Istorie fiorentine/Libro sesto
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Fu sempre, e così è ragionevole che sia, il fine di coloro che muovono una guerra, di arricchire sé e impoverire il nimico; né per altra cagione si cerca la vittoria, né gli acquisti per altro si desiderano, che per fare sé potente e debole lo avversario. Donde ne segue che, qualunque volta o la tua vittoria ti impoverisce o lo acquisto ti indebolisce, conviene si trapassi o non si arrivi a quel termine per il quale le guerre si fanno. Quel principe e quella republica è dalle vittorie nelle guerre arricchito, che spegne i nimici ed è delle prede e delle taglie signore; quello delle vittorie impoverisce, che i nimici, ancora che vinca, non può spegnere, e le prede e le taglie, non a lui, ma a i suoi soldati appartengono. Questo tale è nelle perdite infelice e nelle vittorie infelicissimo, perché, perdendo, quelle ingiurie sopporta che gli fanno i nimici; vincendo, quelle che gli fanno gli amici; le quali, per essere meno ragionevoli, sono meno sopportabili, veggendo massime essere i suoi sudditi con taglie e nuove offese di raggravare necessitato; e se gli ha in sé alcuna umanità, non si può di quella vittoria interamente rallegrare, della quale tutti i suoi sudditi si contristono. Solevono le antiche e bene ordinate republiche, nelle vittorie loro, riempiere d’oro e d’ariento lo erario, distribuire doni nel popolo, rimettere a’ sudditi i tributi, e con giuochi e con solenne feste festeggiarli; ma quelle di quelli tempi che noi descriviamo, prima votavono lo erario, di poi impoverivano il popolo, e de’ nimici tuoi non ti assicuravano. Il che tutto nasceva da il disordine con il quale quelle guerre si trattavano: perché, spogliandosi i nimici vinti, e non si ritenendo né ammazzando, tanto quelli a riassalire il vincitore differivono, quanto ei penavano da chi gli conduceva d’essere d’arme e cavagli riforniti. Sendo ancora le taglie e la preda de’ soldati, i principi vincitori di quelle nelle nuove spese de’ nuovi soldi non si valevano, ma delle viscere de’ loro popoli gli traevono, né partoriva altro la vittoria, in benifizio de’ popoli, se non che la faceva il principe più sollecito e meno respettivo ad aggravargli. E a tale quelli soldati avevono la guerra condotta, che ugualmente al vincitore e al vinto, a volere potere alle sue genti comandare, nuovi danari bisognavano, perché l’uno aveva a rivestirgli, l’altro a premiargli; e come quelli sanza essere rimessi a cavallo non potevano, così quelli altri sanza nuovi premi combattere non volevano. Di qui nasceva che l’uno godeva poco la vittoria, l’altro poco sentiva la perdita; perché il vinto era a tempo a rifarsi, e il vittorioso non era a tempo a seguire la vittoria.
Questo disordine e perverso modo di milizia fece che Niccolò Piccino era prima rimontato a cavallo, che si sapesse per Italia la sua rovina; e maggiore guerra faceva dopo la perdita al nimico, che prima non aveva fatta. Questo fece che, dopo la rotta di Tenna, e’ potette occupare Verona; questo fece che, spogliato delle sue genti a Verona, e’ potette venire con un grosso esercito in Toscana; questo fece che, rotto ad Anghiari, innanzi che pervenisse in Romagna, era in su i campi più potente che prima, e potette riempiere il Duca di Milano di speranza di potere difendere la Lombardia, la quale per la sua assenzia gli pareva quasi che avere perduta. Perché, mentre che Niccolò riempiva di tumulti la Toscana, il Duca si era ridotto in termine che dubitava dello stato suo; e giudicando che potesse prima seguire la rovina sua, che Niccolò Piccino il quale aveva richiamato, fusse venuto a soccorrerlo, per frenare l’impeto del Conte e temporeggiare quella fortuna con la industria, la quale non poteva con la forza sostenere, ricorse a quelli remedi i quali in simili termini molte volte gli erano giovati; e mandò Niccolò da Esti principe di Ferrara a Peschiera, dove era il Conte. Il quale per parte sua lo confortò alla pace, e gli mostrò come al Conte non era quella guerra a proposito: perché, se il Duca si indeboliva in modo che non potesse mantenere la reputazione sua, sarebbe egli il primo che ne patirebbe, perché da’ Viniziani e Fiorentini non sarebbe più stimato. E in fede che il Duca desiderava la pace, gli offerse la conclusione del parentado: e manderebbe la figliuola a Ferrara; la quale gli prometteva, seguita la pace, dargli nelle mani. Il Conte rispose che se il Duca veramente cercassi la pace, facilmente la troverrebbe, come cosa dai Fiorentini e Viniziani desiderata: vero era che con difficultà se gli poteva credere conosciuto che non abbi mai fatto pace se non per necessità, la quale come manca, gli ritorna la voglia della guerra; ne anche al suo parentado si poteva prestare fede, sendone stato tante volte beffato non di meno, quando la pace si concludessi, farebbe poi del parentado quanto dagli amici fusse consigliato.
I Viniziani, i quali de’ loro soldati nelle cose ancora non ragionevoli sospettono, presono ragionevolmente di queste pratiche sospetto grandissimo; il quale volendo il Conte cancellare, seguiva la guerra gagliardamente. Non di meno l’animo, a lui per ambizione e a’ Viniziani per sospetto, era in modo intepidito, che quello restante della state si ferono poche imprese; in modo che, tornato Niccolò Piccino in Lombardia, e di già cominciato il verno, tutti gli eserciti ne andorono alle stanze: il Conte in Verona, in Cremona il Duca, le genti fiorentine in Toscana, e quelle del Papa in Romagna. Le quali, poi che ebbono vinto ad Anghiari, assaltorono Furlì e Bologna, per trarle di mano a Francesco Piccinino, che in nome del padre le governava; e non riuscì loro, perché furono da Francesco gagliardamente difese. Non di meno questa loro venuta dette tanto spavento ai Ravennati di non tornare sotto lo imperio della Chiesa, che, d’accordo con Ostasio di Polenta loro signore, si missero nella potestà de’ Viniziani; i quali, in guidardone della ricevuta terra, acciò che per alcun tempo Ostasio non potesse loro per forza torre quello che per poca prudenzia aveva loro dato, lo mandarono, insieme con un suo figliuolo, a morire in Candia. Nelle quali imprese, non ostante la vittoria di Anghiari, mancando al Papa danari vendé il castello del Borgo a Santo Sipolcro venticinquemila ducati, a’ Fiorentini. Stando per tanto le cose in questi termini, e parendo a ciascuno, mediante la vernata, essere sicuro della guerra, non si pensava più alla pace; e massime il Duca, per essere da Niccolò Piccino e dalla stagione rassicurato. E per ciò aveva rotto con il Conte ogni ragionamento d’accordo, e con grande diligenzia rimisse Niccolò a cavallo; e faceva qualunque altro provedimento che per una futura guerra si richiedeva. Della qual cosa avendo notizia il Conte, ne andò a Vinegia, per consigliarsi con quel Senato come per lo anno futuro si avessero a governare. Niccolò dall’altra parte, trovandosi in ordine, e vedendo il nimico disordinato, non aspettò che venisse la primavera; e nel più freddo verno passò l’Adda, e entrò nel Bresciano, e tutto quel paese, fuora che Asola e Orci, occupò; dove più che dumila cavalli sforzeschi, i quali questo assalto non aspettavano, svaligiò e prese. Ma quello che più dispiacque al Conte e più sbigottì i Viniziani fu che Ciarpellone, uno de’ primi capitani del Conte, si ribellò da lui. Il Conte, avuto questo avviso, partì subito da Vinegia, e arrivato a Brescia trovò Niccolò, fatto quelli danni, essersi ritornato alle stanze; donde che al Conte non parve, poi che trovò la guerra spenta, di raccenderla; ma volle, poi che il tempo e il nimico gli davano commodità a riordinarsi, usarla, per potere poi, con il nuovo tempo, vendicarsi delle vecchie offese. Fece adunque che i Viniziani richiamassero le genti che in Toscana servivono a’ Fiorentini, e in luogo di Gattamelata morto, volle che Micheletto Attendulo conducessero.
