L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo XVI
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CAPITOLO XVI.
A queste parole l’uomo coricato si drizzò, e la sua faccia apparve in piena luce. Magnifica testa, fronte alta, sguardo fiero, bianca la barba, i capelli copiosi e gettati indietro.
Quell’uomo s’appoggiò colla mano alla spalliera del divano che aveva lasciato. Il suo sguardo era sereno. Si vedeva che una lenta malattia l’aveva consumato a poco a poco; ma la sua voce era forte ancora, quando disse in inglese con accento che dinotava una gran maraviglia:
– Io non ho nome, signore.
– Vi conosco, rispose Cyrus Smith.
Il capitano Nemo fissò uno sguardo ardente sull’ingegnere, come se avesse voluto annientarlo.
Poi ricadde sui guanciali del divano.
— Che importa? In fine dei conti, mormorò, io sto per morire.
Cyrus Smith si accostò al capitano Nemo e Gedeone Spilett gli prese la mano, che trovò ardente. Ayrton, Pencroff, Harbert e Nab, se ne stavano rispettosamente in disparte, in un canto di quella magnifica sala, il cui aere era saturo di effluvi elettrici.
Il capitano aveva subito ritirato la mano, e con un cenno pregò l’ingegnere ed il reporter di sedersi. Tutti lo guardavano con vera commozione. Egli era dunque là, colui che chiamavano il “genio dell’isola”, l’essere potente il cui intervento era stato in tante occasioni efficace quanto benefico, a cui dovevano sì larga parte di gratitudine.
Dinanzi agli occhi non avevano che un uomo, là dove Pencroff e Nab credevano di trovare quasi un Dio, e quell’uomo stava per morire.
Ma come accadeva mai che Cyrus Smith conoscesse il capitano Nemo? E perchè costui s’era rizzato così vivamente all’udire pronunziare quel nome che doveva credere ignorato da tutti?
Il capitano si era buttato di nuovo sul divano, ed appoggiando la testa al braccio guardava l’ingegnere che gli stava accanto.
— Voi sapete il nome che ho portato, signore? domandò egli.
— Lo so, rispose Cyrus Smith, come so il nome di questo maraviglioso apparecchio sottomarino.
— Il Nautilus, disse il capitano sorridendo lievemente.
— Il Nautilus.
— Ma sapete voi... sapete voi chi sono io?
— Lo so.
— Eppure sono trent’anni che non ho alcuna comunicazione col mondo abitato, trent’anni che vivo nelle profondità del mare, il solo luogo dove abbia trovato l’indipendenza. Chi dunque ha potuto tradire il mio segreto?
— Un uomo che non aveva preso mai alcun impegno verso di voi, capitano Nemo, e che perciò non può essere accusato di tradimento.
— Quel francese che il caso gettò sul mio bordo sedici anni sono!
— Per l’appunto.
— Quell’uomo ed i due suoi compagni non sono dunque periti nel maëlstrom, dove il Nautilus si era cacciato?
— Non sono periti, e fu pubblicata, col titolo di Ventimila leghe sotto ai Mari, la vostra storia.
— La mia storia di pochi mesi soltanto, rispose vivamente il capitano.
— È vero! soggiunse Cyrus Smith, ma alcuni mesi di questa vita strana hanno bastato a farvi conoscere.
— Come un gran colpevole, senza dubbio! disse il capitano Nemo lasciando balenare sulle labbra un sorriso altero. Sì, un ribelle messo forse al bando dell’umanità.
L’ingegnere non rispose.
— Ebbene, signore?
— Io non ho da giudicare il capitano Nemo, rispose Cyrus Smith, almeno in ciò che riguarda la sua vita passata. Ignoro al pari d’ogni altro quali siano stati i moventi della vostra strana esistenza; io non posso giudicare gli effetti, senza conoscere le cause; ma quello che so è, che mano benefica si è costantemente tenuta sopra di noi dacchè siamo giunti all’isola Lincoln; è che tutti noi dobbiamo la vita ad un essere buono, generoso e possente, e che questo essere possente, generoso e buono siete voi, capitano Nemo!
— Sono io, rispose semplicemente il capitano.
