L'eroina di Port Arthur/14. La fuga di Shima

14. La fuga di Shima

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13. Le crociere di Togo 15. L'agguato dei giapponesi

14. LA FUGA DI SHIMA


Durante quelle lunghe settimane, in cui l'ammiraglio Togo, costretto a proteggere i trasporti giapponesi che rovesciavano fitte divisioni di combattenti sulle coste coreane, si era tenuto forzatamente lontano da Port-Arthur, lasciando campo ai russi di meglio prepararsi alla difesa, Yamaga non era stato inattivo. Aveva avuto frequenti colloqui colla ghesha, la quale lo informava minutamente dei progetti russi che ella, con un'abilità sottile, carpiva facilmente a Boris, ed aveva perfino rilevato un piano esattissimo della batteria N. 4, per tentare di liberare Shima, approfittando di qualche circostanza straordinaria. Fino alla ricomparsa della flotta di Togo, i suoi tentativi erano tuttavia riusciti vani per giungere fino alla prigioniera, troppo strettamente sorvegliata dall'ordinanza di Boris.

Rivedendo la squadra, le sue speranze erano rinate.

— Togo tenterà qualche colpo di mano sulla squadra russa ed io ne saprò approfittare — si era detto. — Nella confusione, nessuno si occuperà di me e, vestito da soldato, non mi sarà difficile introdurmi nella batteria e far saltare la polveriera. Diroccate quelle massicce scarpate e rovesciate le muraglie, vedremo chi m'impedirà di raggiungere Shima e di portarmela via.

Aspettava da due giorni, quando la notte del terzo, delle segnalazioni fatte da Sakya per mezzo di razzi, lo avvertirono che Togo stava per tentare il colpo da lunga mano preparato e da lungo tempo atteso dal bravo e coraggioso giapponese. Quello stesso giorno aveva dato appuntamento alla ghesha, avendo appreso che le torpediniere russe, fra le quali la Strakny, dovevano intraprendere una esplorazione in alto mare per prendere contatto colle navi nemiche e sorvegliare le loro mosse.

Naga, che aveva sospettato che vi fosse qualche cosa in aria, da alcune parole sfuggite a Boris e dalla attività straordinaria che regnava nei pressi delle batterie, appena rimasta sola non aveva indugiato a spingersi fino al faro, essendo ormai abbastanza conosciuta per poter andarsene dove meglio le talentava e non ignorando la guarnigione che era la fidanzata del tenente.

Quando vi giunse, trovò Yamaga che stava preparandosi la colazione, nella stanzetta pianterrena.

— Avete qualche cosa da dirmi? — chiese la ghesha, sedendosi su una scranna che il giapponese le offriva.

— Invitarvi innanzi tutto a dividere il mio pasto — disse Yamaga che aveva rinunciato a darle del tu. — Come vedete, questa è cucina pura giapponese e non russa.

— Che ho quasi dimenticata — rispose la ghesha sorridendo.

— Nulla di meglio per accettare l'offerta. Boris non tornerà che molto tardi e forse chissà se questa sera lascerà la sua torpediniera.

— Perché?

— I nostri si preparano a tentare un secondo colpo.

— Di entrare?

— Hum! L'ammiraglio non ha ancora in sua mano il piano delle mine e non sarà così sciocco da far saltare le sue navi. Se avessi potuto farglielo avere, non esiterebbe a cacciarsi anche qui dentro per dare una tremenda battaglia agli avanzi della squadra russa, ma da qualche tempo la sorveglianza dell'avamporto è aumentata e la Morioka non ha potuto accostarsi. Spero tuttavia di consegnarglielo questa sera, se voi m'aiuterete — disse Yamaga, guardandola fissa.

— Come la figlia del gran daimio ha offerta la sua vita per la patria, la povera ghesha non sarà da meno. Che cosa devo fare? Comandate ed io vi obbedirò ciecamente.

— Sì — disse Yamaga, come parlando fra se stesso. — Voi pure dovete essere una brava fanciulla.

— Che cosa devo fare dunque?

— Rimanere a guardia del faro e appena vedrete giungere una delle nostre torpediniere, consegnare a Sakya le carte che vi darò. Lo conoscete il figlio del gran daimio?

— Sì e quantunque non l'abbia veduto che una sola volta me lo ricordo perfettamente.

— Gli consegnerete quelle carte? Vi avverto che sono documenti della più alta importanza che daranno la vittoria ai nostri.

— Ve lo prometto, e che i nostri mani mi maledicano se io mancherò.

— Sta bene.

— E voi, non sarete qui?

— Io ho da occuparmi di Shima.

— La libererete?

— Lo spero.

— In quale modo?

— Facciamo colazione per ora, e riprenderemo più tardi questo discorso.

Aveva gettato una tovaglia di carta di seta su un tavolino, collocandovi sopra dei tondi e due paia di frasi, quei bastoncini d'avorio che presso i giapponesi tengono anche oggidì luogo delle forchette e dei cucchiai, poi servì il riso cucinato semplicemente in acqua insieme ad un cavolo oleifero, dai cui semi si estrae un olio gustoso ed assai apprezzato.

