L'Economico/Capitolo XI
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CAPITOLO XI.
Quindi io dissi, o Iscomaco, della tua donna abbastanza parmi di averti udito ragionare, e cose tali nel vero da meritarne ambedue somma lode; ora adunque parlami delle opere che tu medesimo fai, poichè mi penso che dovrà seguitarne, che tu, ragionando di quello per cui tanto sei tenuto in pregio, dovrai averne diletto, e che io intendendo compiutamente quali esse sieno le opere di un uomo che viene onorato del nome di bello, e buono, e, se pure il potrò, apprendendole, mi ti abbia a riconoscere di molto obbligato. Ma io certo, Iscomaco disse, non ad altro fine ti narrerò assai di buon grado, o Socrate, tutto quello che del continuo vado facendo se non perchè, non parendoti ben fatta alcuna mia operazione, tu mi abbia a correggere. Ma come mai, allora io gli dissi, potrei a ragione correggere chi sa operare quello che si è bello, e buono massimamente sedendomi io un tal uomo che vengo accagionato di non saper dire che ciance, e di andar misurando l’aria, ed oltre a questo, ciò che sembra un difetto il più proprio di uno stolto, sono chiamato un povero. E veramente, o Iscomaco, erami al tutto sgomentato per un tal difetto, se non che scontratomi poc’anzi nel cavallo dello straniero Nicia, vedendo che molti lo seguivano ammirandolo, e udendo che molto si ragionava sopra di quello, io mi feci da vicino al palafreniere, e lo dimandai, se quel cavallo possedeva di molte ricchezze, e quello a me rivoltosi, come se gli avessi fatto una domanda da pazzo: e come credi tu, mi disse, che aver possa un cavallo ricchezze? Allora io rimasi alquanto sollevato udendo come è egli permesso ad un cavallo, sebbene povero, di esser buono, purchè dalla natura sia fornito di buone qualità. Siccome dunque stimo che a me ancora sia permesso di rendermi buono, per ciò narrami tutte 1e tue operazioni, affinchè in ciò, che udendo potrò apprendere, io ponga mano, incominciando dal giorno di domani a ingegnarmi d’imitarti; perchè questo si è appunto per me un tempo ben convenevole per incominciare a farmi virtuoso. Tu ora mi vai deridendo, o Socrate, disse Iscomaco; tuttavia voglio pur narrarti in quali opere, per quanto posso, mi studio di andar conducendo la vita: e poichè parmi di avere appreso, che gli Dei ad uomo giammai non abbiano consentito di essere felice, senza ch’ei ben conosca quello che gli si appartiene di fare, e senza ch‘e‘prenda cura del come questo mandi ad effetto: e che poi fra quelli che saggi sono, e di fare ogni cosa convenevole si adoperano, ad altri concedano la felicità, e ad altri no; prima di tutto incomincio dal far voti, e suppliche ai Numi. Di poi mi studio di conseguire, per quanta le mie preghiere me l’abbiano potuto meritare, e salute, e robustezza di corpo, e riverenza nella città, e benevolenza di amici, e salvezza in guerra senza macchia di viltà, e ricchezza che si vada sempre accrescendo, ma con orrevoli e giusti modi. Questo udendo io, dissi: ti sta dunque a cuore, o Iscomaco, il divenire ricco, e l’acquistarti molte facoltà, onde avere poi per quelle molti pensieri, e molte faccende? Certo, rispose Iscomaco, che al tutto mi sta a cuore ciò, di cui m’interroghi, perchè parmi assai buona cosa il poter onorare sontuosamente gli Dei, il sovvenire gli amici di quello che hanno bisogno, e il provvedere per quanto è in me, che la città non manchi dello splendore delle ricchezze. Veramente, diss’io, tutte queste cose che mi racconti, o Iscomaco, e buone sono, e proprie di una persona, che abbia grande potenza. E come no? Poichè fra gli uomini moltissimi ve n’ha, i quali non possono vivere senza l’altrui soccorso, molti altri i quali sono ben contenti se possono procacciarsi quanto basta a sostenere la vita: coloro poi i quali non solo hanno ciò che si richiede a fornire ai bisogni delle loro case, ma tanto anche gliene sopravanza da adornarne la città, e da soccorrerne gli amici, come non dovranno questi essere riputati di straordinaria, e maravigliosa potenza? Ma siffatte persone a ciascuno è agevole di lodarle: tu poi, o Iscomaco, siegui ora a parlarmi di quello, che avevi già incominciato, come cioè adoperi per aver buona salute, come per renderti robusto, come perchè ti sia consentito di poterti salvare nella guerra senza macchia di viltà; dell‘acquistar poi le ricchezze mi basterà, diss’io, di udirne in ultimo. Ma io avviso, rispose Iscomaco, che queste cose di loro natura si seguitino tutte l‘una appresso l’altra, perchè, avendo di che bastantemente nutrirsi, io fo ragione che colui, il quale si anderà esercitando nella fatica, dovrà anche mantenersi in ottima salute, e la medesima fatica gli acquisterà ancora la robustezza: addestrandosi poi negli esercizii della guerra più agevolmente si potrà salvare senza viltà nelle battaglie: e accostumandosi a prestare ad ogni cosa la convenevole