L’ingegnere ed il reporter si erano levati in piedi. I loro compagni si avvicinarono, e la gratitudine che traboccava dai loro cuori stava per manifestarsi cogli atti, colle parole. Il capitano Nemo li trattenne con un gesto, e con voce più commossa, senza dubbio, di quello che avesse voluto:
— Quando mi avrete inteso, disse 1.
Ed il capitano, in poche frasi chiare e frettolose, fece conoscere tutta la sua vita.
Breve fu la narrazione, eppure egli dovette concentrare in sè tutto quanto gli rimaneva d’energia per giungere alla fine. Era evidente ch’egli lottava contro un’estrema debolezza. Molte volte Cyrus Smith lo eccitava a riposare un poco, ma egli crollava il capo come uomo a cui non appartenga più il domani, e quando il reporter gli offrì le sue cure:
Sono inutili, rispose, le mie ore sono contate!
Il capitano Nemo era un Indiano, il principe Dakkar, figlio d’un rajah del territorio, allora indipendente, di Bundelkund, e nipote dell’eroe dell’India, Tippo Saïb. Il padre suo, fin dall’età di dieci anni lo mandò in Europa affinchè ricevesse un’educazione completa, e col segreto intento che potesse lottare un giorno ad armi uguali contro coloro che considerava come gli oppressori del suo paese.
Da dieci a trent’anni, il principe Dakkar, dotato di gran cuore e di grande intelligenza, si istruì in ogni cosa, e nelle scienze, nelle lettere e nelle arti spinse i suoi studî a grande altezza.
Il principe Dakkar viaggiò in tutta Europa. La sua nascita e la sua fortuna lo facevano ricercare, ma non lo attirarono mai le seduzioni del mondo. Giovane e bello, egli stette serio, tetro, arso dalla sete d’apprendere, con un odio implacabile nel cuore. Il principe Dakkar odiava, odiava il solo paese in cui non aveva mai voluto mettere il piede, la sola nazione di cui rifiutò costantemente le carezze: odiava l’Inghilterra. Gli è che quell’Indiano compendiava in sè tutto l’odio del vinto contro il vincitore.
L’invasore non aveva potuto trovar grazia presso l’invaso. Il figlio d’uno di quei sovrani, di cui il Regno Unito non ha potuto che assicurarsi nominalmente la servitù, codesto principe della famiglia di Tippo Saïb, allevato nelle idee di rivendicazione e di vendetta, innamorato del suo poetico paese gravato di catene inglesi, non volle mai porre il piede in quella terra maledetta a cui l’India doveva la servitù.
Il principe Dakkar divenne un artista cui le maraviglie dell’arte impressionavano nobilmente, uno scienziato al quale nulla era ignoto delle alte scienze, un uomo di Stato che si formò in mezzo alle Corti europee. Agli occhi di quanti lo osservavano male, egli passava forse per uno di quei cosmopoliti curiosi d’apprendere, ma sdegnosi d’agire; per uno di quei ricchi viaggiatori, spiriti sprezzanti e platonici che corrono di continuo pel mondo e non sono d’alcun paese.
Così non era: quell’artista, quello scienziato, quell’uomo era rimasto indiano nel cuore, indiano nel desiderio della vendetta, indiano nella speranza che nutriva di poter un giorno rivendicare i diritti del suo paese, cacciar lo straniero e ridonargli la sua indipendenza. Il principe Dakkar tornò al Bundelkund nell’anno 1849; sposò una nobile Indiana, il cui cuore sanguinava al pari del suo per la sciagura della patria: ne ebbe due figli che gli erano sommamente cari; ma la felicità domestica non poteva fargli scordare la servitù dell’India. Aspettava un’occasione, che si presentò.
Il giogo inglese s’era troppo aggravato sulle popolazioni indiane. Il principe Dakkar si fece l’eco della voce dei malcontenti, comunicò al loro spirito tutto l’odio ch’egli stesso provava contro lo straniero, e non solo percorse le regioni tuttavia indipendenti della penisola indiana, ma anche quelle direttamente soggette alla dominazione inglese.
Ricordo i gran giorni di Tippo Saïb, morto eroicamente a Seringapatam per la difesa della patria.
