L'eroina di Port Arthur/1. Una scena drammatica
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2. Il tradimento di Boris | ► |
1. UNA SCENA DRAMMATICA
Il sole era appena scomparso dietro la vetta gigantesca del Dai-Nippon, il famoso Fusi-Yama, il cui nome significa la dea della felicità, quando le finestre della splendida abitazione di Foyama, il potentissimo daimio che venti anni prima poteva rivaleggiare per possanza collo stesso Mikado, si illuminarono, versando torrenti di luce variopinta sulle vaste hatobera di Yokohama. Miriadi di palloncini di tutte le forme e di tutte le tinte, a fiori trasparenti, disposti sulle terrazze, sui cornicioni del palazzo, intorno alle finestre, si erano accesi come per incanto, mentre sulle guglie crepitavano gli ho-tse, quegli strani fuochi artificiali, che spandono intorno tinte meravigliose e che consumandosi stridono come i bambù.
Una folla compatta aveva invaso la hatobera che si stendeva dinanzi l'opulenta abitazione, prospettando sulla baia, scompaginata di frequente dall'arrivo di ricchi palanchini montati da nobili e da dame dell'alta aristocrazia, portati da robusti garzoni e preceduti da una specie di paggio che urlava senza posa:
— Stimatimi Scinatirò! (largo al mio signore) — grido che vent'anni prima, quando i daimio, potenti feudatari, mal sopportavano la potenza dell'Imperatore, voleva significare: — Inginocchiatevi!
Delle domande e delle risposte s'incrociavano fra tutti quei curiosi, che si stringevano contro le marmoree gradinate del palazzo e che si sospingevano in modo da correre il pericolo di sfasciare le palizzate che reggevano la calata.
— C'è ricevimento in casa del daimio?
— No, è sua figlia, la bellissima Shima che si sposa.
— Con chi?
— Con uno straniero che forse domani sarà nostro nemico.
— Chi è?
— Un tenente russo.
— Triste matrimonio: il nobile sangue giapponese fondersi con quello d'un barbaro dell'Occidente.
— E Boris, il tenente dell'ambasciata.
— E Shima lo ama!
— Silenzio: ecco i samorai che giungono.
— Largo! Largo!
All'estremità dell'hatobera erano comparse due lunghe file di palloncini ondeggianti e subito si era udito echeggiare delle conche marine che mandavano dei muggiti profondi.
Un corteo s'avanzava verso il palazzo del daimio fra un grido assordante, preceduto da tre o quattro bon-san, ossia sacerdoti che avevano la testa scoperta e perfettamente rasa e che indossavano ampie vesti di mussola gialla.
— Yoi! Yoi! — gridavano tutti in coro battendo le mani, ciò che voleva significare: — Felicità! Felicità!
Il corteo, che era formato da una cinquantina di persone, tutte riccamente vestite, con casacche e larghi calzoni di acka e che portavano infisse nelle fasce due daisciò, che sono sciabole lunghe un metro ed un quarto, chiuse in una guaina di legno leggero dell'ho, coll'estremità di rame ornata di forellini dorati ed argentati, e che sono un distintivo di nobiltà, si fece largo fra la folla e sostò dinanzi alla gradinata, mentre le conche marine muggivano più forte che mai, coprendo gli Yoi! Yoi! della folla.
Un uomo d'aspetto maestoso, ancora vegeto quantunque i suoi capelli, non più raccolti in treccia, fossero bianchissimi e che indossava vesti di seta finissima con bottoni d'oro e che portava pure ai fianchi due daisciò, era comparso sulla gradinata fiancheggiato da quattro valletti e da quattro samorai, specie di bravi, che tenevano in pugno delle katane ossia delle sciabole a lama diritta, somiglianti a giganteschi rasoi.
— Il daimio Foyama! — aveva esclamato la folla, scoprendosi rapidamente il capo.
