L'eroina di Port Arthur/3. Una lotta emozionante

3. Una lotta emozionante

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3. UNA LOTTA EMOZIONANTE


Il Giappone si può dire che è il paese dei lottatori, anzi il paradiso, perché quei colossi vengono tenuti in grandissima stima dal pubblico, dalla nobiltà e persino dallo stesso Mikado, ossia Imperatore, che non sdegna conferire a loro onori altissimi.

Ne ha avuto moltissimi di celebri morti milionari, però forse mai nessuno si era acquistata la fama di Sira Yama, soprannominato la Montagna Bianca, e di Yas di Kamakura, i due campioni che quella sera dovevano misurarsi nel circo dove erano entrati Shima e Sakya, e che la stramisun della ghesha doveva incoraggiare nell'arduo cimento.

Tutta la crème di Yokohama era accorsa, affollandosi nell'immenso recinto, disputandosi i palchi e le gradinate, ansiosa di vedere misurarsi i due più forti campioni dell'Impero che godevano la protezione del Mikado e che mai fino allora avevano osato misurarsi per tema di perder l'uno o l'altro il primato. Shima e suo fratello, nascosti dietro il graticolato, non s'interessavano veramente gran che, tutti intenti a cercar Boris, che forse si trovava poco discosto da loro e che pure non erano ancora riusciti a scoprire.

— Non lo vedo, non lo vedo — ripeteva la giovane con voce soffocata. — Fratello, che ti abbiano ingannato?

— No — rispondeva il tenente. — Colui che mi avvertì è un amico fedele, incapace di dire delle menzogne. Aspetta che si presenti la ghesha e si mostrerà anche lui. Guarda, vi è un palchetto vuoto di fronte al nostro. Chissà che non sia il suo.

— Tarderà a comparire quella donna? — chiese Shima coi denti stretti.

— Ecco le danzatrici che entrano. La lotta seguirà subito la danza. Ah! La ghesha! Guardala, Shima, guardala!

La fanciulla era scattata in piedi, pallida come una morta, accostando il viso alla grata e non aveva potuto frenare un grido a malapena soffocato. Su un palco che occupava il fondo del circo, illuminato da palloncini di talco e adorno di quei grandi e meravigliosi vasi così ammirati dagli europei, pieni di crisantemi e di peonie fiammanti, erano comparse dodici musmè ossia danzatrici, che indossavano delle vesti sfarzose, piuttosto attillate, con maniche invece larghissime e che avevano la testa coperta da ampi cappelli di paglia finissima, in forma di fungo, trattenuti da parecchi spilloni d'oro. Avevano tutte collane bellissime e braccialetti di gran valore ed i piedini chiusi entro zoccoletti dalla suola altissima, di feltro bianco, sui quali nessuna europea di certo avrebbe potuto tenersi in equilibrio.

Quelle dodici fanciulle tutte bellissime erano accompagnate da una tredicesima che aveva un costume ancora più sfarzoso, un po' scollato, tutto di seta finissima a grandi fiori rossi ed azzurri, con bottoni d'oro e gioielli che mandavano lampi abbaglianti. Al pari delle musmè aveva sul capo un cappello amplissimo, trattenuto da spilloni e da pendenti d'oro che le scendevano fino sotto la gola. In una mano teneva una specie di chitarra, di forma rotonda, col manico lunghissimo ad intarsi di madreperla e con lunghi nastri all'estremità: era la stramisun, quell'istrumento dolcissimo, dalle cui corde di seta le gheshe sanno trarre dei suoni che affascinano.

— La vedi? — aveva ripetuto Sakya. — Ecco la tua rivale!

Shima, curva innanzi, colle mani raggrinzate sul petto come se avesse voluto frenare i battiti del cuore e gli occhi fiammeggianti, fissava la ghesha che si era seduta in un angolo del palco, sopra un piccolo sgabello dorato e scolpito.

