L'eroina di Port Arthur/4. Il suicidio del daimio

4. Il suicidio del daimio

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4. IL SUICIDIO DEL DAIMIO


Le gheshe o gheishe giapponesi sono le donne più belle, più eleganti, più spiritose e più istruite dell'Impero del Sol Levante e, quello che è più, di una onestà scrupolosa, tanto che per lo più quelle suonatrici e cantatrici finiscono di diventare le mogli di nobili o di persone d'alta condizione. Tutte hanno delle graziose abitazioni, ornate con lusso, servi e cameriere e palanchini perché sdegnano di andarsene a piedi per le vie popolose di quelle grandi città, ma non ricevono, né danno spettacolo in casa loro. Sono le frequentatrici delle case di thè, ossia dei grandi caffè dove si radunano i ricchi cittadini che desiderano divertirsi e non suonano né cantano ordinariamente in pubblico, bensì nelle stanze riservate. Quando una compagnia di amici desidera passare una bella serata, manda ad invitare una ghesha, la quale ordinariamente non si fa pregare purché l'invito sia fatto con tutte le regole.

La ghesha giunge sempre nella sua kengo, che è un'altra specie di palanchino, come una gran dama, vestita sempre sfarzosamente secondo l'ultima moda, giacché sono quelle fanciulle che la dettano e che la impongono anche alle grandi signore, scortata dai suoi servi e con la sua stramisun rinchiusa in un cofano ricchissimo, che è affidato ad un servo speciale che le fa anche da battistrada.

Appena entrano nella casa di thè, dove l'attendono coloro che l'hanno invitata, s'inchina graziosamente dinanzi ad ognuno, si siede in mezzo a loro che s'affrettano ad offrirle una tazza di vino giapponese, fabbricato con riso fermentato, che lei vuota lentamente a piccoli sorsi, per non mostrarsi ghiotta. Risponde nel modo più grazioso e più gentile alle domande che le vengono rivolte, spiegando tutte le risorse del suo spirito e della sua istruzione, talvolta assai vivace, svegliato, finissimo.

Accetta volentieri, prima di suonare e di cantare, la cena che le viene sempre offerta, mangiando pochissimo e bevendo pure pochissimo perché se così non facesse perderebbe molto nella estimazione dei clienti e non sdegna fumare qualche po' se le viene offerta una sigaretta.

Poi improvvisa una canzone detta zateuk, nella quale i diversi sentimenti vengono paragonati ai fiori accompagnandosi colla stramisun e alla fine da ogni persona riceve il prezzo involto in un pezzo di carta onde non se ne offenda, e che varia a seconda della classe a cui appartiene per educazione, spirito e ricchezza di costumi.

Ordinariamente quelle di prima non ricevono mai meno di cinque lire, quelle di seconda due e cinquanta ed uno e cinquanta quelle di terza che sono le ultime. Trascorsa qualche ora della festa, la cantante eseguisce quasi sempre una danza simbolica ispirata da antiche leggende amorose, tenendo in mano dei ventagli colorati. A loro volta gli spettatori danzano e cantano, e allora la ghesha serve da bere a colui che ha mandato il biglietto d'invito.

Quelle fanciulle fanno il tutto per piacere, sempre nei limiti dell'onesto, e vi sono molti letterati di grande fama che compongono poesie per loro e le invitano nelle loro case a discutere e anche a giuocare agli scacchi. La maggior parte di quelle ragazze, scelte sempre fra le più belle e le più intelligenti, sono allevate colle maggiori cure da antiche gheshe diventate professoresse e devono riuscire l'ideale della bellezza e della eleganza se vogliono fare fortuna.

D'una correzione di modi perfetta, sovranamente eleganti, sono il modello, l'esempio, il fiore raro coltivato con amore speciale. Una principessa può domandare a loro consigli sulle regole di buona condotta, d'etichetta, e allorché poeti fanno a loro dei madrigali non mancano mai di rispondere, nella lingua degli dei, con altrettanto spirito, e quando possono ispirare qualche passione a qualcuno, il matrimonio solo è lo scioglimento possibile per quel vincolo d'affetto...

Non appena la norimon si fermò dinanzi all'abitazione di Naga, la figlia del daimio, senza aspettare che il fratello l'aiutasse, con un salto era già a terra, fissando i suoi occhi su una finestra che era ancora illuminata. La ghesha doveva essere appena entrata, avendo Sakya dato ordine ai portatori di non affrettare il passo, onde appunto lasciarle tempo di giungere alla sua casa qualche po' prima.

— Che vi sia lui? — chiese Shima, con voce fremente, rivolgendosi a Sakya.

— Lo dubito — rispose il tenente. — Le gheshe difficilmente ricevono nella loro casa. Forse l'avrà accompagnata fino qui, poi se ne sarà andato.

