L'agiografia di San Laverio del 1162/Capitolo VI

Capitolo VI

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Capitolo V Capitolo VII

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Capitolo VI.

FONTI DELLA LEGGENDA.


Nel prologo alla leggenda lo scrittore dice che si propone di scrivere gli Atti del santo, traendo la materia tam ex vetustis ecclesiæ grumentinæ monumentis, quam ex antiquis Probi scriptis, sancti ecclesiæ presidentis, et successivis traditionibus.

Tre sono dunque le fonti, a cui egli dice di attingere: vetusti monumenti della chiesa grumentina; scritti del prete Probo, e successive tradizioni. Lo tre fonti rispondono alle tre parti, in cui ci è parso ragionevole di dividere il testo degli Atti.

Di questo testo degli Atti, noi intendiamo dimostrare, nel presento lavoro, che la seconda e la terza parte non siano nè scrittura di Roberto diacono, nè opera del secolo XII; ma sì di molto posteriore età. Laonde, chiedendo per ora il benevolo assenso del lettore a questo postulato, diremo che la indicazione delle fonti, nel prologo, secondo le parole di sopra riferite, è una interpolazione posteriore allo scrittore nel secolo XII, — se pure tutto il prologo non sia un cappello nato postumo alla leggenda antica laveriana! Quel prete Probo, che sarebbe vissuto, secondo i computi degli Atti, negli ultimi venticinque anni del secolo IX (e vuol dire uno dei più bui e barbarici periodi del medio evo), quel Probo prete che tramanda ai posteri del secolo XII le sue memorie manoscritte sulle vicende della chiesa a cui serve, e delle reliquie che ha in custodia, sarebbe non impossibile miracolo letterario, per vero dire, ma un sì maraviglioso fenomeno per la caliginosa barbarie dei tempi, che, come fenomeno maraviglioso, sia lecito almeno il dubitarne! E il dubbio non sarà ostinazione di giudizi preconcetti, o leggerezza di critica negativa, chi consideri che parecchio notizie della seconda parte della leggenda (nella quale parte entra in iscena il prete Probo, e però vuolsi supporre che esse siano state cavate dagli scritti suoi) sono invenzioni di tempi moderni; perchè non potrebbero, nella interezza [p. 18 modifica]loro, essere notizie genuine del secolo IX. Questo mostreremo più innanzi. Per ora ci limitiamo a non credere alla esistenza di cotesti < scritti di Probo. > Chi inventò le notizie della seconda parte dell’agiografia, inventò la notizia < delle fonti,> a fine di acquistare autorità obbiettiva alle invenzioni sue.

Quanto alle speciali fonti della prima parte della leggenda, io non so, per verità, quali possono essere stati < i vetusti monumenti della chiesa grumentina. > Non saranno però quei marmi e quelle iscrizioni, che nella chiesa saponarese sono esistiti, come antichi e venerabili monumenti, fino agli ultimi nostri tempi, e che pubblicati alcuni per le stampe da scrittori indigeni1 ed altri inediti ancora, noi riferiremo nel corso di questa scrittura:giacché marmi e monumenti postumi — molto postumi — al fatto che intendevano di ricordare, erano invece cavati essi stessi dall’agiografia medesima di san Laverio. Nè tra i < monumenti vetusti, > anteriori alla scrittura del diacono, si vorrà mettere in conto la iscrizione dei tempi di Costantino Magno, la quale, riassumendo la vita di san Laverio, sarebbe invero fonte precipua al contenuto della leggenda stessa: perchè anche questo antichissimo monumento, nonché dei tempi costantiniani, è di parecchi secoli posteriore allo stesso diacono Roberto!

Lo scrittore del secolo XII ebbe, senza dubbio, dinanzi a sé delle fonti a cui attinse: alcune proprie alla copiosa letteratura agiografica in genere; altre, orali o scritte, più speciali al soggetto della sua scrittura.

La letteratura delle vite dei santi era un genere abbondante, e pressoché unico, nei secoli più inculti del medio evo. Raccolte in libri a penna, che erano detti o passionari, o leggendari, o menologi, non mancavano alle minori chiese di quella età; ed abbondavano presso i cenobi sia dell’ordine di san Benedetto, sia di san Basilio, che furono le grandi officine letterarie, onde esso uscivano e si moltiplicavano. Ma nonché opera o nutrimento allo spirito dei soli chierici, tutta quanta la società no era avida, ne era impregnata: e poiché essa le richiedeva con ardore o con pari ardore rispondeva alla richiesta l’offerta, surse cotesto genere di prodotto letterario per la stessa fecondità sua prodigioso. ________________________________________________

• Roselli F. Saverio e Dei. Monaco G. Antonio, nelle opere sopra citate.