Venuta adunque la primavera, Niccolò Piccino fu il primo a uscire in campagna; e campeggiò Cignano, castello lontano da Brescia dodici miglia; al soccorso del quale venne il Conte; e tra l’uno e l’altro di quelli capitani, secondo la loro consuetudine, si maneggiava la guerra. E dubitando, il Conte, di Bergamo, andò a campo a Martiningo, castello posto in luogo da potere facilmente, espugnato quello, soccorrere Bergamo; la qual città da Niccolò era gravemente offesa; e perché egli aveva preveduto non potere esser impedito dal nimico se non per la via di Martiningo, aveva quel castello di ogni difesa fornito; tal che al Conte fu necessario andare a quella espugnazione con tutte le forze. Donde che Niccolò, con tutto lo esercito suo, si pose in luogo che gli impediva le vettovaglie al Conte, e con tagliate e bastioni in modo si era affortificato, che il Conte nol poteva, se non con suo manifesto pericolo, assalire; e ridussesi la cosa in termine che lo assediatore era in maggiore pericolo che quelli di Martiningo, che erano assediati. Donde che il Conte non poteva più per la fame campeggiare, né, per il pericolo, poteva levarsi; e si vedeva per il Duca una manifesta vittoria, e per i Viniziani e il Conte una espressa rovina. Ma la fortuna, alla quale non manca modo di aiutare gli amici e disfavorire i nimici, fece in Niccolò Piccino, per la speranza di questa vittoria, crescere tanta ambizione e insolenzia che, non avendo rispetto al Duca né a sé, gli mandò a dire come, avendo militato sotto le sue insegne gran tempo, e non avendo ancora acquistata tanta terra che vi si potesse sotterrare dentro, voleva intendere da lui di quali premii avesse a essere per le sue fatiche premiato, perché in sua potestà era farlo signore di Lombardia e porgli tutti i suoi nimici in mano; e parendogli che d’una certa vittoria ne avesse a nascere certo premio, desiderava gli concedesse la città di Piacenza, acciò, stanco di sì lunga milizia, potesse qualche volta riposarsi. Né si vergognò, in ultimo, minacciare il Duca di lasciare la impresa, quando a questa sua domanda non acconsentisse. Questo modo di domandare ingiurioso e insolente offese tanto il Duca e ne prese tanto sdegno, che deliberò più tosto volere perdere la impresa che consentirlo. E quello che tanti pericoli e tanti minacci di nimici non avevono fatto piegare, gli insolenti modi degli amici piegorono: e deliberò fare lo accordo con il Conte; a cui mandò Antonio Guidobuono da Tortona; e per quello gli offerse la figliuola e le condizioni della pace; le quali cose furono avidamente da lui e da tutti i collegati accettate. E fermi i patti secretamente infra loro, mandò il Duca a comandare a Niccolò che facesse tregua per uno anno con il Conte, mostrando essere tanto con le spese affaticato che non poteva lasciare una certa pace per una dubia vittoria. Restò Niccolò ammirato di questo partito, come quello che non poteva cognoscere qual cagione lo movesse a fuggire sì gloriosa vittoria; e non poteva credere che, per non volere premiare gli amici, e’ volesse e suoi nimici salvare. Per tanto, in quel modo che gli parve migliore, a questa deliberazione si opponeva; tanto che il Duca fu constretto, a volerlo quietare, di minacciarlo che lo darebbe, quando egli non vi acconsentisse, a’ suoi soldati e a’ suoi nimici in preda. Ubbidì adunque Niccolò, non con altro animo che si faccia colui che per forza abbandona gli amici e la patria, dolendosi della sua malvagia sorte; poi che ora la fortuna, ora il Duca, de’ suoi nimici gli toglievono la vittoria. Fatta la triegua, le nozze di madonna Bianca e del Conte si celebrorono; e per dota di quella gli consegnò la città di Cremona. Fatto questo, si fermò la pace, di novembre, nel 1441; dove per i Viniziani Francesco Barbadico e Paulo Trono, e per i Fiorentini messer Agnolo Acciaiuoli convennono, nella quale i Viniziani Peschiera, Asola e Lonato, castella del marchese mantuano, guadagnorono.
