamo, quanti abitanti potrà nutrire? Diecimila almeno.
Si parlava a questo modo, si lasciava andare Pencroff a infinite speranze, e di colloquio in colloquio il reporter finiva col fondare un giornale, e intitolarlo il New Lincoln Herald.
Così avviene del cuore dell’uomo; il bisogno di fare un lavoro che duri, che gli sopravviva, è l’indizio della sua superiorità su quanto vive quaggiù. Gli è ciò appunto che fondò la sua dominazione, ed è ciò che la giustifica nel mondo intero. Del resto, chissà se Jup e Top non avessero anch’essi il loro piccolo sogno d’avvenire?
Ayrton silenzioso pensava che avrebbe voluto rivedere lord Glenarvan e mostrarsi a tutti riabilitato.
Una sera, il 15 ottobre, la conversazione, spinta attraverso queste ipotesi, si era prolungata più del consueto. Erano le otto pomeridiane. Già luoghi sbadigli mal dissimulati suonavano l’ora del riposo, e Pencroff dirigevasi verso il suo letto, quando il campanello elettrico posto nella sala risuonò ad un tratto.
C’erano tutti: Cyrus Smith, Gedeone Spilett, Harbert, Ayrton, Pencroff, Nab; nessuno dunque dei coloni era al ricinto.
Cyrus Smith si era levato in piedi. I suoi compagni si guardavano in volto credendo di aver inteso male.
– Che significa ciò? esclamò Nab; è il diavolo che suona?
Nessuna risposta.
– Il tempo è burrascoso, notò Harbert; forse l’influenza dell’elettricità...
Non finì la frase. L’ingegnere, verso il quale tutti gli sguardi erano rivolti, accennava di no col capo.
– Aspettiamo, disse allora Gedeone Spilett; se è un segnale, chiunque sia che lo faccia, lo ripeterà.
— Ma chi volete che sia? esclamò Nab.
– Ma, rispose Pencroff, colui che...
La frase del marinajo fu rotta da un nuovo tintinnio del campanello.
Cyrus Smith si diresse verso l’apparecchio, e spingendo la corrente attraverso il filo, mando questa domanda al ricinto:
“Che volete?”
Alcuni istanti dopo l’ago movendosi sul quadrante alfabetico, diede questa risposta agli ospiti del Palazzo di Granito:
“Venite subito al ricinto.”
– Finalmente! esclamò Cyrus Smith.
Sì! finalmente! il mistero stava per svelarsi. In faccia a quest’immenso interesse che li spingeva ora al ricinto, ogni stanchezza dei coloni era scomparsa, cessato ogni bisogno di riposo. Senza aver proferito parola, in pochi istanti essi avevano lasciato il Palazzo di Granito e si trovavano sul greto. Soli Jup e Top erano rimasti, potendosi far di meno di essi.
La notte era nera. La luna, nuova in quel giorno, era scomparsa insieme col sole. Come aveva fatto osservare Harbert, grosse nuvole d’uragano formavano una vôlta bassa e greve che nascondeva ogni scintillio di stelle. Alcuni lampi di calore, riflessi di una burrasca lontana, illuminavano l’orizzonte. Era possibile che alcune ore più tardi la folgore scoppiasse sull’isola medesima. Era una notte minacciosa.
Ma l’oscurità, per quanto fosse profonda, non poteva arrestare persone avvezze a quella via del ricinto. Risalirono essi la riva manca della Grazia, giunsero all’altipiano, passarono il ponte del rivo Glicerina e s’avanzarono attraverso la foresta.
Camminavano di buon passo, in preda ad una vivissima commozione. Per essi non era dubbio che andassero finalmente ad apprendere la tanto ricercata parola dell’enimma, il nome di quell’essere misterioso così profondamente penetrato nella loro vita, così generoso nella sua influenza, così potente nella sua azione. E infatti non doveva forse quell’incognito conoscere ogni minimo particolare della loro esistenza e intendere tutto quanto si diceva al Palazzo di Granito, per aver sempre potuto agire al momento buono?
Ciascuno, immerso nelle sue riflessioni, affrettava il passo; sotto quella vôlta d’alberi, l’oscurità era tanta che il lembo della via non si vedeva nemmeno.