Si potrebbe aggiungere le varie A Utgai ioni di avvocati. [p. 19 modifica]

Erano tempi ferrei per profondo disordine, per lotte, e guerre, e contese, e turbamenti perenni: le anime desiderose di pace non potevano trovarla altrimenti che in erme solitudini, desiderose di giustizia, non potevano che soffrire e pregare, in aspettando il regno de' cieli. Allo slancio dell’anima verso un ideale di giustizia e di pace, che è tanto più intenso bisogno, quanto è men satisfatto nell’ambiente della vita che si respira, rispondeva, conforme ai tempi di pietà, di misticismo e di ingenuità, il ciclo epico della leggenda religiosa. La quale, incarnando appunto un ideale che rispondeva alle corde segrete dell’anima mal paga alle strette della società contemporanea: instaurando, con la sicurezza della fede ingenua, l’armonia tra l’ordine morale e l’ordine reale; redimendo, mercé il premio immancabile eterno, ogni tribolazione sofferta in questa vita, arrecava alle facoltà poetiche dello spirito un alimento che non gli era dato di assaporare in altro luogo, e al senso morale delle anime una soddisfazione che era allo stesso tempo premio e speranza. Di qua fu (avvisa il Guizot) la popolarità e la fecondità prodigiosa della letteratura leggendaria dal secolo V al X secolo.1

A queste cause supreme e generali aggiunsero efficacia condizioni di fatti speciali.

Non è moderno costume delle popolazioni cristiane quello di eleggere, ogni borgo o città, un < patrono > tra i santi in cielo, al quale si celebrino solenni riti anniversari nella chiesa che gli viene dedicata in terra. Il costume, che è antichissimo, si diffuse per la cristianità mercè del doppio concetto di benefizi che il santo patrono apporterebbe non solamente spirituali in cielo, ma temporali in terra. Il concetto della mente addiventava un atto di fede, tutte volte che le reliquie del santo esistessero di fatto nella chiesa della città che lo invocava a presidio.

Di qua il significato e l’energia di quella febbre che durò parecchi secoli e si elevò fino all’insania; per la quale principi e popoli, vescovi e monaci, baroni o mercatanti, servi e cavalieri, artefici o villani ivano in traccia pel mondo di reliquie di santi; e di furto, o di frode, o di forza, o di danaro, o di baratto, come [p. 20 modifica]usa alla guerra o al mercato, le acquistavano, le conquistavano, le trafugavano.

Tale fu per le città, i regni, i principi; tale fu per le chiese, i cenobi, i vescovi. Alle reliquie famose traggono torme di popolo supplichevoli di spirituali conforti, di temporali benefizi; i miracoli, che premiano la fede ingenua, susseguono; la fama no ocheggia lontano; nuove torme affluiscono; ed affluiscono, premio di benefizi ottenuti o sperati, le oblazioni dei popoli. E fu, nella opinione del tempo, onore alla città, al cenobio, alla chiesa il possesso di reliquie preclaro per miracoli insigni; fu nota di inferiorità il non averne. E quando le minori chiese assorgevano a sedi di vescovo, o queste a sedi metropolitiche, la chiesa e il popolo sentivano la necessità di procurare reliquie pari ai nuovi onori cui erano sollevati. La richiesta era viva ed ardente; l’offerta, per legge economica, rispondeva viva del pari. E le rivelazioni in sogno a pie matrone; le estasi di penitenti eremiti; la opportunità di traffici in lontane regioni; la fede ingenua che sposta i monti e arresta i fiumi,provvidero. E qua approdano dall’ultima Brettagna le reliquie de’primissimi apostoli; là trafficanti di città marinare portano, con gli aromi e le stoffe dell* Asia, odorati corpi di martiri; altrove alla marra che scava il solco presso la edicola campestre vien fuori un* arca, e sull’arca è una scritta, e la scritta rivela un santo. La maravigliosa invenzione è un fatto, e lo si vede e si tocca; le popolazioni accorrono e adorano; la chiesa cresce in onore; la città fabbrica più sontuoso tempio; e l’una e l’altra celebrano, con riti solenni e con mercati di commerci e di perdonanze, il ricordo anniversario del ritrovamento miracoloso.

Ora la invenzione, la traslazione e l’onoranza anniversaria alle reliquie de’ santi, erano occasione di fatto, quotidiana o periodica, alla sempre crescente fecondità della letteratura leggendaria. Il grande fatto della invenzione conveniva avesse una storia: la fantasia popolare, percossa dal fatto mirabile, ha già, dal suo fondo inesauribile, creata la materia all’opera che aspetta l’artefice. Il vescovo, l’abate, o il preposto ordina ad uno dei chierici di raccogliere la pia tradizione della chiesa, e di scriverla ad edificazione dei fedeli. E la scrittura fissa la tradizione; la leggenda diventa storia, ma è storia ancor viva e mobile come la leggenda; e la si rinnova, la si vivifica e s’incarna di nuovi

Note

  1. GUIZOT, Histoire de la Civilisation en France, 17 leçon. — La sola collezione di Bolladisti, nei 53 antichi volumi che vanno fino al 14 ottobre, comprende, fanno conto, un 25,000 Vite di santi. Il solo mese di aprile ne contiene, giorno por giorno, non meno di 1472.— IBID., idem.