Ferma la guerra in Lombardia, restavano le armi del Regno; le quali, non si potendo quietare, furono cagione che di nuovo in Lombardia si ripigliassero. Era il re Rinato da Alfonso di Ragona stato spogliato, mentre la guerra di Lombardia si travagliava di tutto il reame eccetto che di Napoli, tale che Alfonso parendogli avere la vittoria in mano, deliberò, mentre assediava Napoli, torre al Conte Benevento e gli altri suoi stati che in quelle circunstanze possedeva; perché giudicava questo fatto potergli sanza suo periculo riuscire, sendo il Conte nelle guerre di Lombardia occupato. Successe ad Alfonso per tanto facilmente questa impresa; e con poca fatica tutte quelle terre occupò; ma venuta la nuova della pace di Lombardia, Alfonso temé che il Conte non venisse, per le sue terre, in favore di Rinato, e Rinato sperò per le medesime cagioni in quello. Mandò per tanto Rinato a sollecitare il Conte, pregandolo che venisse a soccorrere uno amico e d’uno nimico a vendicarsi. Dall’altra parte Alfonso pregava Filippo che dovesse, per la amicizia aveva seco fare dare al Conte tanti affanni che, occupato in maggiori imprese, fusse di lasciare quella necessitato. Accettò Filippo questo invito, sanza pensare che turbava quella pace la quale poco davanti aveva con tanto suo disavantaggio fatta. Fece per tanto intendere a papa Eugenio come allora era tempo di riavere quelle terre che il Conte, della Chiesa, ocupava; e a questo fare gli offerse Niccolò Piccino pagato mentre che la guerra durasse; il quale, fatta la pace, si stava con le sue genti in Romagna. Prese Eugenio cupidamente questo consiglio, per lo odio teneva con il Conte e per il desiderio aveva di riavere il suo; e se altra volta fu con questa medesima speranza da Niccolò ingannato, credeva ora, intervenendoci il Duca, non potere dubitare di inganno; e accozzate le genti con quelle di Niccolò, assalì la Marca. Il Conte, percosso da sì inopinato assalto, fatto testa delle sue genti, andò contro al nimico. In questo mezzo il re Alfonso occupò Napoli; donde che tutto quel regno, eccetto Castelnuovo, venne in sua potestà. Lasciato per tanto Rinato, in Castelnuovo, buona guardia, si partì; e venuto a Firenze, fu onoratissimamente ricevuto; dove stato pochi giorni, veduto non potere fare più guerra se ne andò a Marsilia. Alfonso, in questo mezzo, aveva preso Castelnuovo, e il Conte si trovava, nella Marca, inferiore al Papa e a Niccolò; per ciò ricorse a’ Viniziani e Fiorentini per aiuti di gente e di danari, mostrando che, se allora ei non pensavano di frenare il Papa e il Re, mentre che gli era ancora vivo, ch’eglino arebbono, poco di poi, a pensare alla salute propria, perché si accosterebbono con Filippo, e dividerebbonsi la Italia. Stettono i Fiorentini e i Viniziani un tempo sospesi, sì per non giudicare se si era bene inimicarsi con il Papa e con il Re, sì per trovarsi occupati nelle cose de’ Bolognesi. Aveva Annibale Bentivogli cacciato di quella città Francesco Piccinino, e per potersi defendere dal Duca, che favoriva Francesco, aveva a’ Viniziani e Fiorentini domandato aiuto; e quelli non gliene avieno negato; in modo che, essendo in queste imprese occupati, non potevono resolversi ad aiutare il Conte. Ma sendo seguito che Annibale aveva rotto Francesco Piccinino, e parendo quelle cose posate, deliberorono i Fiorentini suvvenire al Conte; ma prima, per assicurarsi del Duca, rinnovorono la lega con quello. Da che il Duca non si discostò, come colui che aveva consentito si facesse guerra al Conte mentre che il re Rinato era in su l’armi, ma vedutolo spento e privo in tutto del Regno, non gli piaceva che il Conte fusse de’ suoi stati spogliato e per ciò, non solamente consentì agli aiuti del Conte, ma scrisse ad Alfonso che fusse contento di tornarsi nel Regno e non gli fare più guerra. E benché da Alfonso questo fusse fatto mal volentieri, non di meno, per gli oblighi aveva con il Duca, deliberò sodisfargli, e si tirò con le genti di là dal Tronto.
Mentre che in Romagna le cose secondo questo ordine si travagliavano, non stettono i Fiorentini quieti infra loro. Era in Firenze, intra i cittadini reputati nel governo, Neri di Gino Capponi, della cui reputazione Cosimo de’ Medici più che di alcuno altro temeva, perché al credito grande che gli aveva nella città, quello che gli aveva con i soldati si aggiugneva; perché, essendo stato molte volte capo degli eserciti fiorentini, se li aveva, con la virtù e con i meriti guadagnati. Oltre a di questo, la memoria delle vittorie che da lui e da Gino suo padre si ricognoscevano (avendo questo espugnata Pisa, e quello vinto Niccolò Piccino ad Anghiari) lo faceva amare da molti e temere da quelli che desideravono non avere nel governo compagnia Intra molti altri capi dello esercito fiorentino era Baldaccio di Anghiari, uomo in guerra eccellentissimo, perché in quelli tempi non era alcuno, in Italia, che di virtù di corpo e d’animo lo superassi; e aveva intra le fanterie, perché di quelle sempre era stato capo, tanta reputazione che ogni uomo existimava che con quello in ogni impresa e a ogni sua volontà converrebbono. Era Baldaccio amicissimo a Neri, come quello che per le sue virtù, delle quali era sempre stato testimone, lo amava; il che arrecava agli altri cittadini sospetto grandissimo. E giudicando che fussi il lasciarlo pericoloso e il tenerlo pericolosissimo, deliberorono di spegnerlo. Al quale loro pensiero fu in questo la fortuna favorevole: era gonfaloniere di giustizia messer Bartolomeo Orlandini: costui, sendo mandato alla guardia di Marradi quando, come di sopra dicemmo, Niccolò Piccino passò in Toscana, vilmente se ne era fuggito, e aveva abbandonato quel passo che per sua natura quasi si difendeva; dispiacque tanta viltà a Baldaccio, e con parole ingiuriose e con lettere fece noto il poco animo di costui: di che messer Bartolomeo ebbe vergogna e dispiacere grande; e sommamente desiderava vendicarsene, pensando di potere, con la morte dello accusatore, la infamia delle sue colpe cancellare.
Questo desiderio di messer Bartolomeo era dagli altri cittadini cognosciuto, tanto che, sanza molta fatica, che dovesse spegnere quello gli persuasono e a un tratto sé della ingiuria vendicasse e lo stato da uno uomo liberasse che bisognava o con pericolo nutrirlo, o licenziarlo con danno. Fatta per tanto Bartolomeo deliberazione di ammazzarlo, rinchiuse nella camera sua molti giovani armati, ed essendo Baldaccio venuto in Piazza, dove ciascun giorno veniva a trattare con i magistrati della sua condotta, mandò il Gonfaloniere per lui, il quale, sanza alcuno sospetto, ubbidì. A cui il Gonfaloniere si fece incontro, e con seco per lo andito, lungo le camere de’ Signori, della sua condotta ragionando, dua o tre volte passeggiò. Di poi, quando gli parve tempo, sendo pervenuto propinquo alla camera che gli armati nascondeva, fece loro il cenno. I quali saltorono fuora, e quello trovato solo e disarmato ammazzorono, e così morto per la finestra che del Palagio in Dogana risponde, gittorono, e di quivi, portatolo in Piazza, e tagliatogli il capo, per tutto il giorno a tutto il popolo spettaculo ne feciono. Rimase di costui uno solo figliuolo, che Annalena sua donna pochi anni davanti gli aveva partorito, il quale non molto tempo visse. E restata Annalena priva del figliuolo e del marito, non volle più con altro uomo accompagnarsi; e fatto delle sue case uno munistero, con molte nobili donne che con lei convennono si rinchiuse, dove santamente morì e visse. La cui memoria, per il munistero creato e nomato da lei, come al presente vive, così viverà sempre. Questo fatto abbassò, in parte, la potenza di Neri, e tolsegli reputazione e amici. Né bastò questo a’ cittadini, dello stato, perché, sendo già passati dieci anni dopo il principio dello stato loro, ed essendo la autorità della balia finita, e pigliando molti con il parlare e con le opere più animo che non si richiedeva, giudicorono i capi dello stato che, a non volere perdere quello, fussi necessario ripigliarlo, dando di nuovo autorità agli amici e li nimici battendo. E per ciò, nel 1444, creorono, per i Consigli, nuova balia; la quale riformò gli ufici, dette autorità a pochi di potere creare la Signoria; rinnovò la Cancelleria delle riformazioni, privandone ser Filippo Peruzzi e a quella preponendo uno che secondo il parere de’ potenti si governassi; prolungò il tempo de’ confini a’ confinati, pose Giovanni di Simone Vespucci nelle carcere; privò degli onori gli accoppiatori dello stato nimico, e con quelli i figliuoli di Piero Baroncelli, tutti i Serragli, Bartolomeo Fortini, messer Francesco Castellani e molti altri. E con questi modi a sé renderono autorità e reputazione, e a’ nimici e sospetti tolsono l’orgoglio.