Del resto, nessun rumore nella foresta. Quadrupedi ed uccelli, cedendo alla gravezza dell’atmosfera, stavano immobili e silenziosi. Non un soffio agitava le foglie, solo il passo dei coloni risuonava nell’ombra sul terreno indurito.
Nel primo quarto d’ora di cammino il silenzio non fu interrotto se non da questa osservazione di Pencroff:
– Avremmo dovuto prendere un fanale.
E da questa risposta dell’ingegnere:
– Ne troveremo uno al ricinto.
Cyrus Smith ed i suoi compagni avevano lasciato il Palazzo di Granito alle 9 e 12 minuti; alle 9 e 47 avevano percorso una distanza di tre miglia che separavano la foce della Grazia dal ricinto.
In quel momento gran baleni biancheggianti si accendevano sopra l’isola e disegnavano in nero i contorni del fogliame. Questi baleni intensi abbagliavano ed acciecavano. Evidentemente l’uragano non poteva tardare a scatenarsi. I lampi divennero a poco a poco più frequenti e più luminosi, brontolii lontani rumoreggiavano nelle profondità del cielo. L’atmosfera era soffocante. I coloni andavano come se fossero stati spinti innanzi da qualche forza irresistibile.
Alle 10 e ¼ un vivo lampo mostrava loro la cinta di palizzate, e non anco ne avevano varcato la porta che il tuono scoppiava con violenza formidabile.
In un istante il ricinto fu attraversato, e Cyrus Smith si trovò in faccia all’abitazione.
Era possibile che la casa fosse occupata dall’incognito, poichè dalla casa medesima il telegramma aveva dovuto partire. Pure nessuna luce ne illuminava la finestra.
L’ingegnere picchiò all’uscio.
Nessuna risposta.
Cyrus Smith aprì la porta ed i coloni entrarono nella camera, che era profondamente oscura.
Nab battè l’acciarino, ed un istante dopo il fanale acceso illuminava tutti gli angoli della camera.
Non vi era nessuno. Ogni cosa era tal quale l’avevano lasciata.
– Siamo stati zimbelli d’un’illusione? mormorò Cyrus Smith,
– No! non è possibile; il telegrafo aveva pur detto:
“Venite subito al ricinto.”
Si avvicinarono alla tavola, che serviva specialmente al servizio del filo. Tutto era in ordine, la pila e la scatola che la conteneva, come anche l’apparecchio di ricevimento e di trasmissione.
– Chi è venuto qui per l’ultima volta? domandò l’ingegnere.
– Io, signor Smith, rispose Ayrton.
— Ed era...?
– Quattro giorni sono.
– Ah! uno scritto! esclamò Harbert mostrando una carta sulla tavola.
In quel foglio erano scritte queste parole in inglese: “seguite il nuovo filo.”
– In cammino! esclamò Cyrus Smith, il quale comprese che il dispaccio non era partito dal ricinto, ma bensì dal misterioso ricovero che un filo supplementare, sostituito all’antico, riuniva direttamente al Palazzo di Granito.
Nab prese il fanale acceso, e tutti lasciarono il ricinto.
L’uragano si scatenava allora con estrema violenza.
L’intervallo, che separava ogni lampo da ogni tuono, diminuiva sensibilmente, La meteora doveva dominare in breve il monte Franklin e l’isola intera. Al bagliore delle luci intermittenti si poteva scorgere la vetta del vulcano coperta di vapori.
Nella parte del ricinto, che separava la casa dalla cinta di palizzate, non vi era alcuna comunicazione telegrafica. Ma come ebbe passata la porta, l’ingegnere, correndo al primo palo, vide alla luce d’un lampo che un nuovo filo ricadeva dall’isolatore fino a terra.
– Eccolo! disse.
Quel filo strisciava a terra, ma per tutta la sua lunghezza era intonacato di una sostanza isolante a guisa d’una gomena sottomarina, il che assicurava la libera trasmissione della corrente.
Dalla sua direzione sembrava cacciarsi attraverso i boschi ed i contrafforti meridionali della montagna, e correre verso l’ovest.
– Seguiamolo! disse Cyrus Smith.
Ed ora alla luce del fanale, ora ai bagliori della folgore, i coloni si slanciarono sulla via tracciata dal filo.
Il rumoreggiar del tuono era allora continuo e tanta la sua violenza, che non si sarebbe potuto intendere una parola. Del resto non si trattava di parlare, ma di andare innanzi.