Nel 1857 scoppiò la gran rivoluzione di Cipayes. Il principe Dakkar ne fu l’anima, fu egli che promosse la sollevazione, fu egli che mise il suo ingegno, le sue ricchezze a servizio di quella causa, e si battè egli pure in prima fila e rischiò la vita come il più umile di quegli eroi che si erano sollevati per liberare il loro paese; fu ferito dieci volte in venti scontri e non aveva potuto trovarvi la morte, quando gli ultimi soldati dell’indipendenza caddero sotto le palle inglesi.
La potenza britannica nell’India non corse mai maggior pericolo, e se, come avevano sperato, i Cipayes avessero avuto soccorso dal di fuori, sarebbe stata finita nell’Asia la dominazione del Regno Unito.
Il nome del principe Dakkar fu allora illustre. L’eroe che lo portava non si nascose, e lottò apertamente; la sua testa fu posta a taglia, e se non s’incontrò un traditore che la vendesse, il padre, la madre, la sposa, i figli di lui pagarono in vece sua.... Ancora una volta il diritto era caduto dinanzi alla forza.
Ma la civiltà non dà mai indietro, e par ch’ella chiegga i diritti alla necessità. I Cipayes furono vinti ed il paese degli antichi rajahs ricadde sotto la dominazione più rigorosa dell’Inghilterra.
Il principe Dakkar, che non aveva potuto morire, tornò nelle montagne del Bundelkund. Là, oramai solo, vinto da un immenso disgusto contro tutto ciò che portasse il nome d’uomo, avendo in odio ed in orrore il mondo incivilito; volendo per sempre fuggirlo, radunò le reliquie delle sue ricchezze, raccolse una ventina dei compagni più fedeli, e un giorno scomparvero tutti. Dove mai dunque il principe Dakkar era andato a cercare quell’indipendenza che gli negava la terra abitata? Sotto le acque, nella profondità dei mari, dove nessuno potesse seguirlo. All’uomo di guerra si sostituì lo scienziato. Un’isola deserta del Pacifico gli servì a porre i cantieri, dove fu costrutto un battello sottomarino, secondo il disegno da lui dato. L’elettricità di cui, con mezzi che saranno noti un giorno, aveva saputo mettere a profitto l’enorme forza meccanica, e ch’egli attingeva a sorgenti inesauribili, servì al suo apparecchio galleggiante come forza motrice, illuminante e calorifica.
Il mare coi suoi tesori infiniti, colle sue miriadi di pesci, colle sue messi di alghe e di sargassi, coi mammiferi enormi, e non solo tutto ciò che la natura v’alimentava, ma anche tutto quello che gli uomini v’avevano perduto, bastò largamente ai bisogni del principe e del suo equipaggio, e fu il compimento del suo più vivo desiderio, poichè non voleva più avere alcuna comunicazione colla terra. Chiamò quel l’apparecchio sottomarino il Nautilus, sè stesso il capitano Nemo, e sparve sotto i mari.
Per molti anni il capitano Nemo visitò tutti i mari dall’uno all’altro polo.
Paria dell’universo abitato, raccolse in quei mondi sconosciuti tesori innumerevoli.
I milioni perduti nella baja di Vigo dai galeoni spagnuoli nel 1702 gli fornirono una miniera inesauribile, di cui dispose sempre, senza manifestarsi, a favore dei popoli che si battevano per l’indipendenza del loro paese 2.
Infine, da un pezzo egli non aveva avuto alcuna comunicazione coi suoi simili, quando nella notte del 6 novembre 1866, tre uomini furono gettati al suo bordo. Erano un professore francese, il suo servitore ed un pescatore del Canadà. Questi tre uomini erano stati precipitati in mare in un urto fra il Nautilus e la fregata degli Stati Uniti, l’Abraham-Lincoln, che gli dava la caccia.
Il capitano Nemo apprese dal professore come al Nautilus, creduto ora un mammifero gigantesco della famiglia dei cetacei, era un battello sottomarino contenente un equipaggio di pirati, si desse la caccia su tutti i mari.