Fermo così e ripreso lo stato, si volsono alle cose di fuora. Era Niccolò Piccino, come di sopra dicemmo, stato abbandonato da il re Alfonso, e il Conte, per lo aiuto che da’ Fiorentini aveva avuto, era diventato potente; donde che quello assalì Niccolò presso a Fermo, e quello ruppe di modo che Niccolò, privato quasi di tutte le sue genti, con pochi si rifuggì in Montecchio; dove si fortificò e difese tanto che in breve tempo tutte le sue genti gli tornorono apresso, e in tanto numero che potette facilmente difendersi dal Conte sendo massimamente di già venuto il verno, per il quale furono quelli capitani constretti mandare le loro genti alle stanze. Niccolò attese tutta la vernata ad ingrossare lo esercito, e da il Papa e da il re Alfonso fu aiutato, tanto che, venuta la primavera, si ridussono quelli capitani alla campagna; dove, essendo Niccolò superiore, era condotto il Conte in estrema necessità; e sarebbe stato vinto, se da il Duca non fussino stati a Niccolò i suoi disegni rotti. Mandò Filippo a pregare quello che subito andassi a lui, perché gli aveva a parlare di bocca di cose importantissime. Donde che Niccolò, cupido di intenderle, abbandonò per uno incerto bene una certa vittoria; e lasciato Francesco suo figliuolo capo dello esercito, se ne andò a Milano. Il che sentendo il Conte, non volse perdere la occasione del combattere mentre che Niccolò era assente e venuto alla zuffa propinquo al castello di Monte Loro, ruppe le genti di Niccolò, e Francesco prese Niccolò, arrivato a Milano, e vedutosi aggirato da Filippo, e intesa la rotta e la presa del figliuolo, per dolore morì. l’anno 1445, di età di sessantaquattro anni; stato più virtuoso che felice capitano. E di lui restorono Francesco e Iacopo, i quali ebbono meno virtù e più cattiva fortuna del padre; tanto che queste armi braccesche quasi che si spensero e le sforzesche, sempre dalla fortuna aiutate, diventorono più gloriose. Il Papa, vedendo battuto lo esercito di Niccolò e lui morto, né sperando molto negli aiuti di Ragona, cercò la pace con il Conte; e per il mezzo de’ Fiorentini si conchiuse. Nella quale al Papa, delle terre della Marca, Osimo Fabriano e Ricanati restorono: tutto il restante sotto lo imperio del Conte rimase.
Seguita la pace nella Marca, sarebbe tutta Italia pacificata, se dai Bolognesi non fusse stata turbata. Erano in Bologna due potentissime famiglie, Canneschi e Bentivogli: di questi era capo Annibale, di quelli Batista. Avevano, per meglio potersi l’uno dell’altro fidare, contratto intra loro parentado; ma infra gli uomini che aspirano ad una medesima grandezza si può facilmente fare parentado, ma non amicizia. Era Bologna in lega con i Fiorentini e Viniziani la quale, mediante Annibale Bentivogli, dopo che ne avevono cacciato Francesco Piccinino, era stata fatta; e sapiendo Batista quanto il Duca desiderava avere quella città favorevole, tenne pratica seco di ammazzare Annibale e ridurre quella città sotto le insegne sua. Ed essendo convenuti del modo, a dì 24 di giugno, nel 1445, assalì Batista Annibale con i suoi e quello ammazzò; di poi, gridando il nome del Duca, corse la terra. Erano in Bologna i commissari viniziani e fiorentini; i quali al primo romore si ritirorono in casa; ma veduto poi come il popolo non favoriva gli ucciditori, anzi in gran numero, ragunati con le armi in Piazza, della morte di Annibale si dolevono, preso animo, e con quelle genti si trovavono, si accostorono a quelli; e fatto testa, le genti cannesche assalirono, e quelle in poco d’ora vinsono; delle quali parte ammazzorono, parte fuora della città cacciorono. Batista, non essendo stato a tempo a fuggire, né i nimici ad ammazzarlo, drento alle sue case, in una tomba fatta per conservare frumento, si nascose; e avendone i suoi nimici cerco tutto il giorno, e sapendo come e’ non era uscito della città, feciono tanto spavento ai suoi servidori, che da uno suo ragazzo, per timore, fu loro mostro; e tratto di quello luogo, ancora coperto d’armi, fu prima morto, di poi per la terra strascinato e arso. Così l’autorità del Duca fu sufficiente a farli fare quella impresa, e la sua potenza non fu a tempo a soccorrerlo.
Posati adunque, per la morte di Batista e fuga de’ Canneschi, questi tumulti, restorono i Bolognesi in grandissima confusione, non vi sendo alcuno della casa de’ Bentivogli atto al governo, ed essendo rimaso di Annibale un solo figliuolo, chiamato Giovanni, di età di sei anni, in modo che si dubitava che intra gli amici de’ Bentivogli non nascesse divisione, la quale facessi ritornare i Canneschi, con la rovina della patria e della parte loro. E mentre stavano in questa suspensione di animo, Francesco che era stato conte di Poppi, trovandosi in Bologna, fece intendere a quelli primi della città che, se volevono essere governati da uno disceso del sangue di Annibale, lo sapeva loro insegnare. E narrò come, sendo, circa venti anni passati, Ercule cugino di Annibale a Poppi, sapeva come egli ebbe cognoscenza con una giovane di quello castello, della quale ne nacque uno figliuolo chiamato Santi, il quale Ercule gli affermò più volte essere suo; né pareva che potesse negarlo, perché chi cognobbe Ercule e cognosce il giovane vede infra loro una somiglianza grandissima. Fu da quelli cittadini prestato fede alle parole di costui, né differirono punto a mandare a Firenze loro cittadini a ricognoscere il giovane e operare con Cosimo e con Neri che fusse loro concesso. Era quello che si reputava padre di Santi morto, tanto che quel giovane sotto la custodia d’uno suo zio, chiamato Antonio da Cascese, viveva. Era Antonio ricco, e sanza figliuoli, e amico a Neri: per ciò intesa che fu questa cosa, Neri giudicò che fussi né da sprezzarla né temerariamente da accettarla, e volle che Santi, alla presenzia di Cosimo, con quelli che da Bologna erano mandati parlasse. Convennono costoro insieme; e Santi fu dai Bolognesi, non solamente onorato, ma quasi adorato: tanto poteva nelli animi di quelli lo amore delle parti. Né per allora si concluse alcuna cosa, se non che Cosimo chiamò Santi in disparte, e sì gli disse: - Niuno, in questo caso, ti può meglio consigliare che tu medesimo; perché tu hai a pigliare quel partito a che l’animo ti inclina: perché, se tu sarai figliuolo di Ercole Bentivogli, tu ti volgerai a quelle imprese che di quella casa e di tuo padre fieno degne; ma se tu sarai figliuolo di Agnolo da Cascese, ti resterai in Firenze a consumare in una arte di lana vilmente la vita tua. - Queste parole commossono il giovane; e dove prima egli aveva quasi che negato di pigliare simile partito, disse che si rimetteva in tutto a quello che Cosimo e Neri ne deliberassi; tanto che, rimasi d’accordo con i mandati bolognesi, fu di veste, cavagli e servitori onorato; e poco di poi, accompagnato da molti, a Bologna condotto e al governo del figliuolo di Annibale e della città posto. Dove con tanta prudenzia si governò, che, dove i suoi maggiori erano stati tutti dai loro nimici morti, egli e pacificamente visse e onoratissimamente morì.
