L'eroina di Port Arthur/13. Le crociere di Togo

13. Le crociere di Togo

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12. Sulla lanterna di Port-Arthur 14. La fuga di Shima

13. LE CROCIERE DI TOGO


Mentre a Port-Arthur si svolgevano gli avvenimenti narrati, l'ammiraglio Togo, dopo aver ottenuto quel primo successo che aveva messo quasi fuori combattimento quattro delle migliori navi della squadra russa, lasciati alcuni incrociatori ed una squadriglia di torpediniere dinanzi alla piazzaforte, fra cui la Morioka, cominciava quella splendida crociera che doveva più tardi riuscire così fatale all'armata russa.

Padrone ormai del mare, certo di non venire pel momento disturbato, essendo l'altra squadra russa rinchiusa dai ghiacci nel porto freddissimo di Vladivostok, muoveva a tutto vapore verso lo stretto di Corea, onde proteggere lo sbarco dei giapponesi, già concentrati in grosso numero nei porti di Kiù-Siou e pronti ad invadere l'estremo lembo del continente asiatico. Il piccolo Giappone — come lo chiamavano sprezzantemente i russi — con una rapidità meravigliosa si era preparato ad affrontare l'Orso del Nord, e le sue truppe erano pronte, ventiquattro ore dopo l'attacco di Port-Arthur, a varcare lo stretto ed invadere la Corea, prima che i nemici se ne impadronissero, essendo quel barbaro impero il pomo della discordia. Numerosi piroscafi si erano riuniti, e non aspettavano che il mare fosse libero per salpare.

Li aveva ancora trattenuti il pericolo di venire distrutti dal potentissimo incrociatore russo, il Variag, una delle più magnifiche navi nemiche, che si trovava in agguato nel porto di Chemulpo assieme alla cannoniera Corietz. Colla squadra di Togo, ormai non correvano pericolo alcuno, poiché quella era più che sufficiente per proteggerli da qualsiasi attacco. Nondimeno, per maggior sicurezza, l'ammiraglio, mentre col grosso scortava i piroscafi che erano pieni di soldati, aveva staccato una parte delle sue migliori navi per impadronirsi anche di quella formidabile corazzata, affidandone l'incarico al contrammiraglio Uriu, uno dei più esperti uomini di mare che avesse il Giappone.

Ed infatti, la mattina del 10 febbraio, la squadriglia giapponese, composta dalla corazzata Mikasa, e dagli incrociatori Akashi, Takakilo, Nanerva e Chiezoda, e da sette torpediniere, si presentava dinanzi a Chemulpo, intimando alle due navi russe di arrendersi o di uscire dal porto ed accettare la battaglia. Il momento era terribile; nessuna speranza rimaneva ai russi di vincere. Anche passando attraverso la squadra nemica, sarebbero caduti sicuramente fra la squadra di Togo, in aspettativa nello stretto.

Non rimaneva ai russi altro che morire, e vi si prepararono freddamente, con coraggio superbo, destando l'ammirazione della piccola squadra europea, formata dalla corazzata italiana Elba, dalla francese Pascal, dalla americana Viksbury e dall'incrociatore inglese Talbot, colà riuniti per la protezione dei loro consolati.

Alle undici e mezza il Variag usciva coraggiosamente dal porto, fra gli urrah degli equipaggi stranieri, per affrontare le navi giapponesi, seguito a breve distanza dalla cannoniera che non poteva essergli d'alcun aiuto, non essendo protetta e vecchissima.

A bordo dell'incrociatore la musica suonava l'Inno nazionale russo. Era l'ultimo saluto, perché la morte attendeva quei valorosi.

Il Variag mosse rapidamente, filando ventidue nodi all'ora, sulla squadra giapponese che lo attendeva a tre miglia al largo, assaltandola con furore. Ahimè! Aveva dinanzi una muraglia d'acciaio che non poteva in modo alcuno sfondare.

Dopo pochi minuti lo splendido incrociatore riceveva la prima granata che lo colpiva proprio nel mezzo, poi una pioggia di obici gli cadde addosso fracassandogli gli alberi ed i quattro fumaiuoli. Torrenti di fuoco correvano da prora a poppa, causati dall'incessante scoppiare delle enormi granate giapponesi; tuttavia i russi, per cinquantacinque minuti, sostennero intrepidamente l'impari lotta, girando su se stessi per sparare tutti i loro cannoni. Anche la piccola cannoniera faceva del suo meglio, sparando furiosamente, senza che i giapponesi, mossi forse a compassione, le tirassero mai contro per non affondare quei bravi.

All'una e un quarto il Variag, che aveva la coperta e le batterie piene di cadaveri orribilmente mutilati e quasi tutti i cannoni smontati, rientrava nel porto in uno stato miserando.

Ormai tutto era finito ed i giapponesi non avevano più nulla da temere e potevano sbarcare indisturbati i loro soldati.