Il capitano Nemo avrebbe potuto restituire all’oceano questi tre uomini che il caso gettava attraverso la sua esistenza misteriosa.
Non lo fece, li tenne prigionieri, e per sette mesi poterono essi contemplare tutte le maraviglie d’un viaggio che percorse 20,000 leghe sotto i mari.
Un giorno, il 22 giugno 1867, questi tre uomini, che nulla sapevano del capitano Nemo, riuscirono a fuggire, dopo d’essersi impadroniti del canotto del Nautilus. Ma siccome allora il Nautilus era trascinato sulle coste della Norvegia, nei turbini del maëlstrom, il capitano Nemo dovette credere che i fuggitivi, annegati nella spaventevole bufera, avessero trovato la morte in fondo all’abisso.
Ignorava dunque che il francese ed i suoi due compagni fossero stati maravigliosamente buttati a costa, accolti, che pescatori delle isole Loffoden li avessero raccolti, e che il professore, tornato in Francia, avesse raccontati e posti in balía del pubblico i sette mesi della strana ed avventurosa navigazione del Nautilus. Per un pezzo ancora il capitano Nemo continuò a vivere in tal modo traversando i mari, ma a poco a poco i suoi compagni morirono ed andarono a riposare nel loro cimitero di corallo in fondo al Pacifico.
Finalmente il capitano Nemo rimase solo di quanti si erano rifugiati con lui nelle profondità dell’oceano.
Il capitano aveva allora sessant’anni. Quando fu solo, riuscì a ricondurre il suo Nautilus verso uno dei porti sottomarini che gli serviva di punto di fermata. Uno di questi porti, scavato sotto l’isola Lincoln, era appunto quello che dava asilo in questo momento al Nautilus.
Da sei anni il capitano era là, non navigando più ed aspettando la morte, vale a dire l’istante in cui sarebbe riunito ai suoi compagni, quando il caso lo fece assistere alla caduta del pallone, che portava i prigionieri dei Sudisti. Rivestito del suo scafandro, passeggiava sotto le acque a poche gomene dalla spiaggia dell’isola, quando l’ingegnere fu gettato in mare. Sentì un impeto generoso: salvò Cyrus Smith.
Sulle prime voleva fuggire i cinque naufraghi, ma il suo porto di rifugio era chiuso in seguito ad un innalzamento del basalto avvenuto per influenza delle azioni vulcaniche, e non poteva più passare nell’entrata della cripta. Dove era ancora tant’acqua perchè un leggiero battello potesse passare la sbarra, più non ve n’era bastante per il Nautilus, il cui peso era relativamente grande.
Il capitano Nemo rimase adunque, poi osservò quegli uomini gettati senza mezzi in un’isola deserta, ma non volle essere veduto.
A poco a poco, vedendoli onesti, energici, congiunti da amicizia fraterna, s’interessò ai loro sforzi. Quasi suo malgrado, penetrò tutti i segreti della loro esistenza. Eragli facile, a mezzo dello scafandro, giungere fino in fondo al pozzo interno del Palazzo di Granito, e ajutandosi colle sporgenze della roccia arrivare fino all’orifizio superiore, dove udiva i coloni raccontare il passato, studiare il presente e l’avvenire. Apprese da essi l’immenso sforzo dell’America per abolire la schiavitù.
Sì, quegli uomini erano degni di riconciliare il capitano Nemo con quella umanità che avevano rappresentata tanto onestamente nell’isola!
Il capitano Nemo aveva salvato Cyrus Smith, e fu egli pure che condusse il cane ai Camini, che gettò Top fuori delle acque del lago, che fece trovar fuori della punta del Rottame quella cassa contenente tanti oggetti utili per i coloni, che rimandò il canotto nella corrente della Grazia, che gettò la fune dal Palazzo di Granito durante l’invasione delle scimmie, che fece conoscere la presenza di Ayrton all’isola Tabor con un documento chiuso nella bottiglia, che fece scoppiare il brik con una torpedine messa in fondo al canale, e salvò Harbert da morte certa recando il solfato di chinino; egli finalmente che colpì i deportati con quelle palle elettriche di cui aveva il segreto e che adoperava nelle sue caccie sottomarine.
