L'eroina di Port Arthur/5. Viva la guerra!

5. Viva la guerra!

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5. VIVA LA GUERRA!


I giapponesi, a differenza di tutti gli altri popoli, non hanno mai ricorso né a tribunali, né alle armi per vendicare le offese che vengono a loro fatte. Disprezzanti all'eccesso della loro vita, hanno trovato un mezzo crudele e spiccio per vendicarsi di colui che ha macchiato l'onore della loro casa o che in qualche modo non ha reso a loro giustizia: prendono ben salda nelle mani la loro katana o la doisciò e si spaccano il ventre.

Muoiono, è vero, ma in tal modo costringono il loro offensore a dare per lui un addio per sempre alla vita, poiché, a menoché di non essere il più vile essere della terra e attirarsi addosso il disprezzo di tutti i suoi concittadini, non indugia ad imitarlo.

Appena avuta notizia della morte dell'uomo offeso, afferra a sua volta una o l'altra delle due armi e si spacca il ventre. Morto l'offeso e anche l'offensore, tutto è finito e le questioni finiscono, si capisce, lì.

Il gran daimio, per non perdere la grande stima che godeva fra i suoi concittadini, che un tempo erano stati suoi vassalli, era ricorso a quel mezzo spiccio ed atroce, colla speranza che anche il barbaro dell'Occidente si sarebbe conformato agli usi del paese.

La macchia fatta alla sua casa era così pienamente lavata e Shima, interamente vendicata, poteva aspirare alla mano di qualsiasi daimio dell'Impero del Sol Levante.

I due giovani, vedendo il padre in quello stato miserando, cogl'intestini fuori dell'orrenda ferita che sanguinava ancora, gli si erano precipitati sopra senza mandare né un grido né un lamento, essendo i giapponesi muti nei loro dolori. Baciata la pallida fronte del fiero daimio che era bagnata da un sudore freddo e constatatane la morte, si erano lasciati cadere ai lati del letto piangendo silenziosamente, mentre tutta la servitù accendeva delle lanterne davanti ai carni, le divinità dei sintoisti, collocati ai quattro angoli della stanza.

Tutta la notte Shima e Sakya rimasero così, presso il letto, frenando i singhiozzi, poi, appena i primi albori rischiararono l'orizzonte, si alzarono tenendosi per mano.

Entrambi erano pallidi, disfatti, e nessun lamento usciva dalle loro labbra. Nella loro qualità di figli di un daimio erano obbligati a mostrarsi calmi dinanzi alla servitù che non aveva abbandonato la stanza.

— Che questa sera tutto sia pronto per la sepoltura del gran daimio di Yokohama — disse Sakya affettando la massima calma. — Ed ora, andiamo a portare la notizia a colui che ha causato la morte a mio padre. Mi si porti il vestito bianco da lutto e si pari pure a lutto la mia norimon.

L'intendente della casa recò tosto una lunga cappa di seta bianca ed una ricchissima casacca a larghe maniche, con un drago nel mezzo ricamato in oro sormontato da tre piccoli soli che rappresentavano lo stemma del daimio e due daisciò con guaine d'oro, usando i nobili giapponesi averne appunto due invece di una, per distinguersi dagli altri.

Sakya indossò la lunga cappa che gli giungeva fino ai piedi, poi la casacca, si cinse i fianchi con una larga fascia e vi passò dentro le due spade, una a destra e l'altra a sinistra.

— Padre, — disse poscia una voce solenne, tendendo la destra verso il cadavere del daimio — vado ad assistere alla morte di colui che ti costrinse a spegnerti ed a vendicarti.

Poi uscì a passi lenti, senza guardare in viso nessuno, nemmeno Shima, che stava ritta accanto al cadavere, tutta assorta nel suo dolore. Dinanzi alla gradinata vi era già la norimon da lutto, tutta dipinta in bianco, colle tende di seta del medesimo colore, con otto portatori e sei samorai, pure vestiti tutti di bianco.

Sakya, sempre grave, salì nel palanchino dando al capo dei samorai un indirizzo, poi il drappello si mosse con passo cadenzato, passando fra due fitte ali di persone, essendosi ormai sparsa la voce del suicidio del vecchio daimio di Yokohama.

Dopo aver percorso buona parte delle kastoban, presso cui erano ancorate gran numero di giunche da pesca ed anche dei grossi piroscafi fumanti, il drappello imboccò la via di Ota-Matri, arrestandosi dinanzi ad una palazzina di stile europeo.

Nel medesimo momento che vi giungeva, un marinaio stava ammainando la bandiera russa che ondeggiava su un'altissima antenna, fra i fischi di una cinquantina di persone che si erano raccolte dinanzi all'abitazione, manifestando una violenta irritazione.