Attesero che le scialuppe delle navi europee, specialmente quelle dell'italiana Elba, raccogliessero i superstiti, ridotti a poco più di duecento uomini e quasi tutti feriti; poi, mentre la cannoniera saltava in aria ed il Variag ardeva insieme al Sungari — un vapore mercantile russo — sbarcavano, cominciando l'invasione della Corea, le prime truppe, che più tardi dovevano spingersi con alacrità ammirabile per affrontare le forze terrestri russe, concentrate ai confini della Manciuria.

Ventiquattro ore dopo, mentre le truppe entravano senza colpo ferire in Seul, la capitale dell'Impero coreano, ed altre venivano sbarcate dai trasporti su tutte le coste, l'ammiraglio Togo riprendeva il largo con tutta la flotta per raggiungere nuovamente Port-Arthur e possibilmente bloccarvi dentro la flotta russa o sfidarla ad una suprema battaglia.

Quando le navi giunsero nuovamente in vista della piazzaforte, la Morioka, che non aveva mai abbandonate quelle acque, fu la prima ad abbordare la nave ammiraglia.

Sakya, che da tre notti non dormiva quasi più, scambiando sempre segnali col faro, era rapidamente salito sull'Idzumo, in preda ad una vera disperazione. Togo, che nutriva un affetto quasi paterno pel figlio del grande daimio, si era affrettato a muovergli incontro.

— Leggo sul tuo viso, Sakya — gli disse con tono affettuoso — un grande dolore. È tua sorella che ti preoccupa, è vero?

— Sì, ammiraglio — rispose il povero giovine. — Si trova nelle mani dei russi.

La fronte di Togo si era aggrottata.

— E l'hanno fucilata? — gli chiese.

— Yamaga mi ha avvertito, per mezzo di segnali ottici, che pel momento non corre alcun pericolo essendo stata arrestata da Boris.

— Il suo ex-fidanzato?

— Sì, ammiraglio.

— Ciò è grave. Se è stata presa, noi difficilmente potremo avere il piano delle mine subacquee.

— E Yamaga?

— Lui non può lasciare il suo posto. La sua presenza è necessaria, per ora, in Port-Arthur, perché è da lui che aspetto il segnale dell'uscita delle navi russe. Una volta o l'altra si decideranno a prendere il largo, ed io desidero saperlo prima. Se Yamaga lascia il faro, non avremo più segnali.

— Non tenteremo nulla per salvare mia sorella? Se io mi provassi, una notte oscura, a sbarcare con un pugno d'uomini risoluti?

— Non potresti farlo che approfittando della confusione che può cagionare un attacco e per ora non oso spingermi nell'avamporto se non ho in mia mano il piano delle mine. Ci tengo troppo a non perdere le mie navi.

— Rimarremo dunque inoperosi?

— Pazienza, Sakya. Fra poco noi tenteremo di imbottigliare entro il porto le navi russe. A Simonoseki stanno già preparando una flottiglia di grossi piroscafi che serviranno da brulotti. Affiderò a te l'incarico di scortarli e di proteggerli, e, se crederai, approfitterai per vedere Yamaga e consigliarti con lui sul miglior modo per liberare tua sorella.

— Mi lasciate carta libera?

— Interamente, Sakya. Io nulla posso rifiutare ad un valoroso pari tuo, che ha già reso inservibili due delle più poderose navi russe. E poi — aggiunse — chissà che la squadra russa non ti dia prima l'occasione di poterti introdurre in Port-Arthur senza correre alcun serio pericolo.

— Venendo ad affrontarci?

— Ed a farsi distruggere — disse l'ammiraglio. — Va', figlio mio, e non aver fretta. Un giorno Shima sarà libera.

Lo stesso giorno la squadra giapponese faceva una dimostrazione dinanzi a Port-Arthur provocando le navi russe a colpi di cannone, senza ottenere alcun risultato.

I russi, che non avevano ancora potuto rimettere a galla alcuna delle navi torpedinate, non avevano osato accettare la sfida, temendo un secondo disastro.

Pure l'ammiraglio non disperava un giorno o l'altro di sorprenderli, e tutte le notti le sue veloci torpediniere si accostavano in vista del faro per scambiar segnali con Yamaga.

La risposta però era sempre la medesima: «Shima sempre prigioniera; la squadra non pensa ad uscire». Ventiquattro giorni erano così trascorsi, durante i quali, se la squadra giapponese non aveva potuto intraprendere alcunché di serio in causa dell'ostinazione dei russi di non voler cimentarsi, le truppe di terra non avevano invece cessato di avanzarsi, occupando tutte le principali piazze coreane ed addensandosi a poco a poco sulle rive del fiume Yalù.

Nessun serio scontro era avvenuto, salvo qualche scaramuccia; nondimeno tutto indicava che le truppe del Mikado, che aumentavano ogni giorno, si preparavano silenziosamente a dare un cozzo formidabile agli Orsi del Nord, e che Togo, anche da parte sua, preparavasi per un nuovo colpo di testa contro Port-Arthur.

Ed infatti, sette settimane dopo, una sera quattro enormi piroscafi mercantili, pesantemente caricati e montati da un pugno di marinai votatisi spontaneamente alla morte, raggiungevano la squadra di Togo.

