L'agiografia di San Laverio del 1162/Capitolo XXII

Capitolo XXII

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Capitolo XXII.

CONTINUA. — VALORE DEI DOCUMENTI.




Dirò innanzi tutto che abbiamo un caposaldo in questo ultimo documento del 1163. La pergamena originale esiste ancora; e l'ho sott’occhi nella copia che io stesso ne ho tratta dall'originale medesimo.

In questo documento il vescovo ò detto solamente Marsicanus episcopus, e la chiesa di Saponara, dinanzi al suo arciprete e al metropolitano di Salerno, è dichiarata subjecta marsicano episcopatui. A questo documento del 1163 risponde conforme l’altro di due lustri prima, cioè del 1152 (n. 8).

Abbiamo, inoltre, un altro caposaldo nella iscrizione, che è fuori di ogni contestazione, del 1131 (n. 6), in cui Enrico è detto Praesul Marsicensis. A questo monumento rispondono conformi le due carte cavesi del 1130 (n. 5), che non parlano altrimenti se non di un «vescovo di Marsico.»

Dunque (io dirò) tutti i documenti intermedii a queste due epoche (1130 e 1163) che dettino diversamente, sono, per lo meno, sospetti. E sospetto è per me il documento del 1144 (n. 7), che non concorda nè con documenti, incontestabili, di un decennio prima cioè del 1130, nè con documenti di un decennio dopo; — e tanto piò sospetto, inquantochè questo documento di men che un decennio dopo, cioè del 1152 (n. 8), si riferisce allo stesso vescovo Giovanni del 1144.

Ritengo, invece, come incontestabile il duplice documento del 1130 (n. 5), perchè esso, circa al punto di questa indagine, è conforme ad un monumento che è fuori di ogni contestazione, quale è l’iscrizione marsicana del 1131 (n. 6).

Dei documenti anteriori al 1130 è mestieri di fare un’altra categoria.

Sette anni prima e non più delle carte del 1130 ci si presenta il documento del 1123 (n. 3) che le contraddirebbe; perchè in [p. 83 modifica]esso è recisamente indicato, così nel corso dell’atto, come nella sottoscrizione, un Leo cpiscopus Grumcntinus, senz’altro titolo.

Or questo documento non é per noi soltanto sospetto; ma non gli prestiamo nessuna autorità, perchè o non è genuino nel suo intero contesto, o non fu esattamente trascritto in tutte le sue parti.

Senza volerci appoggiare alle due volte ripetute affermazioni dell’Ughelli, che questo Leone è detto in certe carte vescovo di Grumento, e in certo altre vescovo di Marsico (ed è il caso di un testimone che alle volte affermasse bianco ed alle volte nero), io osservo che, nel corpo del documento, il vescovo che dona dice: Sacra ecclesiae nostrae S. Georgii autoritate.

Or la chiesa di San Giorgio è titolo della chiesa cattedrale di Morsico (vedi docum. n. 6) o non di Grumento, o di Saponara che fosse. Come dunque spiegare che Marsico avrebbe avuto una cattedrale sua propria, e non avrebbe dato il suo titolo al vescovo? E poiché questo titolo di Marsico1 è già riconosciuto fin dal 1058 nella bolla di Stefano X, come mai cotesto titolo avrebbe potuto essere del tutto omesso in un atto del suo vescovo del 1123? Come spiegare la disformità di quosto atto, sia ai più antichi del 1095 e del 1097, sia all’atto stesso del 1144? In tutti questi documenti la indicazioue, come si è visto, è duplice; se il vescovo è detto sedis grumentine, non si manca però di dirlo altresì, almeno nella sottoscrizione, episcopus marsicanus. E in tutti cotesti documenti è parola di un episcopus sedis grumentine, e non di un episcopus grumentinus, che ha significato di più ampia portata. Come dunque prestar fede ad un unico e reciso titolo di episcopus grumentinus nell’anno 1123, quando Grumento non esisteva più da almeno un secolo e la sede era in Marsico da ottant’anni a un bel circa?

Il documento adunque del 1123, come oggi si legge, non è genuino.

