L'avvenire!?/Capitolo sedicesimo

Capitolo sedicesimo

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Edward Bellamy - L'avvenire!? (1888)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1891)
Capitolo sedicesimo
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CAPITOLO SEDICESIMO




Quella mattina mi alzai poco prima di colazione. Mentre scendevo le scale, Editta uscì dalla stanza ove era avvenuto quel nostro incontro, del quale parlai in uno dei capitoli precedenti, ed entrò nell’antisala.

«Ah!» esclamò con un’espressione leggiadramente scherzosa, [p. 92 modifica]«volevate di nuovo sguizzar fuori senza essere veduto ed andar a fare una di quelle passeggiate solitarie che vi fanno tanto bene? Ma vedete, questa mattina mi sono alzata presto per voi e vi ho colto sul fatto.»

«Stimate troppo poco l’effetto del vostro rimedio,» dissi, «se credete che un’uscita simile avrebbe ancora conseguenze tanto cattive.»

«Quanto mi dite, mi fa piacere,» replicò ella. «Volevo adornar di fiori la tavola della colazione e vi sentii a discendere: mi parve che il rumore dei vostri passi avesse qualche cosa di furtivo.»

«Mi fate torto,» soggiunsi. «Non pensavo affatto ad uscire.»

A dispetto de’ suoi sforzi, per farmi credere che il nostro incontro era dovuto al caso, mi venne il sospetto, più tardi confermatosi, che quella soave creatura, che aveva assunto una specie di tutela su di me, si fosse alzata più presto, le ultime mattine scorse, per togliermi la possibilità di uscir solo e questo pensiero mi commosse quanto l’altra volta. Ella mi permise di aiutarla a preparare il mazzo di fiori ed io la seguii nella stanza dalla quale dianzi era uscita.

«Siete proprio certo,» mi chiese, «di aver vinto interamente i terribili pensieri che vi tormentavano quella mattina?»

«Non posso dire che non vi siano momenti in cui non abbia pensieri strani;» osservai, «momenti in cui la mia identità personale mi pare una domanda senza risposta. Dopo un’esperienza come la mia, sarebbe troppo il chiedere che io non avessi mai tali pensieri, ma credo che il pericolo sia passato per me di perdere la tramontana, come mi accadde quella mattina».

«Non dimenticherò mai il vostro aspetto turbato» diss’ella.

«Se mi aveste soltanto salvata la vita,» continuai, «potrei forse trovar parole atte ad esprimere la mia riconoscenza, ma voi mi avete salvata la ragione e non v’è parola che possa dire quanto sia grande il mio debito verso di voi». Io era commosso, ma vidi che anche i suoi occhi eran pieni di lagrime.

«Sarebbe un po’ troppo il credere tutto ciò,» disse «ma è assai bello l’ascoltarvi. Io ho fatto ben poco, so però che mi [p. 93 modifica]faceste molta pena. Mio padre dice che, quanto può venir scientificamente spiegato, non deve sorprenderci: così ad esempio il vostro sonno prolungato; ma se provo di figurarmi al vostro posto, mi gira il capo; sento che non potrei sopportare un caso simile.

«A meno che,» soggiunsi «non accadesse anche a voi che un angelo venisse in vostro aiuto».

Se il mio volto espresse i sentimenti che io provavo per quella soave ed amorosa fanciulla, che aveva agito come un angelo con me, ella dovette leggervi la più alta adorazione. Questa espressione, o le mie parole o forse tutto ciò insieme, le fecero abbassar gli occhi arrossendo.

«Dovette essere qualche cosa di sorprendente per voi,» dissi «il vedere tornar in vita un uomo appartenente ad un altro secolo e da tutti creduto morto da più di cent’anni».

«Dapprima ci sembrò che sorpassasse in stranezza ogni descrizione,» disse, «ma poi mettendoci nei vostri panni e cercando di figurarci quanto ciò dovesse sembrar più strano a voi, credo che dimenticammo i nostri pensieri; io, almeno so che feci così. In seguito ciò ne parve assai meno sorprendente, che interessante e commovente, più che qualunque cosa da noi vista sinora».

«Ma non vi par strano di sedere a tavola con me, pensando chi sono?»

«Voi non ci sembrate tanto straniero, come dobbiamo sembrarlo noi a voi,» rispose essa. «Noi apparteniamo ad un avvenire del quale non vi facevate un’idea; ad una generazione della quale non sapevate nulla prima di vederci; ma voi appartenete alla generazione dei nostri avi; di essi noi sappiamo molte cose, e fra essi molti ci furon cari e ne ricordiamo i nomi. Abbiamo studiato il loro modo di vivere e di pensare; nulla di ciò che dite o fate ci sorprende, mentre ciò che noi diciamo e facciamo vi deve parer strano; vedete dunque, signor West, che se sentite che col tempo vi potrete abituare a noi, non vi dovete stupire se fin dal principio non foste per noi completamente straniero». [p. 94 modifica]

«Non ho fatto considerazioni su questo senso,» soggiunsi, «Ciò che dite è verissimo, si può più facilmente guardare indietro mille anni, che avanti cinquanta; un secolo non richiede uno sguardo retrospettivo molto lungo, ed io potrei aver conosciuto i vostri arcavoli. Hanno vissuto in Boston?»