cura, ed a non abbandonarsi all‘ozio, ed alla mollezza, egli si è ben naturale, che la sua casa si vada sempre accrescendo con modi onorevoli. Fino ad un certo punto, diss’io, o Iscomaco, ti ho bene inteso, cioè come tu dici, che quell‘uomo, che si affatica, che ha di tutto diligente cura, e che sa rendersi ben destro, con più di facilità si procaccia egli qualunque sorta di beni: quali poi sieno quelle fatiche, che tu adoperi a mantenerti sano e robusto, e come ti addestri negli esercizii della guerra, e con quali cure ti acquisti tanto copiose ricchezze da giovarne gli amici, e farne onore alla città, questo, diss’io, volontieri intenderei ora da te. Sappi adunque, replicò Iscomaco, che io, o Socrate, sono accostumato levarmi di letto quando ancora sono ben sicuro di trovare in casa qualunque della mia famiglia mi abbisognasse vedere, e se mi occorre di dovere andare per la città a compiere alcuna faccenda io mi vi reco, e frattanto ciò mi serve anche a passeggiare. Se poi niuna necessità io mi abbia di rimanere in città, allora un servo mi conduce innanzi il cavallo alla campagna: a me poi il camminare per la via, che va al mio campo è più piacevole nel vero che l’andar passeggiando innanzi, e indietro nel portico. Di poi quando sono giunto nel campo, quivi, se io ho lavoratori, che o piantino arbori, o rompano il terreno, o seminino, o pure alcun frutto stiano raccogliendo, mi pongo a considerare come queste faccende si facciano, e se conosco che alcuna sia da farsi meglio di quello, ch’essi fanno, di presente la faccio emendare. Appresso per lo più salendo a cavallo mi studio di addestrarmi a quella maniera di cavallerizza, che si richiede nella guerra, mettendomi per le più intricate vie, e non isfuggendo nè rovinose discese, nè profonde fosse, nè di arrampicarmi per le più difficili erte, e questo facendo tuttavia ho cura che non divenga zoppo il cavallo. Dopo tutto questo, il servo fattogli prima dare una volta nella polvere mi riconduce a casa il cavallo, recando insieme dalla campagna quello che per avventura ci abbisognasse nella città: io poi, parte camminando a lento passo, e parte correndo, ritornato a casa mi forbisco dal sudore, e dalla polve, quindi pranzo quanto si richiede, o Socrate, per non avere a passare la giornata nè affatto digiuno, nè troppo sazio. Veramente, o Iscomaco, diss’io, questa tua maniera di vivere assai mi piace, perchè così a un tempo provvedi a mantenerti la sanità, e la robustezza del corpo, e ti addestri agli esercizii della guerra, e attendi a quelle cure, che si richiedono ad acquistare ricchezze, onde tutto quello che tu fai mi pare mirabilissimo, dando ben chiaro a divedere come con ottimo avvedimento ti conduci a conseguire tutto quello, che già dicesti, veggendoti noi per lo più, coll‘aiuto degli Dei, starti sano, e gagliardo della persona, e sapendo che sei annoverato fra i più abili cavallerizzi, e fra quei cittadini, che abbondano di maggiori ricchezze. Eppure, disse, o Socrate, per queste medesime opere vengo da molti vituperato, e tu credi forse che io ti narri quelle cose per le quali sono chiamato bello, e buono. Ma anche di questo era per domandarti, o Iscomaco, se hai avuto alcuna cura per sapere difenderti, ed accusare dove ti avvenga di averne d’uopo. E non ti pare egli, o Socrate, disse, che del continuo vada a questo provvedendo: in quanto al difendermi, non offendendo niuno e giovando a molti il più che posso: in quanto all’accusare, conoscendo come molti facciano ingiuria al privato, molti al pubblico, e niuno poi faccia bene. Ma dimmi,o Iscomaco, diss’io, se ti avviene mai di averti a studiare di fare queste cose anche per via di discorso? Ma non cesso, o Socrate, di andarmi esercitando in così fatti parlari: mentre o udendo qualche mio servo accusare o difendere altri, io lo convinco ch’egli ha il torto, o riprendo, o lodo alcuno alla presenza degli amici, o mi adopero a riconciliare i congiunti parenti, mostrando che loro più giova l’essere amici, che nimici. Sovente poi standoci nell’esercito diamo biasimo ad alcuno dei capitani, o discolpiamo altri di quello, di cui ingiustamente viene accagionato, o accusiamo fra di noi chi viene onorato fuor di ragione. Anche quando consultiamo nel senato, ciò che ci piace che si faccia quello lodiamo, e ciò che non vorremmo che si facesse quello biasimiamo: e già sono stato anche più volte richiesto a comparire in giudizio per essere condannato ad alcuna pena, o multa. E da chi, dissi, o Iscomaco, poichè questo non ho io mai saputo? Dalla mia donna, rispose egli. E come, diss’io, ti sapevi tu difendere? Quando mi giovava di dire il vero, sapeva io difendermi assai bene; quando poi aveva a dire il falso, quel discorso, che si è inferiore no certo, che io non posso, o Socrate, renderlo superiore. Allora io gli dissi: questo forse ti addiviene, perchè il falso tu non puoi renderlo vero.