L'eroina di Port Arthur/2. Il tradimento di Boris

2. Il tradimento di Boris

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2. IL TRADIMENTO DI BORIS


Un giovane, che indossava la divisa di tenente di marina dell'armata giapponese, era entrato in quel momento, ed aveva pronunciate quelle parole con voce sibilante che tradivano una collera terribile.

Quantunque il Giappone vanti delle fanciulle bellissime e per contro dei giovani tutt'altro che attraenti, quel tenente si poteva, fino ad un certo punto, chiamarlo bellissimo, come mongolo-malese.

A differenza dei suoi compatrioti era di statura relativamente alta, di forme slanciate, colla pelle leggermente giallastra, gli occhi lievemente obliqui, neri come quelli di Shima ed egualmente espressivi.

Due baffi, appena nascenti, più rigidi di quelli dei mongoli, gli ombreggiavano il labbro, dandogli un aspetto simpatico, anzi piacevole.

Il daimio udendo quelle parole si era vivamente voltato, esclamando: — Tu, Sakya?

— Sì, padre, sono io che vengo a strappare dal cuore di mia sorella la fiamma che la bruciava. Boris la tradisce.

Shima, che si era appoggiata alla balaustrata, come se le forze l'avessero abbandonata, a quelle parole si era rialzata con uno scatto da leonessa ferita. Una cupa fiamma brillava nei suoi occhi profondi mentre il suo bel visino aveva assunto un aspetto selvaggio.

— Fratello! — gridò con voce fremente. — Tu l'accusi!

— Sì, Shima, e giuro su Hadmana Soma, il dio della guerra, che Boris ti tradisce.

— Leggi — disse il daimio, porgendogli il biglietto.

Il tenente vi gettò sopra uno sguardo, poi rispose con voce sdegnosa:

— Ecco come i barbari dell'Occidente trattano le fanciulle dell'Impero del Sol Levante. È necessario, padre, che il sangue lavi le macchie che quell'uomo ha fatto al daimio di Yokohama.

— Che cosa vuoi fare, Sakya? — chiese Shima cogli occhi scintillanti.

— Ucciderlo prima che lasci il Giappone o costringerlo a sposarti. I nostri samorai hanno già affilate le loro katane.

— Dammi una prova che Boris m'inganna.

— Egli si prepara a fuggire con Naga la ghesha. Da mezzogiorno l'Amur è sotto pressione e domani forse, quando il cannone annuncerà la guerra, ormai inevitabile, Boris se ne andrà con quella donna.

— Chi te lo disse? — chiese Foyama.

— L'ho saputo questa sera da un mio amico, che conosce Naga da lungo tempo.

— Dammi una prova! — gridò Shima. — L'amore che io nutrivo per Boris si cambierà in un odio implacabile.

— Me lo giuri, Shima?

— Su Rin-gin, il dio drago.

— Mentre il suo marinaio ti portava quel gioiello, Boris accompagnava la ghesha al circo dei lottatori. Tu piangi e lui forse ride, con quella fanciulla, e applaude la Montagna Bianca.

Un grido d'angoscia era sfuggito dalle labbra della giovane giapponese.

— No... è impossibile! — balbettò.

— E se io te li mostrassi entrambi, l'uno vicino all'altro, mi crederesti?

Shima si era rialzata. La terribile emozione che sconvolgeva il suo viso era improvvisamente scomparsa. Solo sugli occhi le brillava un fuoco strano, come se dentro le pupille balenassero delle scintille.

— Boris mi tradisce — disse con una calma spaventosa. — A me, figlia di un gran daimio, che ho rifiutato i giovani della più alta nobiltà del Sol Levante, anteporre l'amore d'una ghesha. Sakya, dammela quella prova ed io ti mostrerò di che cosa sarà capace tua sorella. Né il mare, né il fuoco, né il destino salveranno quell'uomo, se è vero che mi ha tradito.

— Che cosa vuoi fare, Shima? — chiese Foyama, spaventato dall'accento selvaggio della giovane.

— Dov'è, Sakya? — chiese invece la giovane.

— Al circo dei lottatori, ti ho detto — rispose il tenente.

— Ne sei ben certo?

— Sì, l'ho fatto seguire.

— Sono pronti i samorai?

— Ed armati anche.

