Venuta adunque la primavera, Niccolò Piccino fu il primo a uscire in campagna; e campeggiò Cignano, castello lontano da Brescia dodici miglia; al soccorso del quale venne il Conte; e tra l’uno e l’altro di quelli capitani, secondo la loro consuetudine, si maneggiava la guerra. E dubitando, il Conte, di Bergamo, andò a campo a Martiningo, castello posto in luogo da potere facilmente, espugnato quello, soccorrere Bergamo; la qual città da Niccolò era gravemente offesa; e perché egli aveva preveduto non potere esser impedito dal nimico se non per la via di Martiningo, aveva quel castello di ogni difesa fornito; tal che al Conte fu necessario andare a quella espugnazione con tutte le forze. Donde che Niccolò, con tutto lo esercito suo, si pose in luogo che gli impediva le vettovaglie al Conte, e con tagliate e bastioni in modo si era affortificato, che il Conte nol poteva, se non con suo manifesto pericolo, assalire; e ridussesi la cosa in termine che lo assediatore era in maggiore pericolo che quelli di Martiningo, che erano assediati. Donde che il Conte non poteva più per la fame campeggiare, né, per il pericolo, poteva levarsi; e si vedeva per il Duca una manifesta vittoria, e per i Viniziani e il Conte una espressa rovina. Ma la fortuna, alla quale non manca modo di aiutare gli amici e disfavorire i nimici, fece in Niccolò Piccino, per la speranza di questa vittoria, crescere tanta ambizione e insolenzia che, non avendo rispetto al Duca né a sé, gli mandò a dire come, avendo militato sotto le sue insegne gran tempo, e non avendo ancora acquistata tanta terra che vi si potesse sotterrare dentro, voleva intendere da lui di quali premii avesse a essere per le sue fatiche premiato, perché in sua potestà era farlo signore di Lombardia e porgli tutti i suoi nimici in mano; e parendogli che d’una certa vittoria ne avesse a nascere certo premio, desiderava gli concedesse la città di Piacenza, acciò, stanco di sì lunga milizia, potesse qualche volta riposarsi. Né si vergognò, in ultimo, minacciare il Duca di lasciare la impresa, quando a questa sua domanda non acconsentisse. Questo modo di domandare ingiurioso e insolente offese tanto il Duca e ne prese tanto sdegno, che deliberò più tosto volere perdere la impresa che consentirlo. E quello che tanti pericoli e tanti minacci di nimici non avevono fatto piegare, gli insolenti modi degli amici piegorono: e deliberò fare lo accordo con il Conte; a cui mandò Antonio Guidobuono da Tortona; e per quello gli offerse la figliuola e le condizioni della pace; le quali cose furono avidamente da lui e da tutti i collegati accettate. E fermi i patti secretamente infra loro, mandò il Duca a comandare a Niccolò che facesse tregua per uno anno con il Conte, mostrando essere tanto con le spese affaticato che non poteva lasciare una certa pace per una dubia vittoria. Restò Niccolò ammirato di questo partito, come quello che non poteva cognoscere qual cagione lo movesse a fuggire sì gloriosa vittoria; e non poteva credere che, per non volere premiare gli amici, e’ volesse e suoi nimici salvare. Per tanto, in quel modo che gli parve migliore, a questa deliberazione si opponeva; tanto che il Duca fu constretto, a volerlo quietare, di minacciarlo che lo darebbe, quando egli non vi acconsentisse, a’ suoi soldati e a’ suoi nimici in preda. Ubbidì adunque Niccolò, non con altro animo che si faccia colui che per forza abbandona gli amici e la patria, dolendosi della sua malvagia sorte; poi che ora la fortuna, ora il Duca, de’ suoi nimici gli toglievono la vittoria. Fatta la triegua, le nozze di madonna Bianca e del Conte si celebrorono; e per dota di quella gli consegnò la città di Cremona. Fatto questo, si fermò la pace, di novembre, nel 1441; dove per i Viniziani Francesco Barbadico e Paulo Trono, e per i Fiorentini messer Agnolo Acciaiuoli convennono, nella quale i Viniziani Peschiera, Asola e Lonato, castella del marchese mantuano, guadagnorono.