Cyrus Smith ed i suoi compagni salirono prima su per il contrafforte che sorgeva fra la vallata del ricinto e quella del rivo della Cascata, che attraversarono nella parte più stretta. Il filo, ora teso sui rami bassi degli alberi, ora svolgentesi a terra, li guidava in modo sicuro.
L’ingegnere aveva supposto che quel filo si arrestasse in fondo alla valle e che quivi fosse il ricovero incognito.
Così non fu; bisognò risalire il contrafforte del sud-ovest e ridiscendere quel poggio arido che finiva nella muraglia di basalti stranamente ammonticchiati.
Ogni tanto l’uno o l’altro dei coloni si curvavano, toccavano colla mano il filo e correggevano la direzione, se era necessario. Ma non era più dubbio che quel filo corresse direttamente al mare.
Colà senza fallo, in qualche cavo di roccie ignee, era l’abitazione invano cercata fino allora.
Il cielo era infuocato. Un baleno non aspettava l’altro. Molti fulmini percuotevano la vetta del vulcano e si precipitavano nel cratere in mezzo al denso fumo. Si avrebbe potuto credere che il monte lanciasse fiamme.
Alle undici meno qualche minuto i coloni erano giunti sul lembo superiore che dominava l’oceano dell’ovest. Si era levato il vento. La risacca muggiva a cinquecento piedi più sotto.
Cyrus Smith calcolò che i suoi compagni ed egli avessero percorso un buon miglio e mezzo dal ricinto.
A questo punto il filo si cacciava fra le roccie seguendo il rapido pendio d’un burrone stretto e tracciato capricciosamente.
I coloni si misero per quel sentiero, a rischio di cagionare qualche franamento di macigni mal equilibrati e di essere precipitati in mare. La discesa era estremamente perigliosa; ma essi non badavano al pericolo, non erano più padroni di sè medesimi, una irresistibile attrazione li attirava verso quel punto misterioso come la calamita attira il ferro.
Epperò discesero quasi inconsciamente in quel burrone, che anche in piena luce sarebbe stato, per così dire, impraticabile. Le pietre rotolavano e splendevano come bolidi infiammati quando attraversavano le zone di luce. Cyrus Smith andava innanzi a tutti; Ayrton veniva ultimo.
Ora essi andavano passo passo, ora invece scivolavano sulla rupe liscia, poi si risollevavano e continuavano la loro via.
Finalmente il filo, piegando bruscamente, toccò le rupi del litorale, vero viluppo di scogli che le grandi maree dovevano percuotere. I coloni erano giunti al limitare inferiore della muraglia basaltica.
Colà si svolgeva una stretta spalla, che correva parallelamente al mare. Il filo la seguiva, ed i coloni seguirono il filo. Non avevano fatto cento passi, che la spalla, inchinandosi con lieve pendio, giunse fino al livello medesimo delle onde.
L’ingegnere afferrò il filo e vide che si cacciava in mare.
I compagni, ritti accanto a lui, erano stupefatti; sfuggì loro un grido di dispetto, quasi di disperazione. Bisognava adunque precipitarsi sotto quelle acque e cercare qualche caverna sottomarina. Tanto erano accesi, che non avrebbero esitato a farlo, ma una riflessione dell’ingegnere li arrestò.
Cyrus Smith condusse i compagni sotto un vano della roccia, e colà disse:
– Aspettiamo! La marea è alta; a marea bassa la via sarà aperta.
– Ma che mai vi può far credere....? domandò Pencroff.
– Non ci avrebbe chiamati, se dovessero mancare i mezzi di arrivare fino a lui.
Cyrus Smith aveva parlato con accento di tanta convinzione, che nessuno ribattè parola.
Logica era del resto la sua osservazione. Bisognava ammettere che un’apertura, praticabile a marea bassa, si aprisse a’ piedi della muraglia e che ora le onde la chiudessero.
Bisognava aspettare alcune ore. I coloni rimasero adunque rannicchiati sotto una specie di portico profondo scavato nella roccia.
La pioggia cominciava allora a cadere, e fu in torrenti che poco dopo si sciolsero le nuvole lacerate dalla folgore. Gli echi ripercotevano i rumori del tuono dandogli una grandiosa sonorità.
