Fra l'atra notte e 'l luminoso giorno

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Marcello Giovanetti

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Colà dove con flebile singulto
Questo testo fa parte della raccolta Poesie di Marcello Giovanetti
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XII

L’INONDAZIONE DEL TRONTO

A monsignor Vitello

     Fra l’atra notte e ’l luminoso giorno
egualmente diviso era l’impero,
e spandea tanto l’ombra il manto nero
quanto splendea di raggi il sole intorno;
     onde, se l’alba ai soliti lavori
destava l’uom su l’aure matutine,
il dolce sonno, con egual confine,
sopiva i sensi e raddolciva i cori;
     con grati nodi agli olmi lor mariti
dolcemente stendean le braccia amiche
e discoprian per le colline apriche
lieti tesor le pampinose viti;
     quando s’udio sul nubiloso velo,
presagio d’oscurissima tempesta,
mormorando con voce orrida infesta,
tuono bombar fra mille lampi in cielo;
     s’udîro urtarsi in fera giostra i venti,
spinti da profondissime caverne;
fûr visti a gara poi da le superne
magioni in giú precipitar torrenti.
     Mai non s’udí del ciel per le campagne,
cotanto imperversando, austro nimboso
scuotere il dorso a l’Apennin selvoso,
fracassar nubi e tempestar montagne.
     Ma crescendo maggior l’impeto a l’onde,
e qual rauco fragor d’acque sonanti,
parea che l’etra a tanti flutti e tanti
picciole avesse e troppo anguste sponde.

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     Da disusata vïolenza spinto,
correva il flutto ad inondar la valle;
era lago la piazza e fiume il calle
e la cittade ondoso labirinto.
     Il troppo fosco orror rendea cotanto
confuso il ciel, che per tre spazi integri
il Sol rotar non volle i lampi allegri,
né la notte spiegar gemmato il manto.
     Da cento e cento lubrichi vassalli
ebbe tributo volontario il Tronto,
che, fatto ingiusto rege, audace e pronto
corse a tiranneggiar l’amiche valli.
     Se pria devoto a la cittá di Pico
il piè baciò de le famose mura,
ora senza ritegno ei s’assicura
moverle aspra tenzon, fero nemico;
     e disdegnando omai degli alti ponti,
novello Arasse, l’odïosa soma,
scuote con atto altier l’umida chioma
e guerra indice con spumosi monti.
     E qual vittorïoso capitano
per batter mura di superba ròcca
opra ferrate travi e sempre scocca
piú forti colpi con robusta mano,
     cotal ruina orribile minaccia,
ed avventando ai ponti elci ed abeti,
fa tremar, fa crollar l’alte pareti
il fiume altier con spaventosa faccia.
     Ma raddoppiando le divelte piante
ognora formidabili percosse,
forza è che ’l ponte al fine a tante scosse
cada e l’inghiotta pur l’onda tonante;
     l’onda, ch’omai la chioma piú frondosa
copre de’ pioppi, e, dove fece il nido
semplicetto augellin, del fiume infido
allora ivi natò plebe squammosa;

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     l’onda che sozza, fra gli acuti dumi
e fra le tane di spinosi sterpi,
suffoca ancor le velenose serpi
strette ed avvolte in lubrichi volumi;
     l’onda che seco raggirando balza
rotte schegge, alti scogli, alpestre rupi,
e ne’ vortici suoi rapidi e cupi
ora assorbe gran tronchi, ora gl’inalza.
     Stillava pria con limpidi zampilli
entro nera spelunca a goccia a goccia
l’onda gelata da scabrosa roccia,
secreta stanza di Piloro e Filli;
     ed ora in questa, fatta orrida grotta,
formando tal rumor ch’il mondo assorda,
diluvia l’acqua impetuosa e lorda,
e un fiume intero v’entra e vi s’ingrotta.
     Scopre l’intima selce e ’l tufo scabro,
impoverito omai di poca terra,
il colle, e ’l monte e se medesmo atterra,
fatto del danno suo mal cauto fabro;
     poscia che, riversando a nembo a nembo
prodigamente Giuno le procelle,
egli lieto le accoglie e ’nsieme a quelle
offre ampiamente l’arido suo grembo.
     Per intenso dolor con occhi asciutti
il povero cultor vide che ’l crudo
fiume rapigli, di pietate ignudo,
del dolce Bacco i sospirati frutti.
     Le guance lacerò, squarciossi i crini
il timido pastor, che ’l caro armento
vide preda de l’onde, e ’n fero accento
piú volte bestemmiò gli empi destini.
     Ove trasse talor notte serena
il villanel, sott’umile capanna,
co ’l suol di lievi ariste e ’l ciel di canna,
è fatto lido d’infeconda arena.