Vedendo fermarsi la norimon ed uscire Sakya vestito da gran daimio, quel gruppo di persone era diventato subito muto e ad un gesto del capo dei samorai si era affrettato a disperdersi. Sakya salì i tre gradini che conducevano alla porta e percosse violentemente, per tre volte, la lastra di metallo, annunciando così con quei colpi la visita di un grande personaggio. Un marinaio russo coll'insegna di torpediniere fu quello che gli aprì.

— Il tenente Boris — disse Sakya con tono asciutto.

Poi, vedendo che il marinaio rimaneva perplesso, aggiunse con tono gravido di minaccia:

— Apri o farò forzare la porta dai miei samorai e allora scatenerò anche il popolo. Ormai noi siamo vostri nemici e voi siete in casa nostra.

Il russo, comprendendo che una resistenza avrebbe potuto costare la vita anche al tenente e spaventato dalle katane dei samorai che erano state levate dalle guaine, aprì la porta a due battenti, lasciando il passo al figlio del daimio.

— Dov'è? — chiese Sakya.

Il marinaio gl'indicò una porta che s'apriva sul vestibolo, poi fece atto di muovergli dinanzi per avvertire il tenente; il giapponese con un gesto imperioso lo trattenne, mentre i samorai irrompevano pronti a mettere mano ai loro giganteschi rasoi.

— Che nessuno esca e che nessuno entri — disse Sakya volgendosi verso i suoi uomini.

Poi, afferrata la maniglia, spinse risolutamente la porta entrando in una spaziosa stanza ingombra di casse, di valigie e di pacchi voluminosi, con pochi mobili di stile europeo, già rovesciati al suolo.

Un giovane di ventisei o vent'otto anni, di alta statura, con capelli e barba biondi, la pelle bianchissima, leggermente rosea, vestito colla bassa divisa dei tenenti della marina russa, udendo la porta aprirsi si era vivamente voltato fissando sul figlio del daimio i suoi occhi di un azzurro profondo. Nel vedere il giapponese aveva mandato un grido e la sua destra si era allungata istintivamente verso uno sgabello intarsiato di madreperla, su cui stava una grossa rivoltella d'ordinanza.

Sakya gli si appressò a fronte alta, con passo grave, guardandolo quasi sdegnosamente, poi, tratta una delle due daisciò, gliela gettò ai piedi, dicendo a mezza voce:

— Mio padre, il gran daimio di Yokohama, si è squarciato il ventre: tocca a voi compiere il vostro dovere secondo gli usi del mio paese.

— Sakya — balbettò il tenente, che era diventato pallidissimo e che pareva smarrito. — Che cosa vuoi dire tu?

— Voi non avete alcun diritto a darmi del tu, signore: io non sono più vostro fratello d'armi, né vostro amico. Shima non si trova più fra noi ed io sono il figlio del gran daimio che viene a dirvi: mio padre si è ucciso; imitatelo, signore.

Boris fece un passo innanzi, dicendo:

— Io ho offeso gravemente la vostra famiglia, io ho commesso un'azione infame rifiutando all'ultimo momento la mano di vostra sorella ed una parentela così ragguardevole. Sono stato un miserabile, Sakya, perché così agendo ho causato la morte di vostro padre e secondo i vostri usi ho macchiato il vostro nome, tuttavia io non posso, specialmente in questo momento, seguire le vostre leggi, che non sono quelle del mio paese.

— Sicché rifiutate? — chiese Sakya con accento sdegnoso. — Voi europei avete così paura della morte?

— Non parlate così, Sakya, perché noi vi mostreremo fra breve come sanno morire gli uomini di razza bianca per la loro patria.

— Volete parlare della guerra? Quella non ha nulla a che fare coll'onore macchiato della mia casa. Io sono venuto a chiedervi il vostro sangue.

— Ascoltatemi, Sakya — disse Boris tergendosi il freddo sudore che gli bagnava la fronte. — Un giorno io ho amato intensamente vostra sorella, che non ho del tutto dimenticato e mi tenevo altamente onorato di far parte della famiglia di uno dei più grandi daimio dell'Impero, quando sorsero i primi malumori fra la vostra razza e la mia. Io ho avuto paura, perché prevedevo che in un tempo più o meno lontano sarebbe stato gettato il guanto fra il mio e il vostro paese. Che cosa sarebbe successo di me? Io, tenente della marina russa, genero di un daimio, nemico della mia patria, in quale terribile posizione mi sarei trovato? Avrei potuto io schierarmi contro i vostri oppure, condizione ancor più terribile, contro la mia patria? Avevo dinanzi a me un baratro che non potevo affrontare... ed ho preferito dimenticare la fanciulla che amavo, senza pensare che così facendo avrei gettato nel lutto la vostra famiglia. Ho lottato a lungo, credetelo, Sakya. Gli occhi di Shima mi avevano acceso nel cuore una fiamma intensa e forse sarei passato sopra tutto, anche sul disprezzo dei miei compatrioti, se la notizia della guerra imminente, giunta l'altra sera all'ambasciata, non mi avesse deciso alla rottura definitiva. Non incolpate me: incolpate il destino.