Se la figlia del gran daimio di Yokohama era bellissima, Naga non lo era meno. Aveva i lineamenti dolcissimi, gli occhi vivaci e nerissimi sormontati da lunghe e sottili sopracciglia dall'arcata perfetta, una boccuccia ammirabile e la pelle non meno bianca, con sfumature alabastrine che facevano ricordare certi chiarori dell'alba. Anche il corpo era squisitamente modellato, con una vitina sottile come quella d'una vespa e con mani e piedi piccolissimi che potevano gareggiare e forse vittoriosamente con quelli tanto decantati delle donne del Celeste Impero.

— Sai dove abita quella fanciulla? — chiese Shima a Sakya che la guardava, atterrito dall'angoscia profonda che traspariva sul viso della sorella.

— Sì — rispose Sakya.

— Vorresti condurmi da lei, quando lo spettacolo sarà finito?

— Tu, la figlia d'un daimio?!

— E perché no? Quante di queste gheshe non appartengono alla nobiltà giapponese che le sposa?

— È vero — rispose il tenente.

— Ma perché vuoi recarti da lei?

— Sai tu se Boris si rechi a trovarla?

— Me lo hanno detto.

— Vorrei trovarmi con lui e colla ghesha.

— E poi?

— E uccidergliela sotto gli occhi — rispose Shima freddamente.

— No, Shima: quella donna non ha nessuna colpa e forse ignora che Boris sia stato il tuo fidanzato.

— Almeno da lei lo sapremo.

— Spetta a nostro padre vendicare l'oltraggio fatto alla nostra famiglia.

— È vero — mormorò la fanciulla, abbassando la testa.

— Lui farà pagar cara a quel maledetto straniero la mala azione commessa.

— Eppure vorrei prima vederlo.

— Che cosa speri ormai da lui?

— Non so.

— Che ti riami?

— Ormai il mio cuore non batte più per quell'uomo. Conducimi dalla ghesha, Sakya; voglio parlarle.

— Sia, purché tu mi prometta di non toccare quella donna.

— Te lo prometto.

Mentre si scambiavano quelle parole, le musmè, al suono della chitarra della ghesha, si erano messe a danzare, facendo svolazzare le loro larghe maniche di seta e le loro sottane.

La danza delle fanciulle giapponesi è piuttosto minuta e plastica che coreografica e non somiglia per nulla alla nostra.

Come presso quasi tutti i popoli orientali, i piedi delle danzatrici rimangono pressoché immobili e l'arte pirrica di quelle fanciulle consiste soprattutto nelle ondulazioni delle anche, in gesti concitati delle mani ed in flessioni del busto sapientemente calcolate.

Il fascino penetrante della stramisun che viene pizzicata con molto gusto, la mobilità delle pose, l'espressione parlante del viso, danno però a quelle danze un carattere indefinibile che produce una profonda sensazione anche sullo spettatore più scettico e lo domina completamente.

Amore, odio, dolore, gioia, speranza, i sentimenti umani più diversi eran resi da quelle fanciulle in modo così intenso e così reale, da scuotere tutto il pubblico.

Shima, tutta preoccupata nei suoi pensieri, non si era nemmeno degnata di lanciare uno sguardo sulle danzatrici. Guardava solamente la ghesha che traeva, colle sue piccole ed agili dita, dalla chitarra dei suoni così dolci da paragonarli al lieve mormorio d'un ruscello, ed ora al canto delizioso delle kayka, quelle rane che i giapponesi rinchiudono in minuscole gabbie di bambù e che cantano meglio dei nostri rosignoli.

— È la sua musica che ha affascinato Boris — disse ad un tratto. — Oh! Quanto l'odio ormai quella donna! è lei che ha infranta la mia felicità, e che ha disonorata la nostra casa. Sakya, lascia che la uccida!

— Ho la tua promessa, Shima, e le figlie dei daimio non mancano alla parola al pari dei figli.

— E se Boris la conducesse con sé?

— Fuori del Giappone nessuno t'impedirà di vendicarti di lui e di lei.

— Va... mi hai detto?

— A Port-Arthur — rispose il tenente.

— Potremo noi recarvici nel caso che ci sfuggissero?

— E la guerra che sta per scoppiare, la dimentichi tu? Io so che è già stato dato l'ordine ai nostri compatrioti che si trovavano colà di sgombrare quella piazza entro ventiquattro ore. Noi giungeremmo colà come nemici.