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     Udii talor sopra frondoso legno
balenando cadere a me vicino
folgore orrendo, e nel percosso pino
restar del suo fragor perpetuo il segno;
     tonar superba mole al Tebro in riva
udii talor d’orribile rimbombo,
ed alternando ancorché lieto il bombo,
il mio volto per téma impallidiva;
     e quand’anco da l’antro austro sen fugge
e ’l sonoro ocean mesce e conturba,
celasi per terror l’ondosa turba,
ove men rauco il mar mormora e mugge.
     Ma son sembianze omai troppo ineguali
folgore, irato mar, fulmin terreno,
a l’impeto del Tronto irato e pieno,
che s’erge su, dove fu ’l varco a l’ali.
     Impetuosamente orride belve
vedresti per le liquide pianure
seco trar l’onda, e fra quell’onde oscure
rotar case e natar l’intere selve.
     Mal cauto peregrin, che vide l’onda
scorrer sí gonfia per gli aperti campi,
esser pensò lá dove il sole i lampi
vibra accesi e l’Egitto il Nil feconda.
     Le driadi, le napee e l’altre ninfe,
ch’abitan l’onde ed oprano le frecce
o veston le selvatiche cortecce,
tutte stupîr de le cangiate linfe.
     Stupir che ’l Tronto, ch’aggirar solea
lubrico il piè per limpida pendice,
e che scopriva altrui ciò che felice
nel piú secreto fondo ei nascondea,
     e che piú volte a lor fido consiglio
somministrò co’ liquidi zaffiri,
e come s’orni il crin, l’occhio si giri,
e come rida, in su la rosa, il giglio;

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     ora, fatto d’orror scena funèbre
e bara de’ cadaveri insepolti
di pallor sparsi, in negro fango involti,
fa stillar di pietá mille palpèbre.
     Fu chi pensò che ’l secolo di Pirra
giá ritornasse al mondo; ond’altri il voto
preparava a Nettuno, altri devoto
offriva al divo Giove incenso e mirra.
     Oh quante volte il tridentato dio
rivolto ad Ino, ad Anfitrite, a Glauco:
— Chi è — disse — costui sí altero e rauco,
ch’esser mostra ribelle al regno mio?
     Mirate lá come per larga foce
sgorgando in mar, qual tortuosa biscia,
serba fra l’onde mie ben lunga striscia,
e non l’arresta lo mio guardo atroce. —
     Allora anch’egli i suoi spumosi regni
scosse col gran tridente, e ’n un s’udîro
tonando i flutti in un profondo giro
ravvoltati assorbir volanti legni.
     Cosí cavallo indomito, che ’l morso
rallentato si senta, urta e si scuote,
pesta il suol, sfida l’aure e ’n varie ruote
girando squassa orribilmente il dorso.
     Ma, poi che in volto formidabil scerse
il mar d’Adria turbato in carro assiso,
a le guerre del ciel, de l’onda fiso
e muto spettator, gli occhi converse.
     Cosí dicea con piú sonori carmi,
posta da canto l’umile sua cetra,
Aldin, che di dolcezza i marmi spetra,
Aldin, che canterá guerrieri ed armi.