Dopo la morte di Niccolò Piccino e la pace seguita nella Marca, desiderava Filippo avere uno capitano il quale a’ suoi eserciti comandasse; e tenne pratiche secrete con Ciarpellone, uno de’ primi capi del conte Francesco; e fermo infra loro lo accordo, Ciarpellone domandò licenza al Conte di andare a Milano, per entrare in possessione di alcune castella che da Filippo gli erano nelle passate guerre state donate. Il Conte dubitando di quello che era, acciò che il Duca non se ne potessi contro a’ suoi disegni servire, lo fece prima sostenere e poco di poi morire, allegando di averlo trovato in fraude contro a di lui. Di che Filippo prese grandissimo dispiacere e sdegno, il che piacque a’ Fiorentini e a’ Viniziani, come quelli che temevano assai se le armi del Conte e la potenza di Filippo diventavano amiche. Questo sdegno per tanto fu cagione di suscitare nuova guerra nella Marca. Era signore di Rimino Gismondo Malatesti, il quale per essere genero del Conte, sperava la signoria di Pesero, ma il Conte, occupata quella, ad Alessandro suo fratello la dette, di che Gismondo sdegnò forte. Al quale sdegno si aggiunse che Federigo di Montefeltro, suo nimico per i favori del Conte aveva la signoria di Urbino occupata: questo fece che Gismondo si accostò al Duca, e che sollecitava il Papa e il Re a fare guerra al Conte. Il quale, per fare sentire a Gismondo i primi frutti di quella guerra che desiderava, pensò di prevenirlo, e in un tratto lo assalì. Onde che subito si riempierono di tumulti la Romagna e la Marca, perché Filippo, il Re e il Papa mandorono grossi aiuti a Gismondo, e i Fiorentini e Viniziani, se non di genti, di danari provedevono il Conte. Né bastò a Filippo la guerra di Romagna, ché disegnò torre al Conte Cremona e Pontremoli: ma Pontremoli da’ Fiorentini, e Cremona da’ Viniziani fu difesa. In modo che in Lombardia ancora si rinnovò la guerra: nella quale, dopo alquanti travagli seguiti nel Cremonese, Francesco Piccinino, capitano del Duca, fu, a Casale, da Micheletto e dalle genti de’ Viniziani rotto. Per la quale vittoria i Viniziani sperarono di potere torre lo stato al Duca; e mandorono uno loro commissario in Cremona, e la Chiaradadda assalirono, e quella tutta, fuori che Crema, occuporono; di poi, passato l’Adda, scorrevono per infino a Milano, donde che il Duca ricorse ad Alfonso, e lo pregò volesse soccorrerlo, mostrandogli i pericoli del Regno, quando la Lombardia fusse in mano de’ Viniziani. Promisse Alfonso mandargli aiuti, i quali con difficultà, sanza consentimento del Conte, potevono passare.
Per tanto Filippo ricorse con i prieghi al Conte: che non volesse abbandonare il suocero, già vecchio e cieco. Il Conte si teneva offeso dal Duca per avergli mosso guerra; dall’altra parte la grandezza de’ Viniziani non gli piaceva, e di già i danari gli mancavano, e la lega lo provedeva parcamente, perché a’ Fiorentini era uscita la paura del Duca, la quale faceva loro stimare il Conte, e i Viniziani desideravano la sua rovina, come quelli che giudicavano lo stato di Lombardia non potere essere loro tolto se non da il Conte. Non di meno, mentre che Filippo cercava di tirarlo a’ suoi soldi, e gli offeriva il principato di tutte le sue genti, purché lasciasse i Viniziani e la Marca restituisse al Papa, gli mandorono ancora loro ambasciadori, promettendogli Milano se lo prendevano, e la perpetuità del capitaneato delle loro genti, pure che seguisse la guerra nella Marca e impedisse che non venissero aiuti di Alfonso in Lombardia. Erano adunque le promesse de’ Viniziani grandi, e i meriti loro grandissimi, avendo mosso quella guerra per salvare Cremona al Conte; e dall’altra parte le ingiurie del Duca erano fresche, e le sue promesse infedeli e deboli. Pure non di meno stava dubio il Conte di qual partito dovessi prendere: perché dall’uno canto l’obligo della lega, la fede data, i meriti freschi e le promesse delle cose future lo movevano; dall’altro i prieghi del suocero, e sopra tutto il veleno che dubitava che sotto le grandi promesse de’ Viniziani si nascondesse; giudicando dovere stare, e delle promesse e dello stato, qualunque volta avessero vinto, a loro discrezione; alla quale niuno prudente principe non mai, se non per necessità, si rimisse. Queste difficultà di risolversi al Conte furono dalla ambizione de’ Viniziani tolte via: i quali, avendo speranza di occupare Cremona per alcune intelligenzie avieno in quella città, sotto altro colore vi fecero appressare le loro genti. Ma la cosa si scoprì da quelli che per il Conte la guardavano; e riuscì il loro disegno vano; per che non acquistorono Cremona, e il Conte perderono; il quale, posposti tutti i rispetti, si accostò al Duca.
Era morto papa Eugenio, e creato per suo successore Niccola V, e il Conte aveva già tutto lo esercito a Cutignuola per passare in Lombardia, quando gli venne avviso Filippo essere morto, che correva l’anno 1447, all’ultimo di agosto. Questa nuova riempié di affanni il Conte; perché non gli pareva che le sue genti fussero ad ordine, per non avere avuto lo intero pagamento; temeva de’ Viniziani, per essere in su l’armi e suoi nimici, avendo di fresco lasciati quelli e accostatosi al Duca; temeva di Alfonso, suo perpetuo nimico; non sperava nel Papa né ne’ Fiorentini: in questi, per essere collegati con i Viniziani; in quello, per essere delle terre della Chiesa possessore. Pure deliberò di mostrare il viso alla fortuna, e secondo gli accidenti di quella consigliarsi; perché molte volte, operando, si scuoprono quelli consigli che, standosi, sempre si nasconderebbono. Davagli grande speranza il credere che, se i Milanesi dalla ambizione de’ Viniziani si volessero difendere, che non potessero ad altre armi che alle sue rivolgersi. Onde che, fatto buono animo, passò nel Bolognese; e passato di poi Modena e Reggio, si fermò con le genti in su la Lenza, e a Milano mandò a offerirsi. De i Milanesi, morto il Duca parte volevono vivere liberi, parte sotto uno principe: di quelli che amavano il principe l’una parte voleva il Conte l’altra il re Alfonso. Per tanto, sendo quelli che amavano la libertà più uniti, prevalsono agli altri, e ordinorono a loro modo una republica, la quale da molte città del Ducato non fu ubbidita, giudicando ancora quelle potere, come Milano, la loro libertà godere; e quelle che a quella non aspiravano, la signoria de’ Milanesi non volevono. Lodi adunque e Piacenza si dierono a’ Viniziani, Pavia e Parma si feciono libere. Le quali confusioni sentendo il Conte, se ne andò a Cremona; dove i suoi oratori insieme con oratori milanesi vennono, con la conclusione che fusse capitano de’ Milanesi con quelli capitoli che ultimamente con il duca Filippo aveva fatti. A’ quali aggiunsono che Brescia fusse del Conte, e acquistandosi Verona, fusse sua quella, e Brescia restituisse.