Mi si opporrà che il titolo in quistione del 1123 si trova confermato nell’agiografia potentina di scrittore, si dice, contemporaneo (n. 4). Ma cotcsta contemporaneità doll’agiografia potentina è ben altro che superiore ad ogni sospetto; e occorre di farne parola. [p. 84 modifica]L’agiografia di san Gerardo vuole, ò vero, affermarsi contemporanea ai fatti che essa ricorda; ma non essendo, a dir tutto, che un tessuto di amplificazioni retoriche, ed una trama, assai poco fitta, di luoghi comuni e di generalità campato in aria, l’impronta vera o certa della contemporaneità le fa difetto. È scritta, si dice, da un Manfredi, discepolo al santo che è morto nel 1119; vi si parla della solenne canonizzazione del santo, che egli stesso, il Manfredi, promosse da papa Callisto (a romano pontífice, Callisto nomine, riva voce canoniezatns est) nel 1123 o 1124, che in quest’anno appunto si mori Callisto II. Ora, pur mettendo da parte che nei cataloghi dello canonizzazioni papali, da Callisto II non si trovano ascritti al canone che due soli santi, cioè san Bertoldo vescovo e sant’Ugone abate, vuolsi osservare che il santo potentino sarebbe stato canonizzato in Roma dopo soli quattro anni, o cinque al più, dalla sua morte in Potenza. Cotesto periodo di tempo è, per la brevità sua, così straordinario, che quello sarebbe stato il primo esempio di canonizzazioni solenni innanzi che fosse trascorso il periodo di qualche generazione almeno, o fosse almeno per equipollenza tramutato in espressa canonizzazione il culto di < beato,> già reso all’uomo pio, da tempo immemorabile. Se, dunque, il fatto che si afferma è di per sè sospetto, l’autenticità di chi lo afferma de visu è dubbia o sospetta. E la ragiono del sospetto ingigantisce, quando, considerando alla menzione < contemporanea > del Leo cpiscoims grumentinus, si ricordi che nel 1124 la chiesa grumcntina non esisteva più, non esisteva la marsienna già da lungo tempo. So il titolo dato a Leono fosse duplice, cioè < grumentino e morsicano, > l’incongruenza sarebbe minore; ma improntare il suggello della vita a ciò che più non esiste, o ricusarlo invece a ciò che esiste, non ci conforta gran fatto a riposare sulla fede di chi faccia di tali miracoli. Per me sta dunque che l’agiografia potentina non sia contemporanea ai fatti che racconta, nè sia dell’epoca in cui si dice vissuto il Manfredi scrittore e vescovo, cioè dal 1124 al 1110. [p. 85 modifica]È dessa una vecchia scrittura che ha l’andamento, il colorito retorico e le caratteristiche generali di un’orazione panegirica, di cui conserva manifeste vestigia: scrittura che raccogliendo l’antica tradizione della chiesa potentina, la racconta come avvenuta sotto gli occhi del narratore, perché essa abbia il suggello d’incontestabile autenticità, l’ie frodi e comuni a’ prodotti del cielo leggendario.

Restano i due più antichi documenti del 1095 e del 1097 (n. 1 e 2), secondo i quali il titolo in questione sarebbe di «vescovo della sede grumentina della città di Marsico,» mentre il vescovo stesso, per brevità, sottoscrive solamente «vescovo morsicano.»

Che cosa dobbiamo dire di questi documenti?

Li ronderebbero sospetti, per verità, le considerazioni che seguono, e sono:

1° che la bolla di papa Stefano del 1055 parla unicamente di un vescovo della città di Marsico e non accenna a Grumento;

2° che è antica consuetudine della chiesa romana quella di ritenere i vescovi il titolo delle antiche e soppresse sedi, se queste siano incorporate alla sede loro; e ciò a titolo di onore.

Marsico invece l’avrebbe abbandonata;

3° che ammessa la totale distruzione di Grumento nel socolo IX, non pare probabile ne sopravvivesse il titolo, campato in aria, per oltre un secolo fino alla metà del secolo XI, quando surse il vescovato di Marsico.

Ma queste considerazioni non sono di grande peso; e al minimo soffio vagellano. L’ultima si fonda sulla veridicità appunto degli Atti laveriani; e questa abbiamo dimostrato come sia per sè labile cosa; pure tacendo che la testimonianza del dubbio Cronico Cavese farebbe in piedi la città fino al 1031. La prima considerazione sarebbe di molto peso, e non è; perchè essa trae argomento non già dalla bolla di fondazione della sede marsicana, ma si da una bolla che dà il novero dei suffraganei all’arcivescovo di Salerno. Ora, in questa bolla, il novero essendo dato dalla città nella quale risedeva il vescovo, ognun vede cho la indicazione della «città di Marsico,» mentre è giusta, perchè rispondeva al fatto, non può, nel caso nostro, provare più di quello che materialmente dice. La considerazione dell’antica consue [p. 86 modifica]tudine ha un valore, ma limitato: la consuetudine non è legge, e non esclude nè la possibilità, nè gli esempii in contrario.

D’altra parte, non si vuole dimenticare un argomento estrinseco, ma pure importante; ed è che queste due scritture del 1095 e 1097 non sono uscite dagli archivi della curia di Marsico, ma si dall’archivio della badia di Cava; nella quale non erano altrimenti che titoli di antichi possessi. Quale interesse avrebbe avuto l’antichissimo falsificatore cavese — mettiamo caso — di questi documenti in dare al vescovo il titolo di Sedis Grumentine, quando questo titolo non avesse avuto corso? Come avrebbe potuto egli inventarlo? A che pro l’avrebbe egli inventato, e introdotto in quello stesso documento, ove pure prendeva luogo il titolo più spiccio di episcopus marsicanus? Perchè non avrebbo egli, falsificando, adoperato il titolo vero ed unico di vescovo di Marsico? Sarebbe stata, davvero, la sua una falsificazione assurda, perchè senza scopo, anzi contraria allo scopo che ogni falsificatore ha in mira; che è quello di accreditare l’invenzione postuma sotto le formule o le usanze e il colorito del tempo a cui si riferisce.