«Io credo».

«Non lo sapete dunque certo?»

«Sì,» rispose essa, «lo credo bene».

«Avevo molte relazioni nella città,» dissi «e non sarebbe improbabile che li avessi conosciuti oppure udito a parlarne. Sarebbe ben interessante, per esempio, s’io potessi raccontarvi qualcosa del vostro arcavolo».

«Interessantissimo».

«Conoscete abbastanza la vostra genealogia, per potermi dire chi fossero i vostri antenati nella Boston de’ miei tempi?»

«Oh sì!»

«E potete nominarmene qualcuno?»

Essa era intenta a mettere in ordine un viticcio ricalcitrante e non rispose subito, quando dei passi sulla scala annunciarono che qualcuno scendeva, ed allora mi disse: «Forse più tardi ve ne nominerò».

Dopo colazione il dottor Leete propose di mostrarmi la casa centrale delle merci, e come esse vi venivano suddivise, cosa che mi aveva già descritto Editta. Lasciando la casa, dissi: «Già da vari giorni io vivo nella vostra casa in rapporti sommamente insoliti e non ho ancora parlato di questa circostanza, dovendo prenderne in considerazione molte altre, ancora più strane; ma ora che comincio a sentire il suolo sotto a’ miei piedi, e so di doverlo calpestare per sempre, voglio parlarne».

«Vi prego» soggiunse il dottor Leete, «di non darvene pensiero, poichè siete un ospite in casa mia, ed ho l’intenzione di avervi per lungo tempo ancora; oltre ciò, malgrado tutta la vostra modestia, dovete riconoscere che un ospite come voi è un acquisto di cui non si cede facilmente il possesso».

«Siete troppo buono, dottore», dissi, «ma sarebbe stoltezza da parte mia il voler essere esageratamente delicato, accettando [p. 95 modifica]l’ospitalità temporanea di un uomo al quale io devo tanta riconoscenza, poichè senza di lui aspetterei ancora adesso, sepolto vivo, la fine del mondo. Se devo diventare un cittadino di questo paese, bisogna ch’io abbia un’occupazione; a’ miei tempi un uomo, nella folla umana non organizzata, sarebbe passato inosservato ed avrebbe potuto procurarsi un posto, a suo piacimento, in qualche luogo; ma oggi ogni uomo è una parte di un sistema ed ha un posto determinato, ed un’attività speciale mentre io sto all’infuori del sistema e non vedo come potrei entrarvi, non essendovi nessun mezzo per ciò, a meno d’esservi noto o figurare come un emigrante d’un altro sistema».

Il dottor Leete rise di cuore e disse: «Confesso che il nostro sistema è imperfetto, poichè non ha previsto un caso simile al vostro; ma nessuno aspettava un accrescimento nel mondo, se non per via naturale; del resto non dovete impensierirvene e, col tempo, vi procureremo un’occupazione. Quantunque non siate in relazione che coi membri della mia famiglia, non credete ch’io abbia tenuto segreta la vostra presenza fra noi, tutt’altro; il vostro caso, prima del risveglio, e più ancora dopo, ha eccitato nella nazione il più profondo interesse, e fu per riguardo al vostro stato nervoso e per il vostro bene, che si pensò lasciarvi esclusivamente alle mie cure, riservandomi con la mia famiglia di darvi un’idea generale del mondo prima di conoscerne gli abitanti. Non si è mai avuto dubbio sull’attività che potreste porre in opera nella società; a pochi è dato di prestare alla nazione il servizio che sarete in grado di offrire voi, quando abbandonerete il mio tetto, cosa alla quale per ora non oso nemmeno di pensare».

«Che cosa posso dunque fare?» domandai. «Credete forse ch’io m’intenda d’affari, ch’io sia un’artista o ch’io possieda una speciale abilità? Vi assicuro, nulla di tutto ciò; nella mia vita non ho mai guadagnato un dollaro, nè mai lavorato un’ora; sono forte e posso diventare un operaio comune, ma niente di più».

«Se fosse questo il miglior servizio che poteste prestare alla nazione, trovereste che tale occupazione è onorevole quanto un’ [p. 96 modifica]altra», osservò il dottor Leete, «ma potete fare qualche cosa di meglio, poichè voi siete, naturalmente, il maestro degli storiografi, riguardo a ciò che concerne il rapporto sociale dell’ultima parte del secolo XIX, e questo per noi è un periodo della storia, eccessivamente interessante; cosicchè, col tempo, quando vi sarete impratichito nelle nostre istituzioni, e vi sentirete disposto ad istruirci su quelle dei vostri tempi, troverete che la cattedra d’un professore, in uno dei nostri istituti, vi conviene perfettamente».

«Benissimo! benissimo!» esclamai, sentendomi, per questa proposta, liberato da un pensiero che cominciava ad inquietarmi seriamente. «Se realmente il secolo XIX ha tante attrative per la gente, ho certamente trovato un’occupazione; credo che nulla vi sia di meglio per guadagnarmi il pane e per un tale ufficio, posso, senza presunzione alcuna, vantarmi di una speciale abilità».