La commozione dei coloni era estrema. Mille pensieri strani, soprannaturali, traversavano il loro cervello ed evocavano qualche apparizione grande, sovrumana, che solo avrebbe potuto corrispondere all’idea che essi facevano del genio dell’isola.
Alla mezzanotte, Cyrus Smith portando seco il fanale, scese fino al livello del greto per osservare la disposizione delle roccie. Vi erano già due ore di marea bassa.
L’ingegnere non si era ingannato. Già cominciava a disegnarsi sopra le acque la curvatura d’un vasto cavo. Colà il filo, facendo un gomito ad angolo retto, penetrava nella gola aperta.
Cyrus Smith tornò presso ai compagni e disse loro semplicemente:
– Fra un’ora l’apertura sarà praticabile.
– Esiste dunque? domandò Pencroff.
– E ne avete dubitato? disse Cyrus Smith.
– Ma quella caverna sarà riempita d’acqua fino ad una certa altezza! fece osservare Harbert.
– O la caverna è asciutta interamente, disse Cyrus Smith, e la percorreremo a piedi, o non è asciutta, e ci sarà dato un mezzo qualsiasi di trasporto.
Passata un’ora, tutti scesero sotto la pioggia fino al livello delle acque. In tre ore la marea erasi abbassata di quindici piedi e il sommo dell’arco tracciato dalla curvatura ne dominava il livello d’otto piedi almeno. Era come l’arco d’un ponte, sotto il quale passavano le acque miste a schiuma.
Nella curvatura l’ingegnere vide un oggetto nero, che galleggiava alla superficie del mare, e lo trasse a sè.
Era un canotto ormeggiato con una corda a qualche sporgenza interna della parete.
Questo canotto era fatto di ferro inchiavardato.
Sotto le panche erano due remi.
– Imbarchiamoci, disse Cyrus Smith.
Un istante dopo i coloni erano nel canotto. Nab ed Ayrton avevano dato mano ai remi e Pencroff aveva preso il timone. Cyrus Smith, col fanale in mano, rischiarava la via.
La vôlta bassissima, sotto la quale il canotto passò sulle prime, si rilevo bruscamente, ma troppo era profonda l’oscurità, e la luce del fanale troppo debole, perchè si potesse riconoscere l’estensione di quella caverna, la sua larghezza, la sua altezza e la sua profondità.
In mezzo a quelle substruzioni basaltiche era un silenzio solenne. Non vi penetrava nessun rumore dal di fuori, e gli scoppi della folgore non potevano trapassarne le grosse pareti.
Esistono in alcune parti del globo di tali caverne immense, specie di cripte naturali che datano dalle età geologiche del globo. Le une sono invase dalle acque marine, altre contengono laghi interi nei loro fianchi. Tali la grotta di Fingal nell’isola di Staffa, una delle Ebridi; tali le grotte di Morgal, sulla baja di Douarnenez in Bretagna, quelle di Bonifacio in Corsica, quelle di Lise Fjord in Norvegia; tale la immensa caverna del Mammout nel Kentuky alta 500 piedi e lunga più di 20,000! In molti punti del globo la natura ha scavato codeste cripte e le ha conservate all’ammirazione dell’uomo.
Quanto alla caverna, che i coloni esploravano allora, si estendeva essa fino al centro dell’isola?
Da un quarto d’ora il canotto si avanzava facendo delle giravolte che l’ingegnere indicava a Pencroff con voce breve, quando a un certo momento comandò:
– Più a dritta!
La barca mutò direzione e venne subito a rasentare la parte destra.
L’ingegnere voleva, a ragione, accertarsi se il filo corresse sempre lungo quella parete.
Il filo era là, aggrappato alle sporgenze della rupe.
– Avanti! disse Cyrus Smith.
E i due remi, tuffandosi nelle acque nere, spinsero rapidamente il battello.
Navigarono un altro quarto d’ora, e dalla imboccatura della caverna dovevano avere percorsa la distanza d’un mezzo miglio, quando la voce di Cyrus Smith si fece udire di nuovo:
– Fermatevi!
Il canotto s’arrestò, ed i coloni videro una viva luce che illuminava l’enorme cripta così profondamente scavata nelle viscere dell’isola.
Fu allora possibile esaminare la caverna, di cui nulla aveva potuto far sospettare l’esistenza.
Ad un’altezza di cento piedi s’incurvava una vôlta, sorretta da pilastri di basalto, che sembravano essere stati gettati in una stessa forma.