So quei due documenti fossero titoli presentati da’ vescovi di Marsico a sostegno di loro fiere contese, di cui parleremo, con la chiesa di Saponara, la falsificazione potrebbe spiegarsi, e sarebbe logica. Ma poiché sono documenti dell’archivio Cavese, e non furono che titoli di antichi possessi, non si può sconoscerne l’importanza obiettiva, relativamente allaquistiono che ci occupa.’

La quale, riassumendo, si trova in mezzo a queste tre categorie di documenti; e sono:

1* documenti di data più recente, che indicano unicamente il titolo di < vescovo Marsicano: >

2* documenti di data intermedia, che indicano unicamente il titolo di < vescovo Grumeutino; >

’ Lo ragioni che abbiamo indicato a favore dei documenti del IfHlTi e i(H>7, non potrebbero valere pel documento, clic è per noi sospetti», del liti (n. 7). Qui il sospetto Ita ragione di essere non già nel titolo di sedis grumentine episcopus; ma nell’epoca di questo titolo, quando, cioè, dai documenti di epoca precedente, si ha ragione di concludere che esso ora abbandonato. — Del resto, anche ritenuto come del tutto genuino il documento del 1141, nulla toglierebbe alle conclusioni che da noi si espongono nel testo. [p. 87 modifica]3° documenti di più antica data, che indicano, allo stesso tempo e nello stesso atto, il titolo di «vescovo della sede grumentina» e quello di «vescovo marsicano,» ovvero di «vescovo della sede grumeutiua dalla (de) città di Morsico» e di «vescovo marsicano.»

A queste tre vuolsi aggiungere:

4° il documento del 1058, onde è nota, la prima volta, la esistenza di un vescovo «nella città di Morsico.»

Eliminando, come poco attendibili, i documenti della seconda categoria, si può spiegare l’esistenza e la successione autentica degli altri documenti con questa congettura che esponiamo al lettore, e che risponderebbe alle inchieste, in complesso, che abbiamo indicato in fronte al capitolo precedente.

Posta la distruzione della città di Grumento nella prima metà del secolo XI (e per questa parte, come già per talune altre, mi è forza di riconoscere un certo valore alle testimonianze del Cronico Cavese) il vescovo ebbe, o, a dir meglio, continuò a prenderò il titolo antico e giuridico «della sede grumentina,» mentre di fatto risiedeva in Marsico; perchè Grumento era desolata o distrutta. Si può ben credere cho la residenza del vescovo in Marsico fosse, in origine, a titolo temporaneo; fino a che l’antica città grumentina non tornasse in piedi, o non tornasse all’antico lare la popolazione dispersa. Ma questa residenza di fatto ebbe non pertanto un certo riconoscimento di diritto fin dal 1058. Con la speranza, come era natural cosa, che la città risorgesse, il vescovo continuò a prendere il titolo giuridico «dalla sede grumentina;» mentre il fatto della residenza a Marsico, prolungata per tempo non breve (e vuol dire per oltre una generazione, relativamente alle carte del 1095), dava vita al titolo dalla città ove egli risiedeva. Così i due titoli, senza contraddiziono o incongruenza, poterono coesistere.2 Ma trascorso un certo periodo di tempo e Giumento non risorgendo, crescendo [p. 88 modifica]invece d’importanza politica la città di Morsico, perchè addivenne sede di principi normanni della famiglia stessa di Roberto Guiscardo o di Ruggiero di Hauteville, era natural cosa che la realtà, in fine, prendesse il disopra della finzione, e cho l’uso vivente vincesse sulla tradizione morta. E dall’uso vivente ebbe a prevalere nel vescovo il titolo dalla città ove risiedeva; che grazie forse all’intervento stesso de’ dinasti di Marsico, ebbe ad essere presto riconfermato, o riconosciuto, dalla superiore potestà ecclesiastica.’

La ipotesi non è storia, lo so; nè questa congettura, a spiegazione di un fatto, vogliamo dare per storia accertata. È forza attendere altri documenti, perchè la luce della storia sia fatta intera.

Per ora, spero il lettore se ne accontenti.

Note

  1. Italia sacra, vol. VII. col. 197-198.
  2. Lo stesso accadde, e, su per giù, nello stesso periodo di tempo ai vescovi di Pesto, che, pure distrutta questa città (come dicono) intorno al 915, continuarono a denominarsi non solo Pantani episcopi puro residendo a Capaccio, ma li si trova detti, in altri documenti, solo Caputaquenses. E pure sempre predominando nella serie dei documenti il primo titolo sul secondo, col correr degli anni (come dice l’Antonini) fu lasciato quello di Pesto e preso quello di Capaccio.» — Vedine le testimoniarne (non però compiute, nè del tutto cernite) nell’Antonini stesso, Lu Lucania, parte II, disc III, pag. 253