Offrì in seguito alla fanciulla un piatto di pesci lunghi, sottilissimi, che i giapponesi mangiano come biscotti essendo seccati al sole, delle gemme di bambù sciroppate, del cacio di fagiuoli bianchissimo, di un sapore non molto gradevole agli europei e per ultimo due tazze di saki, quel fortissimo liquore estratto dal riso fermentato che i figli del Sol Levante amano bere leggermente tiepido.

— Ora ascoltatemi, fanciulla — disse Yamaga, mentre scaldavasi l'acqua per il thè. — Voi avete misurata bene la distanza che corre fra il deposito delle polveri della batteria N. 4 e la stanza dove si trova rinchiusa Shima?

— Duecentosettanta passi, vi ho detto. Li ho contati attentamente.

— E fra il deposito e la stanza vi sono tre magazzini pieni di provviste?

— Sì.

— Può bastare quella distanza — disse il giapponese. — Ordinariamente non si tengono più di due quintali di polvere nei depositi delle batterie.

— Quali intenzioni avete? — chiese Naga che era diventata leggermente pallida. — Io leggo nei vostri occhi una risoluzione disperata.

— Quando i nostri bombarderanno la piazza, io andrò a dare fuoco al deposito della batteria.

— E non salterete assieme agli artiglieri?

— Mi sono provvisto di una miccia abbastanza lunga per lasciarmi il tempo di mettermi in salvo.

— Vi lasceranno giungere fino al deposito delle munizioni?

— Mi sono provveduto d'un vestito da sergente d'artiglieria e coll'oscurità che regna nelle batterie e colla confusione che vi sarà là dentro, nessuno si prenderà la briga di domandarmi chi sono e dove vado. Sono dodicimila i soldati che si trovano qui e non tutti possono conoscersi.

Tolse da un cassetto una carta e la spiegò mettendola dinanzi alla fanciulla. Era la pianta della batteria, fatta dietro le indicazioni della ghesha, che già tre volte l'aveva visitata con Boris, col pretesto di andar a spiare la sua rivale.

— È questo il corridoio che conduce nella stanza di Shima?

— Sì — rispose la fanciulla.

— Qui vi è la scala?

— E, presso il pianerottolo, la cameretta occupata dall'ordinanza di Boris.

— Benissimo, vi è quell'uomo. Un colpo di rivoltella lo metterà fuori combattimento. Saliamo sulla cupola e vediamo che cosa fanno i nostri compatrioti.

Bevettero il thè, poi si spinsero fin sulla cima della lanterna, guardando attentamente verso il sud.

Le torpediniere russe, guidate dalla Strakny di Boris, perlustravano al largo, eseguendo delle rapide evoluzioni.

A cinque miglia navigava lentamente l'imponente squadra dell'ammiraglio Togo, andando da levante a ponente e viceversa.

— Si preparano — disse Yamaga, che seguiva collo sguardo quelle evoluzioni. — Ah! La vedete quella torpediniera che precede il grosso della nostra squadra?

— Sì, la scorgo.

— È la Morioka guidata da Sakya.

— Siete certo che approfitterà dell'attacco per approdare dinanzi al faro?

— Siamo d'accordo su ciò, con quel bravo ufficiale.

Stettero lassù finché il sole fu tramontato, poi Yamaga discese per indossare la divisa di sergente artigliere e per prendere il piano delle mine subacquee.

— Siete irriconoscibile — disse Naga quando lo vide riapparire sotto la cupola.

— Sfiderò chiunque a sospettare in me il fanalaio del porto — rispose il giapponese sorridendo. — E poi...

Si era improvvisamente interrotto, fissando i suoi sguardi sul mare.

Agli ultimi bagliori del crepuscolo aveva veduto i quattro piroscafi raggiungere ed unirsi alla squadra di Togo.

— Ora comprendo che cosa tenteranno i nostri compatrioti — disse.

— Di attaccare a fondo? — chiese Naga.

— D'imbottigliare, come diciamo noi marinai, la flotta russa, ostruendo la bocca del porto. Potranno quelle navi giungere fin qui? Ecco la gran questione. Siete pronta, Naga?

— A tutto.

— A voi le carte del piano: io corro in città.

Si strinsero la mano ed il giapponese scese, lasciando rapidamente la torre. Una viva agitazione regnava sulle calate. I russi, convinti che Togo tentasse un colpo supremo, si preparavano febbrilmente a tenergli testa. Grossi drappelli di soldati accorrevano da tutte le parti avvicinandosi verso le batterie costiere, mentre le navi riattivavano i fuochi per affrontare gli avversari al primo loro apparire.

Yamaga si trovava già dietro la batteria N. 4, quando i colpi di cannone delle torpediniere russe lo avvertirono che il momento terribile si appressava. L'allarmi era stato dato e le trombe avevano dato il segnale di aprire il fuoco. Un rimbombo spaventevole, continuo, che faceva tremare le case e scoppiare i vetri delle finestre, aveva subito seguito quel comando. Da tutte le batterie i russi sparavano furiosamente contro i piroscafi giapponesi, che dapprima avevano scambiati per incrociatori. La porta della batteria N. 4 era aperta per lasciare entrare i carri delle munizioni che giungevano a gran corsa dalla polveriera più prossima. Yamaga vi si era introdotto senza che alcuno avesse badato a lui, tanto più che indossava la divisa.