— Padre, le macchie fatte all'onore dei daimio si lavano col sangue, è vero? — disse la giovane con esaltazione.

— Tu non lo farai uccidere dai miei bravi — disse il vecchio con voce solenne. — Spetta a me, a me solo, punire quell'uomo. Quando tu, Sakya, avrai dato a Shima la prova del tradimento di Boris, mandami un samorai ad avvertirmi.

— Padre, — disse il tenente — io sono uomo di guerra e giovane...

— Sono io il capo della famiglia — disse Foyama. — Spetta solo a me lavare la macchia. Andate, figli miei.

Poi, volgendosi al valletto che era rimasto immobile sulla porta che metteva nella stanza, gli disse:

— Fa' preparare una norimon con quattro portatori e quattro samorai armati.

— Padre — disse Shima guardandolo bene negli occhi. — Che cosa vuoi fare tu? Mi fai paura.

— Lo saprai più tardi — rispose il vecchio. — Va', e se è vero quanto afferma tuo fratello, Boris la pagherà cara. Dopo, l'ameresti ancora?

— No — rispose la fanciulla con voce vibrante. — L'odio già e come sanno odiare le donne della nostra razza. Il mio cuore non batterà mai più per quell'uomo, te lo giuro sui nostri carni.

— Vieni, Shima — disse Sakya.

Entrarono nella vicina stanza.

La fanciulla lasciò cadere il velo e si gettò sulle spalle un ampio mantello di seta nera, che l'avvolse fino ai piedi.

Sembrava calmissima, come se la passione che le aveva fatto palpitare il cuore per quello straniero si fosse realmente, tutto d'un tratto, spenta. Solo il suo bel viso conservava ancora un pallore mortale.

— Shima — le disse il daimio con voce commossa. — È proprio vero che non l'amerai più?

— No padre. – ripeté la fanciulla. – Ne vuoi una prova? Guarda!

S'incamminò con passo rapido verso il terrazzo, raccolse da terra, ove era ancora rimasto, il prezioso braccialetto inviatole da Boris e con un gesto fulmineo lo lanciò al di là della gettata, facendolo cadere in mare.

— Ecco quello che doveva essere il regalo di nozze — disse. — Come quel gioiello è ora in fondo alla baia, così getto l'amor ch'io nutrivo per lo straniero d'Occidente.

Poi, afferrando il braccio di Sakya, gli disse con voce fredda:

— Andiamo a vedere la ghesha, fratello. La guarderò senza che il mio cuore batta.

— Tu sei degna di tuo padre — disse Foyama, baciandola sulla fronte. — Hai nelle vene il vero sangue dei daimio.

Il tenente e Shima uscirono dalla stanza e scesero lo scalone marmoreo. Dinanzi alla porta otto uomini d'aspetto robusto, vestiti di tela bianca, col capo riparato da ampi cappelli di paglia in forma di fungo, stavano fermi dinanzi ad una ricca e comoda norimon, il palanchino usato dai nobili giapponesi e dai grandi personaggi, col tetto laccato e dorato, le portiere adorne di tende di seta fiorata e sorretto da una grossa sbarra che viene portata da quattro uomini.

Shima ed il tenente salirono, i portatori si misero sulle spalle la pertica appoggiandola ad un cuscinetto e la norimon si mise in moto scortata dai quattro samorai che portavano, infisse nella larga fascia, delle katane lunghe quasi un metro e mezzo, dalla lama diritta e arabescata, coll'impugnatura di legno fasciata di pelle di pesce e la guardia piccolissima e di forma circolare.

I portatori attraversarono a passo di corsa le gettate che erano quasi deserte e s'inoltrarono nella Sciù-kan-matci, una delle più larghe vie della città, tutta splendente di luce ed affollata.

Shima, semicoricata sull'ampio cuscino di seta che le serviva di sedile, non parlava. Si era nascosto il viso col drappo di seta nera come se volesse evitare gli sguardi del fratello e nascondere il violento dolore che le alterava il viso. Forse in quel momento gli occhi della fiera fanciulla piangevano, ma nessun singhiozzo li tradiva.

