Juvenilia/Libro IV/La selva primitiva

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LVII.1

LA SELVA PRIMITIVA


. . . . . . . . . . . . . . Fuggendo
Per la gran selva de la terra il nato
De la donna ululò già co’ leoni
A la preda cruenta; indi, con vitto
5Ferin la vita propagando, incerti
Videsi intorno i figli; e lui rendente
De la materia a le vicende eterne
L’immane salma, per lo gran deserto
Dilaceraro i lupi. E tu, febea
10Lampade solitaria entro l’immenso
Radïante, non gemere le vite
Chine su l’opra del crescente pane,
Non danze d’imenei vedesti, e madri

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Veglianti a studio de la culla, e curvi
15De’ pii parenti a’ funerali i figli.
Ma quindi per lo pian stridea la roggia
Alluvïone de’ vulcani, intorno
Funereo lume coruscando; e sempre
Caligavan le cime ardue tonanti;
20E l’oceàn muggiva; e in su l’azzurra
Alpe salían le nuvole fumanti
Da l’oceàno: paurosamente
Minacciavano al ciel roveri negre
Di vastissima ombra quinci; e a l’ombra
25Con lupi urlanti e fere altre la prole
S’accogliea de gli umani. Al picciol uomo
E de la fulva leonessa a i parti
Uno era il nido: al fanciulletto atroce
Era sollazzo provocar li sdegni
30De’ feri alunni, e le crescenti giube
E l’unghie e l’armi de la bocca orrende
Tentar con man pargoleggiante, e lieto
Via contendere a correre co’ pardi.
Ma de l’atro vulcan l’uomo e del fuoco,
35De l’instancabil fuoco, egli temea;
E con rozzo stupor guatava il mare
Immenso. Anche fuggía l’urlo de’ venti
Signoreggiante ne’ boschi; e del tuono,
Che pe’ monti da l’aere ermo rimbomba,
40Chiuso ne le spelonche isbigottiva.
E al suon de la procella, e a l’esultante
Per li templi de l’etra ira de’ nembi,

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E al fulmine stridente, un tremor gelido
Per l’ossa ime gli corse; e s’atterrava,
45E gemea. Lieto del superbo sole
Era, e pensoso il verno aëre ammirava:
Ma piú seduto a lungo in verde zolla
Si compiacea de le virginee stelle.



Note

  1. [p. 284 modifica]Questi versi e gli altri intitolati Omero sono frammenti di un carme che ne’ primi anni meditavo su la poesia greca. E li ristampo, sebbene frammenti, perché sovra essi si fermò più benigno lo sguardo di F. D. Guerrazzi: i linguaioli mi motteggiavano, ed ei giudicò che in questi versi specialmente io mi mostrava sì alunno del Foscolo, ma come Achille che imparava a tender l’arco da Chirone (Rivista contemporanea del 1858). So bene d’esser rimasto inferiore al paragone e al vóto: Quamquam o! — sed superent quibus hoc, Neptune, dedisti.