Avanti che il Duca morisse, papa Niccola, dopo la sua assunzione al pontificato, cercò di creare pace intra i principi italiani; e per questo operò, con gli oratori che i Fiorentini gli mandorono nella creazione sua, che si facesse una dieta a Ferrara, per trattare o lunga triegua o ferma pace. Convennono adunque, in quella città, il legato del Papa, gli oratori viniziani, ducali e fiorentini; quelli del re Alfonso non v’intervennono. Trovavasi costui a Tiboli, con assai genti a piè e a cavallo, e di quivi favoriva il Duca; e si crede che, poi ch’eglino ebbono tirato da il canto loro il Conte, che volessino apertamente i Fiorentini e i Viniziani assalire, e in quel tanto che l’indugiavano le genti del Conte ad essere in Lombardia, intrattenere la pratica della pace a Ferrara; dove il Re non mandò, affermando che ratificherebbe a quanto da il Duca si concludesse. Fu la pace molti giorni praticata; e dopo molte dispute, si concluse o una pace per sempre o una tregua per cinque anni, quale di queste dua al Duca piacesse; ed essendo iti gli oratori ducali a Milano per intendere la sua volontà, lo trovorono morto. Volevono, non ostante la sua morte, i Milanesi seguire lo accordo; ma i Viniziani non vollono, come quelli che presono speranza grandissima di occupar quello stato, veggendo massime che Lodi e Piacenza, subito dopo la morte del Duca, si erano loro arrese; tale che li speravano, o per forza o per accordo, potere in breve tempo spogliare Milano di tutto lo stato, e quello di poi in modo opprimere, che ancora esso si arrendesse prima che alcuno, lo suvvenisse; e tanto più si persuasono questo, quando viddono i Fiorentini implicarsi in guerra con il re Alfonso.
Era quel re a Tiboli, e volendo seguire la impresa di Toscana, secondo che con Filippo aveva deliberato, parendogli che la guerra che si era già mossa in Lombardia fusse per darli tempo e commodità, desiderava avere un piè nello stato de’ Fiorentini, prima che apertamente si movesse; e per ciò tenne trattato nella rocca di Cennina, in Valdarno di sopra, e quella occupò. I Fiorentini, percossi da questo inopinato accidente, e veggendo il Re mosso per venire a’ loro danni, soldorono genti, creorono i Dieci, e secondo il loro costume si preparorono alla guerra. Era già condotto il Re con il suo esercito sopra il Sanese, e faceva ogni suo sforzo per tirare quella città a’ suoi voleri: non di meno stierono quelli cittadini nella amicizia de’ Fiorentini fermi, e non riceverono il Re in Siena, né in alcuna loro terra: provedevanlo bene di viveri, di che gli scusava la impotenza loro e la gagliardia del nimico. Non parve al Re entrare per la via del Valdarno, come prima aveva disegnato, sì per avere riperduta Cennina, sì perché di già i Fiorentini erano in qualche parte forniti di gente; e si inviò verso Volterra, e molte castella nel Volterrano occupò. Di quindi n’andò in quello di Pisa; e per li favori che gli feciono Arrigo e Fazio de’ conti della Gherardesca, prese alcune castella, e da quelle assalì Campiglia; la quale non possé espugnare, perché fu da’ Fiorentini e dal verno difesa. Onde che il Re lasciò, nelle terre prese, guardie da difenderle e da potere scorrere il paese, e con il restante dello esercito si ritirò alle stanze in nel paese di Siena. I Fiorentini intanto, aiutati dalla stagione, con ogni studio si providdono di gente, capi delle quali erano Federigo signore di Urbino e Gismondo Malatesti da Rimino; e benché fra questi fusse discordia, non di meno, per la prudenza, di Neri di Gino e di Bernardetto de Medici commissari, si mantennono in modo uniti che si uscì a campo sendo ancora il verno grande, e si ripresono le terre perdute nel Pisano e le Ripomerancie nel Volterrano; e i soldati del Re, che prima scorrevono le maremme, si frenorono di sorte che con fatica potevono le terre loro date a guardia mantenere. Ma venuta la primavera, i commissari feciono alto, con tutte le loro genti, allo Spedaletto, in numero di cinquemila cavalli e due mila fanti; e il Re ne venne con le sue, in numero di quindicimila, propinquo a tre miglia a Campiglia. E quando si stimava tornassi a campeggiare quella terra, si gittò a Piombino, sperando di averlo facilmente, per essere quella terra male provvista, e per giudicare quello acquisto a sé utilissimo e ai Fiorentini pernizioso; per ché da quel luogo poteva consumare con una lunga guerra i Fiorentini, potendo provederlo per mare, e tutto il paese di Pisa perturbare. Per ciò dispiacque a Fiorentini questo assalto; e consigliatisi quello fusse da fare, giudicorono che, se si poteva stare con lo esercito nelle macchie di Campiglia, che il Re sarebbe forzato partirsi o rotto o vituperato. E per questo armarono quattro galeazze avevono a Livorno, e con quelle messono trecento fanti in Piombino, e posonsi alle Caldane, luogo dove con difficultà potevono essere assaliti, perché alloggiare alle macchie, nel piano, lo giudica vano pericoloso.
Aveva lo esercito fiorentino le vettovaglie dalle terre circunstante, le quali, per essere rade e poco abitate, lo prevedevono con difficultà; tale che lo esercito ne pativa, e massimamente mancava di vino, perché, non vi se ne ricogliendo e d’altronde non ne potendo avere non era possibile che se ne avesse per ciascuno. Ma il Re, ancora che dalle genti fiorentine fusse tenuto stretto, abbondava, da strame in fuora, d’ogni cosa, perché era per mare di tutto proveduto. Vollono per tanto i Fiorentini fare pruova se per mare ancora le genti loro potessero suvvenire, e caricorono le loro galeazze di viveri; e fattole venire, furono da sette galee del Re incontrate, e dua ne furono prese, e dua fugate. Questa perdita fece perdere la speranza alle genti fiorentine del rinfrescamento; onde che dugento saccomanni o più, per mancamento massime del vino, si fuggirono nel campo del Re; e l’altre genti mormoreggiavano, affermando non essere per stare in luoghi caldissimi, dove non fusse vino a l’acque fussero cattive; tanto che i commissari deliberorono abbandonare quel luogo, e volsonsi alla recuperazione di alcune castella che ancora restavano in mano al Re. Il quale dall’altra parte, ancora che non patissi di viveri e fusse superiore di genti, si vedeva mancare, per essere il suo esercito ripieno di malattie che in quelli tempi i luoghi maremmani producono; e furono di tanta potenza che molti ne morivano e quasi tutti erano infermi. Onde che si mossono pratiche di accordo, per il quale il Re domandava cinquanta mila fiorini, e che Piombino gli fusse lasciato a discrezione. La qual cosa consultata a Firenze, molti, desiderosi della pace, l’accettavano, affermando non sapere come si potesse sperare di vincere una guerra che a sostenerla tante spese fussero necessarie, ma Neri Capponi, andato a Firenze, in modo con le ragioni la sconfortò, che tutti i cittadini d’accordo a non la accettare convennono, e il signore di Piombino per loro raccomandato accettorono, e a tempo di pace e di guerra di suvvenirlo promissono, purché non si abbandonasse, e si volesse, come infino allora aveva fatto, difendere. Intesa il Re questa deliberazione, e veduto, per lo infermo suo esercito, di non potere acquistare la terra si levò quasi che rotto da campo; dove lasciò più che dumila uomini morti; e con il restante dello infermo esercito si ritirò nel paese di Siena, e di quindi nel Regno, tutto sdegnato contro a’ Fiorentini, minacciandoli, a tempo nuovo, di nuova guerra.