Anche Sakya rimaneva silenzioso e appariva preoccupato. A dire il vero non aveva mai veduto di buon occhio il russo corteggiare la sorella, prevedendo che un giorno quell'uomo sarebbe diventato un nemico, perché già da mesi e mesi all'orizzonte rumoreggiava sordamente la guerra e l'Orso bianco del nord ed il Sol Levante si guardavano in cagnesco, pronti a sfidarsi. Tuttavia provava un dolore intenso nel vedere distrutto il bel sogno della fanciulla e lo sfacelo della sua felicità.

E poi sentiva, per istinto, che qualche cosa d'altro doveva accadere. Le ultime parole del padre soprattutto avevano gettato nel suo cuore un profondo turbamento. Che cosa voleva il vecchio daimio di Yokohama? Quale vendetta tramava contro Boris? Perché non lasciare a lui, giovane ed esperto nel maneggio delle armi, l'incarico di lavare l'offesa recata dallo straniero alla casa?

Era a quel punto delle sue riflessioni, quando il palanchino si fermò.

— Signori — disse uno dei samorai, alzando la tenda di seta. — Siamo giunti.

Sakya aiutò la sorella a scendere e si guardò intorno.

In mezzo ad una vasta piazza, circondata da bellissimi gelsi neri, si ergeva un immenso steccato, coperto da un telone fiammeggiante che si alzava in forma di cupola, sormontato da una immensa bandiera bianca col sole rosso nel mezzo.

Miriadi di palloncini e di lanterne di carta oliata, di tutte le forme, di tutte le tinte e di tutte le dimensioni, pendevano da una moltitudine di aste infisse sui margini superiori della cinta e dall'interno si levava un fruscio, un sussurrìo come se un gran numero di persone si fossero raccolte.

— Va' a prendere un palchetto per noi — disse Sakya rivolgendosi ad uno dei samorai — e avverti il proprietario che noi desideriamo vedere senza essere veduti.

Guardò Shima. La fanciulla era sempre pallida e calmissima. Anche gli occhi erano asciutti e dentro vi brillava ancora una fiamma cupa.

— Sorella — le disse — È là che si trova Boris.

— Fammi vedere la ghesha — rispose la fanciulla asciuttamente.

— Pensaci.

— Voglio vederli entrambi.

— Rimarrai tranquilla?

Un sorriso sdegnoso apparve sulle labbra di Shima.

— Siamo figli del daimio — disse. — Ormai nel mio cuore non avvampa che dell'odio e Boris è il nemico che domani i nostri fratelli combatteranno.

— Vieni, dunque.

Una porticina si era aperta nella cinta ed il samorai era comparso accompagnato da un grosso giapponese che fece un profondo inchino dinanzi al tenente ed alla fanciulla, grattandosi contemporaneamente le ginocchia in segno di saluto.

I figli del daimio furono fatti passare attraverso una specie di corridoio formato da stuoie ed introdotti in una specie di palchetto che aveva sul dinanzi un graticolato di sottili bambù che permetteva di assistere allo spettacolo senza essere scorti.

Era uno dei palchetti riservati alle donne della aristocrazia giapponese, le quali amano gli spettacoli non meno degli uomini, e che non desiderano farsi ammirare come le donne europee.

Shima aveva subito accostati gli occhi alla graticciata, gettando un rapido sguardo attraverso le fessure. Una folla enorme occupava le gradinate che si alzavano intorno ad una vasta arena cosparsa di sabbia.

Delle fanciulle si erano slanciate in quel momento su quello spazio vuoto, mentre da una piccola loggia alcune artiste suonavano certi flauti lunghissimi, dai quali cavavano delle note dolcissime.

— Quelle sono musmè — disse a Sakya. — Dov'è dunque quella ghesha?

— Quando la Montagna Bianca affronterà Yas, tu la vedrai comparire — rispose il tenente. — È lei che è incaricata d'incoraggiarlo col suono della sua stramisun.

— E Boris? — chiese poi coi denti stretti.

— Sarà qui nel momento della vittoria della Montagna Bianca. Sii paziente ed io ti darò la prova promessa.

— E poi? — chiese la fanciulla con un tono di voce che fece rabbrividire il fratello.

— I samorai sono pronti e le loro katane sono affilate — disse Sakya con voce cupa. — Una tua parola e quell'uomo domani non partirà più per Port-Arthur. Lo vuoi?

Shima non rispose. Sakya aveva invece udito un profondo sospiro uscire dalle labbra della sorella.