Così si spiegavano tanti incidenti, che dovevano sembrar soprannaturali e che tutti attestavano la potenza e la generosità del capitano. Pure, quel gran misantropo aveva sete di bene. Gli rimanevano utili avvertimenti da dare ai suoi protetti, e, d’altra parte, sentendo battere il proprio cuore ridonato a sè stesso, all’accostarsi della morte, chiamò, come è noto, i coloni del Palazzo di Granito a mezzo d’un filo col quale aveva congiunto il ricinto al Nautilus, che era munito d’apparecchio alfabetico... forse non l’avrebbe fatto se avesse saputo che Cyrus Smith conosceva tanto la sua storia da salutarlo con quel nome di Nemo.
Il capitano aveva terminato il racconto della sua vita.
Cyrus Smith prese allora la parola, ricordando tutti gli incidenti che avevano esercitato sulla colonia una sì salutare influenza, ed in nome dei compagni ed in nome suo ringraziò l’essere generoso al quale doveva tanto.
Ma il capitano Nemo non pensò a reclamare il prezzo dei servigi che aveva reso. Un ultimo pensiero agitava il suo spirito, e prima di stringere la mano che gli presentava l’ingegnere:
— Ora, signori, ora, disse, che conoscete la mia vita, giudicate.
Così parlando, il capitano faceva evidentemente allusione al grave incidente di cui i tre stranieri gettati a bordo del suo Nautilus erano stati testimonî, incidente che necessariamente il professore francese aveva raccontato nella sua opera e che aveva avuto un’eco terribile.
Infatti alcuni giorni prima della fuga del professore e dei suoi due compagni, il Nautilus, inseguito da una fregata nell’Atlantico, si era precipitato come un’ariete sovr’essa e l’aveva colata a fondo senza misericordia.
Cyrus Smith comprese l’allusione, e non rispose.
— Era una fregata inglese! esclamò il capitano ridivenuto un istante il principe Dakkar, una fregata inglese, capite? e mi assaliva: ero chiuso in una baja stretta e poco profonda, mi bisognava passare e... sono passato!
Poi con voce più tranquilla:
— Io era nella giustizia e nel diritto, aggiunse; ho fatto dappertutto il bene che mi fu possibile, ed anche il male che dovevo fare. La giustizia non sta solo nel perdonare.
Seguirono alcuni istanti di silenzio, ed il capitano Nemo pronunziò di nuovo questa frase:
— Che pensate voi di me, signore?
Cyrus Smith porse la mano al capitano, ed alla sua domanda rispose con accento grave:
— Capitano, il vostro torto è di aver creduto che si potesse risuscitare il passato; voi avete lottato contro il progresso necessario; fu uno di quegli errori che ammirano gli uni e biasimano gli altri, di cui Dio solo è giudice e che la ragione umana deve assolvere. Colui che s’inganna in una ragione, che crede buona, si può combatterlo, ma non si cessa di stimarlo. Il vostro errore è di quelli che non escludono l’ammirazione, e il vostro nome non ha nulla a temere dai giudizî della storia. Essa ama le eroiche follie, pur condannandone i risultati che ne derivano.
Il petto del capitano Nemo si sollevò e la sua mano si tese verso il cielo.
— Ho io avuto torto? Ho io avuto ragione? mormorò.
Cyrus Smith soggiunse:
— Tutte le grandi azioni risalgono a Dio, perchè vengono da lui. Capitano Nemo, le persone oneste che sono qui, esse che voi avete soccorso, vi piangeranno sempre.
Harbert si era accostato al capitano. Piego le ginocchia, gli prese la mano e la baciò.
Una lagrima spuntò dal ciglio del morente.
— Fanciullo mio, mormorò egli, che tu sia benedetto!
Note
- ↑ La storia del capitano Nemo fu infatti pubblicata col titolo di Ventimila leghe sotto ai Mari. Qui dunque ha luogo la medesima osservazione, che fu fatta in proposito delle avventure di Ayrton, sulla discordanza delle date. I lettori si riferiscano alla nota già pubblicata allora.
- ↑ Si allude alla rivoluzione dei Candioti, che il capitano Nemo ajutò infatti in tal guisa.