— La guerra non è stata dichiarata, fratello.

— La nostra armata da due giorni tiene i fuochi accesi e quello è un brutto segno. Anche la mia torpediniera fuma fino da stamane ed io sono stato avvertito di tenermi pronto a prendere il mare.

Un immenso scoppio d'applausi aveva interrotto in quel momento la loro conversazione.

Tutto il pubblico, in piedi sulle gradinate, batteva freneticamente le mani ed i piedi ed urlava a squarciagola.

— I lottatori! — aveva esclamato Sakya. — E Boris? Dov'è che non si mostra ancora? Eppure egli deve essere qui.

Le danzatrici erano scomparse dietro i paraventi che formavano lo sfondo del palco e due uomini, due colossi, erano comparsi scendendo lentamente la scala che conduceva nell'arena.

Erano Sira Yama, la Montagna Bianca, ed il suo competitore, Yas di Kamakura. I due sumatori — tale è il nome che i giapponesi danno a quei colossi — erano entrambi di forme massicce, con muscoli enormi, ma il primo era di dimensioni più gigantesche del secondo, come era pure il più apprezzato per la sua forza, per la sua astuzia e soprattutto perché nessuno meglio di lui faceva con maggior amabile gravità il saluto d'obbligo che ogni lottatore deve rivolgere al pubblico prima di cominciare la lotta.

Erano entrambi quasi nudi, non avendo che un semplice sottanino di seta azzurra trapunta in oro l'uno e di seta rossa trapunta in argento l'altro, con una larga cintura di pelle assai stretta. Anche i piedi non avevano alcuna calzatura.

Quattro giudici, che tenevano in mano dei ventagli, seguivano i due colossi per regolare gli assalti.

I due sumatori s'inoltrarono gravemente fino in mezzo al circo, dove era stato eretto un terrapieno circolare, fra le urla entusiastiche del pubblico, e salutarono battendo le mani e stendendo le braccia, mentre Naga la ghesha ricominciava a suonare, per infondere maggior animo ai due colossi.

Ad un cenno dei giudici, i quali si erano seduti sul terrapieno tenendo presso di loro dei vasetti contenenti del sale, il pubblico era diventato muto. Tutti però studiavano, anzi ammiravano, i due forti campioni che fino allora erano stati reputati invincibili e che, come dicemmo, si misuravano per la prima volta. Anche Sakya, nonostante la sua preoccupazione, non aveva potuto fare a meno di esclamare:

— Che muscoli! Ecco una lotta che rimarrà indimenticabile.

Solo Shima pareva che non li avesse nemmeno veduti. I suoi occhi non guardavano che la ghesha che continuava a trarre suoni sempre più affascinanti dalla sua stramisun.

Sira Yama e Yas, salutato il pubblico e messisi in bocca alcuni granelli di sale, si erano posti l'uno di fronte all'altro, squadrandosi in cagnesco e spiando reciprocamente i loro movimenti.

Si soffregavano i poderosi muscoli, facevano scricchiolare le articolazioni, si abbassavano e si rialzavano come volessero prima ben assicurarsi della elasticità delle loro membra mentre il pubblico scommetteva freneticamente a bassa voce.

Ad un tratto un fremito percorse la folla. Yas aveva fatti rapidamente alcuni passi indietro, poi si era scagliato innanzi come una catapulta, sperando coll'urto della sua enorme massa di abbattere d'un colpo la Montagna Bianca che l'aspettava a pie' fermo.

— Kara! Kara! — avevano gridato i giudici per incoraggiarlo.

Yas, diventato proiettile, si era gettato sul suo avversario. L'urto di quelle due masse umane, pesanti non meno di centocinquanta chilogrammi ciascuna, aveva strappato un grido di entusiasmo al pubblico.

Sira Yama aveva ricevuto la formidabile spinta senza oscillare sui suoi larghi piedi. La Montagna Bianca giustificava il suo nome e mostrava la sua incrollabilità.