Mentre che queste cose in Toscana in simil modo si travagliavano, il conte Francesco, in Lombardia, sendo diventato capitano de’ Milanesi, prima che ogni altra cosa si fece amico Francesco Piccinino, il quale per li Milanesi militava, acciò che nelle sue imprese lo favorisse, o con più rispetto lo ingiuriasse. Ridussesi adunque con lo esercito suo in campagna, onde che quelli di Pavia giudicorono non si potere dalle sue forze difendere, e non volendo dall’altra parte ubbidire a’ Milanesi, gli offersono la terra con queste condizioni che non li mettessi sotto lo imperio di Milano. Desiderava il Conte la possessione di quella città, parendogli uno gagliardo principio a potere colorire i disegni suoi, né lo riteneva il timore o la vergogna del rompere la fede, perché gli uomini grandi chiamono vergogna il perdere, non con inganno acquistare; ma dubitava, pigliandola, non fare sdegnare i Milanesi in modo che si dessero a’ Viniziani; e non la pigliando, temeva del duca di Savoia, al quale molti cittadini si volevono dare, e nell’uno caso e nell’altro gli pareva essere privo dello imperio di Lombardia. Pure non di meno, pensando che fusse minor pericolo nel prendere quella città che nel lasciarla prendere ad uno altro deliberò di accettarla, persuadendosi potere acquietare i Milanesi. A’ quali fece intendere ne’ pericoli s’incorreva quando non avessi accettata Pavia, perché quelli cittadini si sarebbono dati o a’ Viniziani o al Duca, e nell’uno e nell’altro caso lo stato loro era perduto; e come ei dovevono più contentarsi di avere lui per vicino amico, che uno potente, quale era qualunque di quelli, e nimico. I Milanesi si turborono assai del caso, parendo loro avere scoperta l’ambizione del Conte e il fine a che egli andava; ma giudicorono non potere scoprirsi, perché non vedevono, partendosi dal Conte, dove si volgere altrove che a’ Viniziani, de’ quali la superbia e le gravi condizioni temevano; e per ciò deliberorono non si spiccare dal Conte, e per allora rimediare con quello ai mali che soprastavano loro, sperando che, liberati da quelli, si potrebbono ancora liberare da lui; perché, non solamente da’ Viniziani, ma ancora dai Genovesi e duca di Savoia, in nome di Carlo d’Orliens, nato d’una sorella di Filippo, erano assaliti. Il quale assalto il Conte con poca fatica oppresse. Solo adunque gli restorono nimici i Viniziani, i quali con uno potente esercito volevono occupare quello stato, e tenevano Lodi e Piacenza, alla quale il Conte pose il campo, e quella, dopo una lunga fatica, prese e saccheggiò. Di poi, perché ne era venuto il verno, ridusse le sue genti nelli alloggiamenti, ed egli se ne andò a Cremona, dove tutta la vernata con la moglie si riposò.
Ma venuta la primavera, uscirono gli eserciti viniziani e milanesi alla campagna. Desideravano i Milanesi acquistare Lodi, e di poi fare accordo con i Viniziani, perché le spese della guerra erano loro rincresciute e la fede del capitano era loro sospetta; tal che sommamente desideravano la pace, per riposarsi e per assicurarsi del Conte. Deliberorono per tanto che il loro esercito andassi allo acquisto di Caravaggio, sperando che Lodi si arrendesse qualunque volta quel castello fusse tratto delle mani del nimico. Il Conte ubbidì a’ Milanesi, ancora che l’animo suo fussi passare l’Adda e assalire il Bresciano. Posto dunque lo assedio a Caravaggio, con fossi e altri ripari si affortificò, acciò che, se i Viniziani volessero levarlo da campo, con loro disavvantaggio lo avessero ad assalire. I Viniziani dall’altra parte vennono con il loro esercito, sotto Micheletto loro capitano, propinqui a duoi tiri d’arco al campo del Conte; dove più giorni dimororono, e feciono molte zuffe. Non di meno il Conte seguiva di strignere il castello, e lo aveva condotto in termine che conveniva si arrendesse, la quale cosa dispiaceva ad i Viniziani, parendo loro, con la perdita di quello, avere perduta la impresa. Fu per tanto intra i loro capitani grandissima disputa del modo del soccorrerlo; né si vedeva altra via che andare dentro ai suoi ripari a trovare il nimico; dove era disavvantaggio grandissimo; ma tanto stimorono la perdita di quel castello che il Senato veneto, naturalmente timido e discosto da qualunque partito dubio e pericoloso, volle più tosto, per non perdere quello, porre in pericolo il tutto, che, con la perdita di esso, perdere la impresa. Feciono adunque deliberazione di assalire in qualunque modo il Conte; e levatisi una mattina di buona ora in arme, da quella parte che era meno guardata lo assalirono, e nel primo impeto, come interviene nelli assalti che non si aspettono, tutto lo esercito sforzesco perturborono. Ma subito fu ogni disordine da il Conte in modo riparato, che i nimici, dopo molti sforzi fatti per superare gli argini, furono, non solamente ributtati, ma in modo fugati e rotti, che di tutto lo esercito, dove erano meglio che dodici mila cavagli, non se ne salvorono mille, e tutte loro robe e carriaggi furono predati; né mai fino a quel dì fu ricevuta dai Viniziani la maggiore e più spaventevole rovina. E intra la preda e i presi fu trovato... proveditore viniziano, il quale, avanti alla zuffa e nel maneggiare la guerra, aveva parlato vituperosamente del Conte, chiamando quello bastardo e vile, di modo che, trovandosi dopo la rotta prigione, e de’ suoi falli ricordandosi, dubitando non essere secondo i suoi meriti premiato, arrivato avanti al Conte, tutto timido e spaventato, secondo la natura degli uomini superbi e vili, la quale è nelle prosperità essere insolenti e nelle avversità abietti e umili, gittatosi lagrimando ginocchione, gli chiese delle ingiurie contro a quello usate perdono. Levollo il Conte; e presolo per il braccio gli fece buono animo, e confortollo a sperare bene. Poi gli disse che si maravigliava che uno uomo di quella prudenza e gravità che voleva essere tenuto egli fusse caduto in tanto errore di parlare sì vilmente di coloro che non lo meritavano; e quanto apparteneva alle cose che quello gli aveva rimproverate, che non sapeva quello che Sforza suo padre si avesse con madonna Lucia sua madre operato, perché non vi era e non aveva potuto a’ loro modi del congiugnersi provedere, talmente che di quello che si facessero e’ non credeva poterne biasimo o lode riportare; ma che sapeva bene che di quello aveva avuto ad operare egli, si era governato in modo che niuno lo poteva riprendere; di che egli e il suo Senato ne potevono fare fresca e vera testimonianza. Confortollo a essere per lo avvenire più modesto nel parlare d’altrui e più cauto nelle imprese sue.