— E Naga la ghesha? — disse il giapponese con voce sibilante. — L'avete dimenticata, Boris?

— Quella fanciulla mi è stata necessaria per dimenticare l'amore di Shima — rispose il russo chinando il capo.

— Siete un miserabile! — gridò Sakya.

Boris a quell'offesa sanguinosa aveva alzata vivamente la testa, mentre un lampo terribile si sprigionava dalle sue pupille. Per la seconda volta la sua mano si stese verso la rivoltella, quando una frase di Sakya l'arrestò:

— Dopo il padre vorreste uccidere il figlio? — gli disse con voce ironica. — Ben poco guadagnereste: i miei samorai mi vendicherebbero sull'istante.

— Eppure bisogna che vi uccida dopo un simile insulto — rispose Boris con voce strozzata.

— Giacché vi manca il coraggio di squarciarvi il ventre colla daisciò che vi ho portata, non mi resta che uniformarmi ai vostri usi e sfidarvi ad un duello mortale.

— Sì, e subito. L'ambasciata sta abbassando le aquile imperiali e la bandiera, ed a mezzodì noi dobbiamo aver lasciato il suolo giapponese.

— Il parco dei Kuwa-no-ki sembra fatto appositamente per le persone che vogliono morire tranquillamente, e sarà là che io vendicherò mio padre squarciandovi il ventre colla daisciò che vi ho recata.

— Qualunque sia l'arma che scegliete, poco importa — rispose Boris, che pareva fuori di sé. — I russi non hanno paura dei giapponesi.

— Vi aspetto laggiù — disse Sakya con accento secco.

Raccolse la daisciò, se la rimise nella fascia e uscì senza degnare d'uno sguardo il suo avversario, che era diventato pallido come un cencio lavato, coll'aria tranquilla di un uomo che è completamente sicuro di se stesso.

— Andiamo — disse ai samorai. — Conducetemi nel parco dei Kuwanoki.

Risalì sulla norimon ed il drappello si rimise in cammino, ritornando verso la Kai-gen-dori, ossia via del mare.

Sakya aveva alzata una delle tende e guardava distrattamente verso la rada dove in quel momento ferveva un'animazione insolita.

Dei grossi vapori entravano vomitando torrenti di fumo rimorchiando delle immense chiatte piene di carbone e delle torpediniere, lunghe, sottili, percorrevano, veloci come rondini di mare, le acque radunandosi verso l'isola di Urus come si preparassero a prendere il largo.

Dalle kastoban di tratto in tratto provenivano dei clamori e si udivano squillare trombe e conche marine, poi un urlo improvviso, selvaggio, copriva quei clamori propagandosi fra gli equipaggi delle giunche.

— Viva la guerra! — urlavano migliaia di voci.

— Sì, viva la guerra! — disse Sakya con voce cupa. — Morte a quegli stranieri che m'hanno ucciso il padre e che forse hanno spento per sempre il cuore della mia povera Shima. La mia Morioka andrà a pezzi negli abissi del Mar Giallo, ma io andrò a torpedinarvi anche dentro i vostri porti e mille e mille morti, invece di una sola, vendicheranno mio padre.

Ad un tratto trasalì e rialzò vivamente la tenda che in quel momento era ricaduta.

Una grossa nave che portava sul picco dell'albero di mezzana la bandiera russa, s'accostava lentamente alla gettata fra le grida ostili degli equipaggi delle giunche giapponesi che ingombravano in quel luogo la rada. Di tratto in tratto sparava un colpo in bianco, ossia a sola polvere, mentre la sirena mandava dei fischi rauchi.

— L'Amur che chiama a bordo gli uomini che sono ancora a terra! — esclamò.

— I soldati russi lasciano il suolo giapponese... e Boris? Giungerà in tempo all'appuntamento? Non potrà partire che su quella nave. Tsin!

Il capo dei samorai si era accostato alla portiera.

— È l'Amur, quello, è vero?

— Sì, mio signore.

— Quello che deve ricondurre il console russo ed i suoi agenti a Port-Arthur?

— Così mi hanno detto.

— Non vi è nessuna altra nave russa in porto?