Nella batteria regnava una confusione enorme. Urla, comandi, bestemmie s'incrociavano fra detonazioni assordanti che facevano cadere perfino gli uomini addetti al servizio di quei mostruosi pezzi da costa.

Il giapponese si era rapidamente orientato. Attraversò due ridotti che erano pieni di fumo e raggiunse il cortile dove si trovava uno dei depositi delle polveri. Degli uomini uscivano correndo, portando degli obici.

— Lesti, ragazzi — gridò con voce di comando. — Quei cani di giapponesi ci sono addosso. Fate largo a me e spegnete il fanale. Volete farci saltare tutti?

Gettò via la lanterna che un soldato portava e s'introdusse nel deposito. Mezzo minuto dopo usciva, gridando:

— Lesti! Lesti! Non fate mancare gli obici ai pezzi e non riaccendete la lampada. Quei cani tirano a meraviglia e guai se hanno un punto di mira.

Finse di ritornare verso i ridotti, poi, approfittando del momento in cui gli artiglieri correvano verso il deposito, si diresse velocemente verso i magazzini che attraversò di volata.

Aveva già messo la miccia e temeva che le polveri scoppiassero prima di avere il tempo di mettersi in salvo.

Aveva raggiunto l'ultimo corridoio e stava per salire la scala che metteva nelle due stanze occupate da Shima e dall'ordinanza di Boris, quando un lampo illuminò la notte, seguito da una detonazione orrenda e da un urlìo spaventevole.

La spinta dell'aria era stata così violenta, che atterrò di colpo il giapponese, mentre le pareti si fendevano in tutta la loro lunghezza. Rimase alcuni istanti come intontito, porgendo orecchio al crollare delle muraglie, dei ridotti e alle urla dei soldati, poi salì la scala. Un uomo scendeva in quel momento, trascinandosi dietro Shima.

— Signor sergente, che cosa è saltato? — gli gridò il soldato, scorgendolo. — È morto il mio padrone?

— Fuggi! — gli rispose Yamaga. — Tutto crolla intorno a noi. Non vi è qualche uscita qui? Tutto è in fiamme dietro di noi.

— Sì, vi è la porta segreta che serviva al mio tenente.

— Sbrigati — disse Yamaga con tono che non ammetteva replica.

Shima aveva guardato il giapponese ed aveva fatto uno sforzo supremo per trattenere un grido giacché anche sotto la divisa d'artigliere russo lo aveva riconosciuto. L'ordinanza, credendo in buona fede che tutto l'immenso edificio fosse lì lì per crollare, aveva aperta una porticina che metteva su una scala.

La discesa fu fatta precipitosamente, fra ondate di fumo che giungevano dalla parte dei magazzini.

Appena Yamaga si vide fuori, con uno scatto di belva si scagliò sull'ordinanza che gli camminava dinanzi, tenendo sempre la figlia del gran daimio stretta per una mano e con un pugno tremendo, menatogli in una tempia, lo fece cadere mezzo accoppato.

— Mi avete riconosciuto? — chiese a Shima, mentre il povero soldato piombava al suolo.

— Voi siete Yamaga.

— Fuggiamo senza perdere un istante.

La via era libera, d'altronde anche vedendoli correre nessuno poteva pensare ad arrestarli, essendo cominciata l'opera di salvataggio nei dintorni della batteria.

Attraversarono come un lampo una viuzza, passando fra gruppi di soldati che correvano verso i ridotti per salvare i camerati e giunsero sulle ultime calate.

— Il dio della guerra ci protegge — disse Yamaga, arrestandosi un momento per accordare un po' di respiro alla fanciulla. — Non speravo che tutto finisse così bene.

— Grazie, Yamaga — rispose Shima, con voce commossa. — Ero certa che voi mi avreste liberata.

— Basta, signora: alla lanterna. Forse noi troveremo Sakya.

Avevano ripresa la corsa, mentre il cannoneggiamento a poco a poco rallentava d'intensità e si udivano verso l'avamporto delle formidabili detonazioni che annunciavano la fine dei quattro piroscafi.

Dieci minuti dopo giungevano al faro. La ghesha che si trovava sulla cima della prima scogliera, in attesa della Morioka, li aveva già scorti.

— Il piano delle mine? — chiese Yamaga, vedendo delle carte nelle mani della suonatrice.

— La torpediniera del figlio del daimio non ha potuto approdare.

— Maledizione! — ruggì il giapponese.

Poi, con voce più calma, disse:

— Shima è salva e vale in questo momento di più.

Si era voltato.

Le due fanciulle si trovavano l'una fra le braccia dell'altra.

— La patria le unisce — mormorò il giapponese. — Sarà per un'altra volta il successo finale.