Il vecchio feudatario, che tutta Yokohama invidiava e ancora temeva, quantunque avesse ormai perduto tutto dell'antica potenza, dopo la sanguinosa insurrezione del 1866 che aveva infranta la possanza dei nobili giapponesi, stette un momento immobile guardando freddamente, anzi quasi sdegnosamente la folla che si curvava, poi fece un cenno.
Uno dei quattro bon-san che certo aspettava quella chiamata, salì lestamente la gradinata e seguì Foyama in una spaziosa sala pianterrena, dal pavimento lucentissimo e le pareti coperte di quegli arazzi meravigliosi che gli artefici europei non hanno ancora saputo imitare.
— Sei tu quello che devi predire la sorte, è vero? — gli chiese il daimio.
— Sì, potentissimo signore — rispose il bon-san.
— Sarà felice mia figlia con quell'europeo?
— Ho interrogato ieri sera gli astri — rispose l'indovino.
— Sono propizi a Shima?
Invece di rispondere a quella domanda il bon-san continuò:
— Stamane prima dell'alba ho guardato a lungo la cima dell'Oho-Seima e l'ho veduta eruttare fumo più abbondante del solito.
— Che cosa vuoi conchiudere?
— Che quando Roi-gin (dio del tuono) fa udire la sua voce dalla bocca del vulcano...
— Prosegui — disse il daimio.
— Vuol dire che i carni (divinità adorate dai sintoisti giapponesi) non sono lieti del matrimonio di tua figlia.
— Il presagio non è favorevole dunque? — chiese Foyama, con voce angosciata.
— Le nostre divinità, gli astri ed il dio del tuono non sembrano soddisfatti che il più nobile ed il più puro sangue giapponese si unisca con quello di uno straniero. Tu sai, signore, che la guerra rumoreggia sull'orizzonte e che quell'uomo appartiene ad una razza che ha giurato di annichilire l'Impero del Sol Levante.
Il daimio era rimasto muto, con gli occhi fissi a terra, comprimendosi il cuore con una mano. Dalle profonde rughe che gli solcavano in quel momento la fronte, si comprendeva che un'aspra battaglia si combatteva nel suo cervello.
— Sì, — disse poi, con voce sorda, — i nostri mani non devono gradire questa unione ed io lo avevo fatto comprendere a Shima. Quale malìa ha gettato quello straniero nel cuore di mia figlia perché ella debba amarlo così intensamente? Io ho tutto tentato, bon-san, per strapparle quella passione ed ho dovuto convincermi che a nulla sarei riuscito.
— Le figlie devono piegarsi dinanzi alla volontà dei padri — sentenziò l'astrologo.
— Sarebbe morta di dolore. Tu non sai quale cuore abbia Shima. È ben diversa dalle nostre fanciulle; mi sarebbe stato più facile imporre la mia volontà a mio figlio Sakya, che è pur uomo di guerra, che a lei.
Stette un momento silenzioso, passeggiando per la vasta sala, poi disse con voce decisa:
— Sia: i mani talvolta possono ingannarsi; d'altronde è troppo tardi e fra mezz'ora Boris sarà qui a consegnare il regalo di nozze a Shima.
— A quando il matrimonio, signore?
— A domani, a mezzodì.
Battè su un campanello d'argento.
— Distribuisci soki1 in abbondanza ai samorai — disse volgendosi verso un valletto che era accorso alla chiamata, — ringraziali della loro manifestazione e getta al popolo cinquecento nilio.2 I daimio devono mostrarsi generosi.
Si tolse poscia da un dito un anello che aveva incastonato uno smeraldo e porgendolo all'astrologo aggiunse:
— A domani, a mezzodì.
Mentre i servi chiudevano le porte, il daimio salì un superbo scalone di pietra sulla cui balaustrata si vedevano, ad intervalli, collocate le diverse divinità adorate dai giapponesi: Hacimana Soma il dio delle battaglie, Funadama il protettore dei naviganti, Inori il dio del riso, e Coocagami il protettore delle abitazioni, ed entrò in una stanza meravigliosa, divisa da paraventi laccati ed intarsiati di madreperla, ricamati con cicogne e gru trapunte in oro, chiamando ad alta voce:
— Shima! Shima!