— Che quella fanciulla sappia che Boris si prepara a partire?

— Sai che cosa mi hanno detto?

— Parla, Sakya.

— Che l'accompagnerà a Port-Arthur.

— Allora è la sua fidanzata?

— È ciò che sospetto e che fino a questo momento non ho osato dirti.

— Quello straniero dunque si è fatto giuoco di me.

— Ed è perciò che noi lo puniremo, Shima — rispose con voce grave Sakya.

— Fugga pure, io saprò trovarlo anche in mezzo ai suoi compatrioti se nostro padre non riuscirà a lavare la macchia che quel nemico ha gettato sulla nostra famiglia. Andiamo Shima, desidero ora anch'io parlare con quella ghesha.

Si volse verso i samorai ed i portatori, dicendo loro:

— Rimanete qui voi e quando udrete un mio fischio, che uno si rechi tosto da mio padre per dirgli che la prova io l'ho data a mia sorella e che tutto è finito.

A fianco della porticina vi era un disco di metallo a cui era sospeso un martelletto.

Sakya salì risolutamente i tre gradini e percosse per tre volte la lastra, che mandò un suono argentino che durò parecchi secondi. Un valletto tosto apparve aprendo i due battenti.

— Chi cercate, signore? — chiese facendo un segno di stupore nello scorgere una donna a fianco del tenente.

— Vedere e parlare alla tua padrona.

— A quest'ora?

— Dille che il figlio di un gran daimio desidera vederla e che sono accompagnato da una fanciulla. È sola?

— Sì, mio signore.

— Va' ed avvertila che se non mi riceverà subito i miei samorai forzeranno le porte e prenderanno la casa d'assalto.

Sakya aveva pronunciato queste parole con un accento così minaccioso e così fermo, che il valletto non osò nemmeno chiudere la porta.

Un momento dopo era di ritorno dicendo:

— Entrate, signore, la ghesha cede alla violenza.

Entrarono in un corridoio formato di paramenti ricchissimi, laccati e ricamati, illuminato da due minuscole lanterne di carta di seta che spandevano un debole chiarore, poi Shima e Sakya furono introdotti in un piccolo gabinetto ammobiliato con squisita eleganza con piccoli sedili incrostati di madreperla, magnifici paraventi che avevano delle gru ricamate in seta e dei mazzi di crisantemi e le pareti adorne di grandi ventagli che spiccavano vivamente sulle tappezzerie color del cielo dopo la pioggia.

Naga la ghesha vi era di già, appoggiata ad un enorme vaso ripieno di peonie e di lillà, con indosso ancora il ricco e pittoresco costume che portava al circo dei lottatori.

Su un divanetto di seta azzurra vi era ancora la sua stramisun e presso quell'istrumento il crisantemo lanciatole da Boris dopo la vittoria di Sira Yama. Shima le era mossa incontro rapidamente, gettando vivamente all'indietro il lungo mantello di seta nera che le celava il bel visino, dicendole con voce fremente:

— Mi conosci tu, ghesha?

La suonatrice si era rizzata, guardando con stupore la fanciulla che la saettava con due occhi ripieni di odio. Un vivo pallore s'era diffuso sul suo viso, nondimeno con un sorriso forzato rispose:

— No, signora, ma le vesti che tu indossi mi dicono che devi essere una dama delle alte caste.

— Io sono la figlia dell'antico daimio che un giorno era padrone e signore di Yokohama.

— Di Foyama, il gran daimio? — esclamò la ghesha facendo un gesto di terrore che non isfuggì a Shima.

Aveva fatto un profondo inchino forse anche per nascondere il suo turbamento, esercitando anche oggidì, quei possenti feudatari, una profonda impressione sul popolo, non ostante la loro caduta e la perdita della loro autorità. Quando si risollevò, il viso della ghesha aveva riacquistato la sua abituale impassibilità.

— Che cosa desiderate, signora, voi figlia di un grande, da una povera suonatrice? — chiese poscia.

— Il mio nome non ti ha rivelato nulla? — chiese Shima con fuoco.

— No, mia signora.

— E Boris Siloff, il tenente della marina russa, lo conosci quello? — chiese Shima con voce ironica.

La ghesha parve che frugasse nella sua memoria, poi disse con voce calma e ad un tempo rispettosa:

— Mi sembra di non aver udito ancora quel nome.

— Tu menti peggio d'una musmè! — gridò Shima che non si frenava più.

Con passo veloce s'avvicinò al divanetto su cui stava ancora il crisantemo e gettandolo con disprezzo sul volto della ghesha le disse:

— È lui che ti ha gettato questo fiore quando Yas è caduto, e tu lo hai raccolto. Negalo, se l'osi!