I due sumatori si erano afferrati a mezzo corpo, cercando di scrollarsi, ma né l'uno né l'altro si piegavano sui garretti.

Invano Naga affrettava le note per elettrizzarli: parevano veramente due montagne che nessuna forza riusciva ad abbattere. Gli spettatori, tutti in piedi, non fiatavano quasi più.

Ad un tratto Yas, vedendosi impotente a far perdere l'equilibrio a Sira Yama, si sottrasse alla stretta di lui sgusciandogli fra le mani e cambiò tattica. Cercava di dare un colpo maestro che gli era sempre riuscito con altri avversari. Riprese lo slancio e si scagliò con tutto il suo peso sulla Montagna Bianca, come se egli stesso fosse insensibile ed invulnerabile.

Rapido come un pezzo di roccia che si stacca da un'altura e che precipita, piombò sull'avversario.

Sira Yama non tentò nemmeno di trattenerlo. Con un semplice movimento di fianco evitò l'urto, e Yas, troppo lanciato per potersi arrestare, andò a cadere pesantemente contro le funi che circondavano il terrapieno. Un immenso scoppio di risa era sfuggito agli spettatori, seguito da una tempesta di epigrammi ben salati.

Il lottatore si era rialzato, furioso e pronto a ricominciare. Per la terza volta si rovesciò addosso alla Montagna Bianca, afferrandolo pel corpo.

La lotta diventava tremenda. I due sumatori, comprendendo che stavano per giuocare le loro ultime carte, facevano sforzi prodigiosi per non lasciarsi rovesciare. Entrambi non formavano ormai che una massa sola, un blocco. Il loro respiro era ansante: le loro carni portavano l'impronta delle dita che vi si incrostavano.

Il momento decisivo si avvicinava: un grave silenzio regnava fra gli spettatori; un solo sguardo di diecimila pupille dardeggiava i due lottatori. Perfino Shima pareva che per un istante avesse dimenticato Naga e Boris. Yas, coi globi degli occhi fuori dalle orbite, colle vene del collo gonfie sotto la pelle, spendeva il resto delle sue forze in un ultimo e più poderoso assalto. Il suo enorme petto rumoreggiava come qualcosa di bestiale. La Montagna Bianca resisteva sempre a quella stretta formidabile, con un vigore soprannaturale che formava l'ammirazione di tutti. Quando gli parve che l'avversario fosse esausto, a sua volta assalì. Non fu affar lungo. Dopo alcuni secondi, mentre la ghesha intonava con voce armoniosa una canzone guerresca accompagnandola colla stramisun, si vide Yas oscillare sulla propria base, poi fu spinto fuor dal limite dell'arena e atterrato violentemente. Sira Yama, la Montagna Bianca, aveva vinto.

Mentre il pubblico, come delirante, salutava il formidabile campione con grida e battimani, si vide uno splendido crisantemo, al cui gambo brillava qualche cosa d'aureo, probabilmente qualche gioiello, cadere ai piedi della ghesha, la quale lo raccolse vivamente.

— Shima! — aveva esclamato Sakya. — Hai veduto?

La ghesha aveva alzato gli occhi verso uno dei palchi. La figlia del daimio aveva seguito quello sguardo che si fissava appunto sul palchetto rimasto fino allora vuoto.

Un grido a malapena soffocato le sfuggì:

— Lui!

Boris era là, ritto nel palchetto, tenendo in mano un crisantemo eguale a quello che aveva lanciato a Naga.

— Ah! Fratello! — mormorò con accento terribile. — Quanto odio ormai quell'uomo!

— L'hai avuta la prova? — chiese Sakya, ricevendola fra le braccia.

La fanciulla aveva fatto col capo un gesto affermativo, mentre un sordo singhiozzo le moriva sulle labbra.

Mezz'ora dopo, la norimon, sempre scortata dai samorai, che tenevano le katane sguainate, cominciando a spegnersi i fanali che illuminavano le vie, s'arrestava dinanzi ad una graziosa casettina di costruzione leggerissima, situata all'estremità della Ban-ten-dori, uno dei sobborghi più pittoreschi di Yokohama.

Era l'abitazione di Naga la ghesha.