Una voce dolcissima come il canto della kayka, quella piccola rana di colore verde oscuro, colle dita delle zampine terminanti in un cuscinetto rotondo e che canta meravigliosamente, meglio ancora e più dolcemente dei nostri canarini, rispose quasi subito:
— Entra, padre.
Foyama si levò le due sciabole, che gettò quasi con dispetto su una leggera sedia di bambù e s'inoltrò fra due paraventi che mostravano sul fondo nero, ricamati in oro, dei nibbi e delle teste, rappresentanti Marisciten, il dio barbuto a tre teste, cogli occhi feroci, con sei braccia armate di spade diverse, a cavalcioni d'un cinghiale, ed entrò in una stanza non troppo vasta, ammobiliata sontuosamente secondo quel gusto bizzarro degli abitanti dell'Estremo Oriente e soprattutto dei sudditi del Sol Levante.
Le pareti erano coperte di arazzi meravigliosi che rappresentavano leoni di Corea, draghi vomitanti fuoco e lune sorridenti, che volevano imitare gli stravaganti, eppure così artistici, disegni del vicino Impero Celeste, impressi sulla carta di seta di Thug. Il pavimento, lucidissimo, rifletteva i dolci bagliori della lampada sospesa al soffitto.
Tutto all'intorno vi erano dei divani piccolissimi in palissandro, con cuscini di seta, dei tavolini lavorati in Jcoro-no-hi, l'ebano dei giapponesi, degli scrigni d'avorio dorato, contenenti delle pallottole e dei vasetti superbi ripieni di profumi esotici.
Nel mezzo, quasi sotto la lampada, una fanciulla d'una bellezza meravigliosa, coperta interamente di un lungo velo di seta bianca, trapunto in oro, stava appoggiata ad uno di quegli enormi vasi istoriati di porcellana autentica, pieni di crisantemi gialli, di una grossezza straordinaria.
Vedendo entrare il daimio lasciò cadere lentamente il velo che la copriva tutta, mostrando la sua meravigliosa bellezza.
Le donne giapponesi sono le più belle della razza mongoloide. Uscite da due razze distinte, da quella malese e da quella asiatica, hanno ereditato ciò che vi era di meglio dell'una e dell'altra e si sono raffinate al punto che gli stranieri le ammirano e le sposano volentieri.
Shima, la figlia del possente daimio, era la perfezione personificata delle due razze. Aveva il sangue ardente e l'energia delle donne malesi e la bellezza plastica delle donne del Celeste Impero.
Mentre i maschi nulla hanno di attraente, al pari degli ebrei marocchini ed algerini, le donne, al pari di quelle, hanno delle sembianze che fanno colpo sugli europei e sugli americani.
Shima, allevata fra gli agi della vita, fra il lusso e le cure di quei grandi signori giapponesi, si poteva considerare come il vero tipo della nobile giapponese, di puro sangue. Non aveva che sedici anni, eppure era stupendamente sviluppata per la sua età. Non alta, di forme squisitamente modellate, con occhi di un nero intenso che nulla avevano di obliquo, con sopracciglia sottili, pelle dai riflessi alabastrini, senza alcuna di quelle sfumature gialle che si riscontrano nelle donne del popolo e che possono forse spiacere a un europeo.
Il suo viso, d'un ovale perfetto, come esigono i pittori del Sol Levante, era d'una perfezione più che naturale, con una boccuccia bellissima, dalle labbra un po' sottili, indizio d'una energia straordinaria, e rosse come le striature delle meravigliose conchiglie di quei mari, con dentini che sembravano granellini di riso, secondo l'espressione di Kaibara, il più grande poeta del Nippon antico, che ha decantato le lodi delle fanciulle del suo paese.