— È l'ultima quella, mio signore. Le altre hanno preso il largo ieri sera per paura di venire catturate entro il porto.

— Allora Boris non può avere il tempo di battersi con me.

— Ah! L'avete sfidato, signore, quel cane d'un barbaro?

— Fa' affrettare il passo ai portatori. Forse mi ha preceduto onde ripartire in tempo, se uscirà vivo dalle mie mani.

— Dovevate finirlo nella sua casa, signore — disse il capo dei samorai. — Noi eravamo pronti a farlo a pezzi.

— Lo ucciderò egualmente — disse Sakya, con accento risoluto. — Fa' affrettare il passo.

I portatori avvertiti si misero in corsa e non rallentarono se non quando si trovarono al principio del largo viale che tagliava in due il magnifico parco dei Kuwa-no-ki, così chiamato perché costituito esclusivamente da bellissimi e frondosi gelsi neri.

Sakya era subito sceso guardandosi intorno e non vide che il guardiano del cancello che fumava un granello d'oppio, seduto indolentemente su una stuoia.

— Non è entrato nessuno finora? — gli chiese.

— No, mio signore — rispose il guardiano alzandosi prontamente e facendo un profondo inchino dinanzi al giovane daimio.

— Non hai veduto un europeo?

— Non osano più mostrarsi qui da che corrono voci di guerra.

In quell'istesso momento udirono in fondo al viale il galoppo d'un cavallo e poco dopo videro apparire un servo giapponese che spronava furiosamente. Quando giunse dinanzi a Sakya, con un volteggio degno d'un clown, balzò a terra dicendo:

— Mi manda il tenente Boris, gran daimio.

— Che cosa vuole? — chiese Sakya aggrottando le sopracciglia.

— Mi ha incaricato di consegnare a te, signore, questo biglietto.

— E lui?

— Partito in questo momento col console e gli attachés.

Sakya aveva mandato un grido di furore.

— Il vile! Fugge!

Lacerò rabbiosamente la busta e gettò uno sguardo sul biglietto. Non conteneva che poche righe.

La patria mi chiama a sé e mi è mancato il tempo di uccidervi o di farmi uccidere, perché l'Amur salpa in questo momento. Dopo la guerra se le vostre palle mi risparmieranno, mi metterò a vostra disposizione.
Boris.

Sakya era rimasto per alcuni istanti muto, cogli occhi fissi su quelle righe, il viso alterato da una collera terribile.

— Fuggito! — esclamò finalmente. — Fuggito e mio padre invendicato! Sia maledetta la tua razza! Va' pure, riparati dietro i forti di Port-Arthur, io ti raggiungerò egualmente, perché è dalla mia sola mano che tu devi morire. Al palazzo, e di corsa!

Risalì nel palanchino ed i portatori partirono a corsa sfrenata, seguiti dai samorai che esclamavano a squarciagola:

— Largo al nostro signore!

Venti minuti dopo si fermarono all'hatobera su cui sorgeva il palazzo del defunto daimio.

Sakya salì rapidamente lo scalone ed entrò nella stanza dove si trovava la salma del vecchio daimio. Shima era ancora accanto al letto, muta, pallida, cogli occhi rossi.

— Leggi — disse il fratello mettendole dinanzi il biglietto di Boris.

— Fuggito! — disse la fanciulla mentre un'ondata di sangue le imporporava le gote. — La morte di nostro padre rimarrà dunque invendicata?

— Fra ventiquattro ore la guerra sarà dichiarata fra il nostro popolo e quella razza maledetta — rispose Sakya. — Egli è fuggito a Port-Arthur, perché è là che la Russia ha radunato il grosso della sua squadra. Andrò a raggiungerlo e l'ucciderò.

— E la ghesha, — chiese Shima con voce furente.

— Partita certo con lui.

— Fratello: a me la vita di quella donna, a te quella di Boris.

— Che cosa vuoi fare, sorella?

— Imbarcarmi sulla tua torpediniera. Togo, il nostro grande ammiraglio, non mi negherà questo permesso.

— Esporti tu agli orrori della guerra?

— La mia vita ormai la dono alla mia patria ed io ti mostrerò che non valgo meno dei tuoi marinai.

— Tu hai nelle vene il sangue di guerrieri, lo so...

— Prendimi a bordo della tua Morioka, fratello.

— Sia — disse Sakya con voce decisa. — Andremo a morire per la patria ed a vendicare nostro padre.

— Grazie, fratello — disse la giovane mentre una fiamma sinistra le illuminava gli occhi. — I figli del gran daimio di Yokohama non morranno che dopo aver lavato l'oltraggio recato alla loro casa.