Erano le navi che l'ammiraglio attendeva per tentare di ostruire l'avamporto di Arthur, onde impedire per sempre alle corazzate ed agli incrociatori russi di uscire in mare.

Non avendo quei quattro vapori alcun blindaggio che li difendesse dalle granate russe e dovendo esporsi al fuoco incrociato delle batterie e di tutta la squadra nemica, erano stati caricati con cemento onde potessero resistere il più che era possibile.

I loro marinai dovevano affondarli facendo scoppiare le torpedini collocate nella stiva, poi gettarsi a nuoto e tentare di raggiungere le torpediniere che dovevano scortarli.

Per meglio riuscire nell'intento, fu attesa la notte, e non fu che verso le undici, quando maggiore era l'oscurità, essendo calata la nebbia, che le quattro navi, salutate dagli urrah degli equipaggi della flotta, si misero risolutamente in corsa, seguite a breve distanza da sei torpediniere, fra le quali la Morioka, guidata da Sakya in persona.

Il valoroso giapponese aveva già fatto il suo piano e scelti gli uomini che dovevano accompagnarlo.

Egli sperava di poter sbarcare approfittando della confusione che doveva produrre quell'improvviso assalto.

A mezzanotte i quattro piroscafi, che s'avanzavano a tutto vapore, giungevano nella zona luminosa proiettata dai fanali elettrici delle corazzate e degli incrociatori russi.

Si udirono tosto gli allarmi delle sentinelle delle batterie e degli equipaggi. I russi, che già sospettavano un nuovo tentativo da parte dei giapponesi, da parecchie notti si tenevano pronti a respingere gli avversari. Tosto un rimbombo formidabile che acquistava rapidamente maggior intensità, svegliò bruscamente i settemila abitanti di Port-Arthur. Le batterie e le navi avevano aperto un fuoco infernale sulle quattro navi per affondarle prima che potessero gettare le ancore nell'avamporto ed ostruire il passaggio colle loro carcasse. Granate e obici mostruosi cadevano fitti come gragnuola, levando alte fiammate, sventrando i camini, i ponti ed atterrando le alberature, mentre le torpediniere giapponesi rispondevano vigorosamente coi loro piccoli pezzi a tiro rapido per impedire a quelle avversarie di uscire al largo.

— Avanti! Avanti! — aveva gridato Sakya, che si teneva presso il piroscafo più grosso e che manovrava in modo di accostarsi alla lanterna.

Disgraziatamente proprio in quel momento il piroscafo, colpito in pieno da un obice che gli sventrò le caldaie, si piegò bruscamente su un fianco a cinquecento passi dall'avamporto, mentre una fiammata immensa irrompeva dai boccaporti e lanciava in frantumi la coperta assieme ai pochi superstiti. Attratta dal vortice aperto da quella massa enorme e poi respinta dall'ondata immensa, la Morioka fu scaraventata al largo, non ostante le sue macchine funzionassero rabbiosamente e fu una vera fortuna, poiché un momento dopo un altro piroscafo saltava con un frastuono orrendo, mentre gli altri due andavano ad arenarsi sulle scogliere, tutti avvolti fra le fiamme, senza aver potuto raggiungere il loro scopo. Le torpediniere, rimaste scoperte ed impotenti a sostenere il fuoco infernale dei russi, raccolti frettolosamente pochi marinai che si erano gettati in mare prima che le navi saltassero, battevano precipitosamente in ritirata, mentre gli obici facevano rimbalzare l'acqua attorno a loro.

Anche la Morioka, che si era già troppo gravemente esposta e che per un vero miracolo era sfuggita ad un obice scoppiato a breve distanza, fuggiva, essendo stato segnalato dal fanale elettrico della nave ammiraglia, di tornare al largo e Sakya, pur colla morte nel cuore, aveva dovuto obbedire. Le piccole navi erano già quasi fuori di portata dalle artiglierie russe, quando verso il porto interno d'Arthur si vide balenare una fiamma altissima, seguita poco dopo da un rombo spaventevole che durò parecchi secondi. Tutte le torpediniere si erano fermate, essendo il fuoco dei russi quasi subito cessato e tutti gli sguardi si erano volti verso la piazza su cui si vedeva aleggiare una immensa nuvola di fumo rossastro.

— Deve essere saltata qualche polveriera — mormorò Sakya, puntando un cannocchiale. — Aspettiamo qualche comunicazione da parte di Yamaga. Egli ci dirà qualche cosa.

Non essendosi udito più alcun rombo e scorgendo verso l'avamporto dei lumi che indicavano la presenza di navi russe pronte a prendere l'offensiva, la squadriglia giapponese aveva ripresa la corsa, ripiegandosi sulle corazzate e sugli incrociatori.

La Morioka però si era tenuta in vista del faro. Aspettava qualche segnale da parte di Yamaga. Trascorse un'ora, poi due e già Sakya cominciava a disperare, quando vide la luce del faro cambiar colore parecchie volte. Un grido di gioia era sfuggito dalle labbra del figlio del gran daimio. Quella comunicazione ottica aveva segnalato: «Shima è fuggita e si trova presso di me».