Nell'abbassare il velo, la sua superba capigliatura, nera come l'ala d'un corvo, dai riflessi metallici, si era disciolta intorno ai grossi spilloni d'oro, cadendole sulle spalle ed incorniciandole meravigliosamente la lunga veste di seta azzurra a fiori rossi ed aranciati che le scendeva fino alle babbucce di pelle cremisina, a punta rialzata.
— Che cosa vuoi, padre? — aveva chiesto la fanciulla, che si era fatta pallidissima. — È giunto Boris?
— Non ancora — rispose il daimio, volgendo altrove gli sguardi e facendo un moto d'impazienza. — Quell'uomo pare che si dimentichi che Shima è figlia d'uno dei grandi dell'Impero.
Da pallida, la giovane giapponese era diventata bianca come il fiore candidissimo del loto.
— Non è ancor venuto? — chiese con voce rotta.
— No — rispose bruscamente il daimio. — Sembra che gli stranieri non abbiano mai premura. In vece sua sono giunti i samorai a portarti gli auguri dei nostri antichi vassalli e l'astrologo che deve predire il tuo destino, secondo le nostre costumanze.
— E fu felice, padre?
Foyama, che s'era arrestato dinanzi ad un enorme vaso istoriato come se volesse osservare le varie figure che rappresentavano delle marine sulle cui acque burrascose si vedeva emergere Sui-gen il dio del mare e Midzahanome il dio dei pescatori, si era voltato verso Shima col viso abbuiato.
— I mani che proteggono il Nippon hanno risposto negativamente — rispose con voce ruvida. — La tua felicità è in pericolo.
— Follie! Boris mi ama!
— Lui! Non pensi dunque, Shima, che domani forse la rottura avverrà fra i russi ed i figli del Sol Levante e che quell'uomo diventerà un nostro nemico? Forse che io non te lo avevo detto? Perché io ho cercato di affrettare il tuo matrimonio con lui? Per strappare alla Russia uno dei suoi migliori ufficiali ed impedirgli di rivolgere contro di noi le sue armi, eppure sarei stato più lieto che egli fosse un americano, un inglese, un italiano od un francese piuttosto che un russo. L'hai voluto, sia! I nostri dei però non approvano la tua unione. Gli astri interrogati ieri sera da Nugata hanno risposto negativamente; l'Oho-Seima stamane fumava più del solito e Roi-gin il dio del tuono faceva udire la sua possente voce. Non basta forse? Questi sono tristi presagi.
— Eppure Boris mi ama — rispose la fanciulla.
— Ne sei ben sicura?
— Sì — rispose Shima.
— E se egli approfittasse della guerra imminente per rompere con te ogni relazione? Come noi sentiamo l'amor della patria, supponi tu che quei barbari d'Occidente non provino eguale sentimento? Bada, Shima...! Vedo una sventura piombare sulla nostra casa.
— Egli fra poco sarà qui e si spiegherà. Ormai non può più ritirarsi, padre, e la guerra che tu temi non è ancora scoppiata e forse non scoppierà mai.
Il daimio crollò il capo in segno di dubbio, si accostò ad una porta che metteva su un'ampia terrazza dominante la vasta baia e gettò al di fuori uno sguardo inquieto.
Ad un tratto un grido gli sfuggì.
— Che cos'hai, padre? — chiese Shima con ansietà.
— L'Oho-Seima avvampa!
La fanciulla era diventata nuovamente pallidissima ed era uscita sulla terrazza. La luna che sorgeva in quel momento dietro le nevose vette del Fusi-Yama proiettava i suoi raggi azzurrini sulla vasta baia, facendo scintillare vivamente le acque che una fresca brezza di levante leggermente increspava. All'orizzonte, al di sopra d'una immensa massa nera, che si estendeva verso il sud-est, un pennacchio di fuoco, sormontato da una nuvola di fumo rosseggiante, spiccava vivamente lanciando scintille e cupi bagliori.
— Lo vedi? — chiese il daimio. — Il bon-san non si era ingannato.
La fanciulla non aveva risposto, eppure un tremito scuoteva il lungo velo di seta bianca che si era tirato sulle spalle.