Volute irregolari e nervature capricciose s’appoggiavano su queste colonne che la natura aveva rizzate nelle prime epoche della formazione del globo.
I massi basaltici, incassati l’uno nell’altro, misuravano da quaranta a cinquanta piedi d’altezza, e l’acqua tranquilla, malgrado le agitazioni esterne, veniva a bagnarne la base.
Il vivo bagliore di quella luce segnalata dall’ingegnere, gettando punte di fuoco sopra ogni cresta prismatica, penetrava, per così dire, le pareti, come se fossero state diafane, e mutava in gemme greggie e scintillanti ogni sporgenza della substruzione.
Per un fenomeno di riflessione, l’acqua riproduceva i varî bagliori alla superficie, in guisa che il canotto sembrava librarsi fra due zone scintillanti.
Non era luogo a dubbio sulla natura della luce gettata dal centro luminoso, i cui raggi netti e rettilinei si frangevano a tutti gli angoli, a tutte le nervature della cripta; era luce proveniente dall’elettricità, e il colore bianchiccio ne svelava l’origine. Quella era il sole della caverna e la invadeva tutta.
Ad un cenno di Cyrus Smith i remi ricaddero facendo spruzzare una vera pioggia di scintille, e il canotto si diresse verso il focolare luminoso da cui non distò in breve che mezza gomena.
In quel luogo la larghezza della zona d’acqua misurava circa 350 piedi, e si poteva scorgere, oltre il centro abbagliante, un enorme muro basaltico che chiudeva da quella parte ogni uscita. La caverna si era dunque allargata di molto; ed il mare vi formava un piccolo lago. Ma la vôlta, le pareti laterali, le muraglie, tutti quei prismi, tutti quei cilindri, tutti quei coni erano immersi nel fluido elettrico, così che lo splendore sembrava loro proprio e si avrebbe potuto dire di quei macigni faccettati, come dei dia manti di gran prezzo, che “sudavano la luce.”
Nel centro del lago un lungo oggetto fusiforme si librava alla superficie delle acque, silenzioso, immobile; il bagliore fuggiva dai suoi fianchi come da gole di forno che fossero state scaldate a bianco. Questo apparecchio, simile al corpo d’un enorme cetaceo, era lungo dugento cinquanta piedi circa e si elevava da dieci a dodici piedi sopra il livello del mare.
Il canotto vi si accostò lentamente.
Cyrus Smith, che stava a prua, si era levato in piedi e guardava in preda ad una violenta agita zione, poi ad un tratto afferrando il braccio del reporter:
– Ma è lui, non può essere che lui! esclamò; lui!...
E ricadde sulla panca, mormorando un nome che solo Gedeone Spilett intese.
Senza dubbio il reporter conosceva quel nome, perchè l’udirlo pronunziare fece in lui un effetto prodigioso. Egli rispose con voce sorda:
– Lui! un uomo fuori della legge!...
– Lui! disse Cyrus Smith.
Ad un ordine dell’ingegnere, il canotto si accostò al singolare apparecchio galleggiante, approdò all’anca sinistra, dalla quale sfuggiva un fascio di luce attraverso un grosso vetro.
Cyrus Smith ed i compagni salirono sulla piattaforma. Vi era un boccaporto aperto, e tutti si slanciarono giù per l’apertura.
A’ piedi della scala si disegnava una corsia interna, rischiarata elettricamente, ed in capo a quella corsia si apriva una porta, che Cyrus Smith spinse.
Una ricca sala, che fu attraversata a passo rapido dai coloni, metteva nella biblioteca, nella quale un soffitto luminoso versava un torrente di luce.
In fondo alla biblioteca era una larga porta, chiusa anch’essa. L’ingegnere l’aprì.
Un’ampia sala, specie di museo, in cui erano accumulate, con tutti i tesori della natura, le maraviglie dell’arte e dell’industria, apparve agli occhi dei coloni, i quali si dovettero credere trasportati per incantesimo nel mondo dei sogni.
Sdrajato sopra un ricco divano, videro essi un uomo, il quale non parve accorgersi della loro presenza.
Allora Cyrus Smith alzò la voce, e, con massimo stupore dei compagni, pronunziò queste parole:
– Capitano Nemo, ci avete chiamati; eccoci!