Naga era tornata a farsi pallida.

— È vero — disse poi. — Questo fiore l'ha gettato il tenente russo ed io l'ho raccolto.

— Tu l'ami dunque?

— Sì, l'amo, signora — rispose Naga alzando il capo e gettando sulla fanciulla uno sguardo che pareva di sfida.

— Allora tu dovevi sapere che era il mio fidanzato.

— Non lo ignoravo.

— Ed ora è il tuo, è vero?

La ghesha era rimasta silenziosa.

— Parla, ho il diritto di saperlo! — gridò Shima cogli occhi sfavillanti ed il volto acceso.

— Tu, signora, figlia di un grande daimio, bella fra le belle, da tutte invidiata, puoi scegliere fra i giovani della più alta nobiltà dell'Impero e dei cuori ne hai finché vuoi che battono per te. Perché strappare a me, povera ghesha, l'amor d'un solo uomo e che è il solo che mi abbia veramente amata e che io amo? Sono un povero fiore gettato in balìa del vento, destinato ad appassire se nessuno mi raccoglierà e mi esporrà alla rugiada ed al sole. Quella mano io l'ho trovata, quella mano mi ha raccolta, lascia, signora, che io sia riconoscente a quell'uomo.

— Uno straniero!

— La ghesha non ha patria!

— Un nemico!

— Sia pure.

— Che domani ucciderà i tuoi fratelli.

— Ma che anche tu hai amato prima, signora.

— Che non avrei mai seguito nel suo paese, che avrei tenuto prigioniero presso di me, privando la sua patria del suo braccio.

— Io l'amo, signora — disse Naga con un singhiozzo. — La mia vita gli appartiene ormai, checché debba succedermi.

— Dunque parti con lui? — chiese Shima.

La ghesha fece un cenno affermativo.

La figlia del daimio aveva fatto un gesto come se cercasse qualche cosa nella fascia di seta fiorata che le stringeva i fianchi. Sakya, che la sorvegliava attentamente, fu pronto a fermarle il braccio.

— Tu me l'hai promesso, sorella! — disse con voce grave.

La fanciulla si coprì gli occhi con una mano, strappando via due lagrime, poi rispose:

— Sì, è vero.

Aveva la voce spezzata ed un tremito la scuoteva tutta.

— La nostra missione è finita — aggiunse poi. — Usciamo da questa casa, fratello.

— Attendi un istante.

S'accostò alla finestra e mandò un lieve fischio. Uno dei samorai si era subito staccato dai suoi compagni, allontanandosi a corsa sfrenata. Il tenente porse il braccio a Shima che si era già avvolta nel mantello di seta. Stavano per uscire dalla stanza, quando udì la ghesha dire con voce singhiozzante:

— Non uccidermelo, signore.

Shima si era voltata colla vivacità di una giovane pantera.

— Boris non appartiene più a me, ma nemmeno a te e pagherà l'onta recata al daimio di Yokohama — disse con voce sorda.

Poi uscì rapidamente, quasi trascinando il fratello e salì nella norimon dicendo ai portatori:

— Subito, al palazzo.

Sakya le si era seduto al fianco triste e silenzioso. Le preoccupazioni riguardo a suo padre lo avevano ripreso e si domandava con inquietudine perché aveva voluto essere informato dell'esito di quella prova prima che giungessero loro. Il daimio un giorno, all'epoca della sanguinosa insurrezione del principe di Santsuma, che doveva segnare la fine del feudalismo, era stato un famoso guerriero ed egli temeva che si fosse lasciato trasportare a qualche atto inconsulto. Erano quasi le una del mattino quando i portatori giunsero dinanzi al palazzo del daimio.

Tutto era silenzio nell'interno e tutte le finestre erano chiuse, eccettuata una che appariva vivamente illuminata.

Alla battuta del gong non fu il portiere che aprì, bensì l'intendente della casa. Shima ed il tenente appena scesi dalla norimon s'accorsero subito che quell'uomo sembrava esterrefatto e che aveva gli occhi lagrimosi.

— Nostro padre? — chiesero ad una voce Shima e Sakya con ansietà.

— Seguitemi, padroni — rispose l'intendente con voce fioca.

I due giovani salirono rapidamente le scale e si precipitarono nella stanza paterna, nella quale si trovava raccolta tutta la servitù.

Un doppio grido, straziante, terribile, era sfuggito dalle labbra di Shima e del tenente.

Il vecchio daimio giaceva sul suo letto, col ventre orrendamente squarciato, in mezzo ad una enorme macchia di sangue che aveva arrossate le coperte di seta azzurra, stringendo ancora, fra le dita rattrappite, la sua doisciò di nobile giapponese.