L'arco, che io soglio armar, non è sì frale
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XXV
per lo medesimo
L’arco, che io soglio armar, non è sì frale,
Che per un dardo saettato allenti;
Anzi i secondi accenti,
Che fuor del petto mio spiegano l’ale;
5Più forti andranno, che il cantar primiero
Verso le glorie dell’Orsin guerriero.
A cui fortuna di gran gemme ed oro
Riverite corone ornan la chioma;
Ma per la Fè di Roma
10Suo sangue sparso è sì gentil tesoro,
Che rapina di tempo omai non teme,
E sento invidia, che s’inaspra e freme.
Febo, da’ lampi ardenti, onde sì chiaro
Il carro appar, che per lo ciel governi,
15Degli almi strali eterni,
Contra il mostro crudel vibra l’acciaro;
Guardane il Duce, il cui supremo ardire
Gli sdegni oscuri del Pelide e l’ire.
Che dove per gli Archivi argini immensi
20L’Ettorea destra più cosparse il foco,
Via più si prese in gioco
Il diffuso fumar de’ legni accensi,
E lieto Achille raccogliea le strida,
Onde sonava Simoenta, ed Ida.
25Non tal sull’Istro il Cavalier sublime
Dinanzi appari, che i sette colli onora,
Di cui la fresca Aurora
Fia quasi un aureo Sol fra le mie rime;
Poichè d’acerbe morti al risco espresso,
30Per farsi esempio altrui spronò se stesso.
Invan dell’arte impiagatrici, invano
De’ metalli infocati uscì l’offesa;
Che l’alta anima accesa
Non s’arrestò: ben l’onorata mano
35Ora è costretta a riposar sul petto;
Ma la bella cagion gli fia diletto.
Nocchier, che vele per lo mare ha sparte,
Vento desira a ben fornir sua strada;
Che nasce a cinger spada
40Di gloria ha sete negli orror di Marte,
Alma virtude al sommo Ciel ne mena:
Tesor quaggiuso n’accompagna appena.