— Quando l'Oho-Seima fiammeggia così, predice una sciagura.
— Forse la guerra — rispose Shima.
— E forse riguarda la tua felicità!
La fanciulla fece col capo un cenno di dubbio, poi si curvò sulla balaustrata, appoggiando il mento sulle mani, mentre il daimio si metteva a passeggiare nervosamente fra gli enormi vasi di peonie fiammeggianti e di crisantemi bellissimi, di grossezza mostruosa e di tutte le tinte.
La folla dei curiosi, dopo la ritirata dei samorai, aveva lasciata la gettata e le lanterne a poco a poco si spegnevano.
Sul porto regnava un profondo silenzio, rotto solo di quando in quando dalla canzone di un battelliere e dai dolci suoni di una stramisun, quelle chitarre dalle corde di seta che sono così usate dai figli del Sol Levante.
In lontananza invece, al di là della Kai-gen-dori (via del mare), s'udiva il sussurrìo prodotto dal grosso della popolazione affollantesi nelle arene, nei teatri notturni e nelle splendide case di thè. Era là che batteva il cuore della popolosa città.
Shima, sempre immersa nei suoi pensieri, taceva. Solo di quando in quando i suoi piedini battevano con moto nervoso le piastrelle di porcellana del terrazzo. Si comprendeva che la fanciulla cominciava ad impazientirsi. Ad un tratto alzò vivamente il capo. Aveva udito rimbombare sui ponti delle navi da guerra i gong che suonavano la ritirata degli equipaggi.
— Le nove — disse — e Boris non è ancora qui. Padre! Che la sciagura annunciata dai fuochi dell'Oho-Seima riguardi me?
Aveva appena pronunciate quelle parole quando si udì il din appeso a fianco della porta mandare un suono metallico.
La fanciulla si era curvata sulla balaustrata, imitata dal daimio. Un uomo, che indossava la divisa di marinaio europeo, aveva salita lestamente la gradinata, consegnando qualche cosa al guardia-portone.
— Il marinaio di Boris! — aveva esclamato la giovane, mentre un pallore cadaverico si diffondeva sul suo bel visino. — Padre! Che il bon-san abbia indovinato? No, non è possibile!
Foyama aveva guardato Shima con spavento. In quel momento un lampo terribile balenava nei suoi occhi.
— Sia maledetto lo straniero che ha rubato il cuore della luce dei miei occhi! — disse.
Un valletto era entrato portando una scatola di legno laccato con fregi d'oro e la cerniera d'argento.
— È il signor Boris, signore, che la manda — disse.
Shima gliela aveva strappata di mano con un gesto brusco. L'aprì, accostandosi ad uno dei palloncini variopinti che illuminavano il terrazzo, facendo cadere al suolo un ricco braccialetto d'oro, adorno di smeraldi e perle che portavano una B ed una S.
— Il regalo di nozze! — esclamò, raccogliendolo. — Ah! Padre! Il bon-san si era ingannato!
In quell'istante s'avvide che entro la scatola vi era pure un bigliettino color di rosa, sormontato da una corona baronale.
— Che cos'è? — chiese il daimio.
— Un biglietto di Boris.
— E lui non viene? Leggi, Shima.
La giovane vi gettò sopra uno sguardo, poi un grido straziante le sfuggì dalle labbra.
Fece due o tre passi indietro, colle mani raggrinzate sul cuore, pallida come una morta.
— Il disonore è piombato sulla casa di Foyama il daimio — singhiozzò. — Miserabile! Miserabile!
Foyama si era impadronito vivamente del biglietto che la fanciulla aveva lasciato cadere. Non conteneva che poche righe:
«Serbate il regalo che v'invio per mio ricordo. La guerra ha diviso per sempre i nostri cuori e più mai li unirà. È il destino».
— Infame Boris! — urlò il vecchio con voce terribile. — Ha disonorato il daimio più potente dell'Impero del Sol Levante!
— E deride mia sorella, — disse in quel momento una voce — e la tradisce. Boris fugge con Naga, la ghesha.