Dopo questa vittoria, il Conte, con il suo vincitore esercito, passò nel Bresciano, e tutto quello contado occupò; e di poi pose il campo propinquo a dua miglia a Brescia. I Viniziani dall’altra parte, ricevuta la rotta, temendo, come seguì, che Brescia non fusse la prima percossa, l’avevano di quella guardia che meglio e più presto avevono potuta trovare proveduta; e di poi con ogni diligenzia ragunorono forze, e ridussono insieme quelle reliquie che del loro esercito posserono avere, e a’ Fiorentini per virtù della loro lega domandorono aiuti: i quali, perché erano liberi dalla guerra del re Alfonso, mandorono in aiuto di quelli mille fanti e dumila cavagli. I Viniziani, con queste forze, ebbono tempo a pensare agli accordi. Fu, un tempo, cosa quasi che fatale alla republica viniziana perdere nella guerra e nelli accordi vincere; e quelle cose che nella guerra perdevano, la pace di poi molte volte duplicatamente loro rendeva. Sapevano i Viniziani come i Milanesi dubitavano del Conte, e come il Conte desiderava non essere capitano, ma signore de’ Milanesi, e come in loro arbitrio era fare pace con uno de’ duoi, desiderandola l’uno per ambizione, l’altro per paura, ed elessono di farla con il Conte, e di offerirgli aiuti a quello acquisto. E si persuasono che, come i Milanesi si vedessino ingannati dal Conte vorrieno, mossi dallo sdegno, sottoporsi prima a qualunque altro che a lui; e conducendosi in termine che per loro medesimi non si potessino difendere né più del Conte fidarsi, sarieno forzati, non avendo dove gittarsi, di cadere loro in grembo. Preso questo consiglio, tentorono lo animo del Conte; e lo trovorono alla pace dispostissimo, come quello che desiderava che la vittoria avuta a Caravaggio fusse sua e non de’ Milanesi. Fermorono per tanto uno accordo, nel quale i Viniziani si obligorono pagare al Conte, tanto che gli differisse ad acquistare Milano, tredici mila fiorini per ciascuno mese, e di più, durante quella guerra, di quattromila cavagli e dumila fanti suvvenirlo; e il Conte dall’altra parte si obligò restituire a’ Viniziani terre, prigioni e qualunque altra cosa stata da lui in quella guerra occupata, ed essere solamente contento a quelle terre le quali il duca Filippo alla sua morte possedeva.
Questo accordo, come fu saputo a Milano, contristò molto più quella città che non aveva la vittoria di Caravaggio rallegrata. Dolevonsi i principi, rammaricavansi i popolari, piangevano le donne e i fanciulli e tutti insieme il Conte traditore e disleale chiamavano; e benché quelli non credessino né con prieghi né con promesse dal suo ingrato proponimento rivocarlo, gli mandorono imbasciadori, per vedere con che viso e con quali parole questa sua sceleratezza accompagnasse. Venuti per tanto davanti al Conte, uno di quelli parlò in questa sentenza: - Sogliono coloro i quali alcuna cosa da alcuno impetrare desiderano, con i prieghi, premii o minacce assalirlo, acciò, mosso o dalla misericordia o dall’utile o dalla paura, a fare quanto da loro si desidera condescenda. Ma negli uomini crudeli e avarissimi, e secondo la opinione loro potenti, non vi avendo quelli tre modi luogo alcuno, indarno si affaticono coloro che credono o con i prieghi umiliarli o con i premii guadagnarli, o con le minacce sbigottirli. Noi per tanto, conoscendo al presente, benché tardi, la crudeltà, l’ambizione e superbia tua, veniamo a te, non per volere impetrare alcuna cosa, né per credere di ottenerla quando bene noi la domandassimo, ma per ricordarti i benefizi che tu hai dal popolo milanese ricevuti, e dimostrarti con quanta ingratitudine tu li hai ricompensati, acciò che almeno, infra tanti mali che noi sentiamo, si gusti qualche piacere per rimproverarteli. E’ ti debbe ricordare benissimo quali erano le condizioni tue dopo la morte del duca Filippo: tu eri del Papa e del Re inimico; tu avevi abbandonati i Fiorentini e Viniziani, de’ quali, e per il giusto e fresco sdegno, e per non avere quelli più bisogno di te, eri quasi che nimico divenuto; trovaviti stracco della guerra avevi avuta con la Chiesa, con poca gente, sanza amici, sanza danari e privo d’ogni speranza di potere mantenere gli stati tuoi e l’antica tua riputazione. Dalle quali cose facilmente cadevi, se non fusse stata la nostra semplicità: perché noi soli ti ricevemmo in casa, mossi dalla reverenzia avavamo alla felice memoria del Duca nostro; con il quale avendo tu parentado e nuova amicizia, credavamo che ne’ suoi eredi passasse lo amore tuo e che se a’ benifici suoi si aggiugnessino i nostri, dovesse questa amicizia, non solamente essere ferma, ma inseparabile; e per ciò alle antiche convenzioni Verona o Brescia aggiugnemmo. Che più potavamo noi darti e prometterti? E tu che potevi, non dico da noi, ma in quelli tempi da ciascuno, non dico avere, ma desiderare? Tu per tanto ricevesti da noi uno insperato bene; e noi, per ricompenso, riceviamo da te uno insperato male. Né hai differito infino ad ora a dimostrarci lo iniquo animo tuo; perché non prima fusti delle nostre armi principe, che, contro ad ogni giustizia, ricevesti Pavia; il che ne doveva ammunire quale doveva essere il fine di questa tua amicizia. La quale ingiuria noi sopportammo, pensando che quello acquisto dovessi empiere con la grandezza sua l’ambizione tua. Ahimè! che a coloro che desiderano il tutto non puote la parte sodisfare. Tu promettesti che noi gli acquisti di poi da te fatti godessimo, perché sapevi bene come quello che in molte volte ci davi ci potevi in un tratto ritorre; come è stato dopo la vittoria di Caravaggio; la quale, preparata prima con il sangue e con i danari nostri, poi fu con la nostra rovina conseguita. O infelice quelle città che hanno contro alla ambizione di chi le vuole opprimere a difendere la libertà loro; ma molto più infelice quelle che sono con le armi mercennarie e infedeli, come le tue, necessitate a difendersi! Vaglia almeno questo nostro esemplo a’ posteri, poi che quello di Tebe e di Filippo di Macedonia non è valuto a noi: il quale, dopo la vittoria avuta de’ nimici, prima diventò, di capitano, loro nimico, e di poi principe. Non possiamo per tanto essere d’altra colpa accusati, se non di avere confidato assai in quello in cui noi dovavamo confidare poco; perché la tua passata vita, lo animo tuo vasto, non contento mai di alcuno grado o stato, ci doveva ammunire; né dovavamo porre speranza in colui che aveva tradito il signore di Lucca, taglieggiato i Fiorentini e Vinizani, stimato poco il Duca, vilipeso un Re, e sopra tutto Iddio e la Chiesa sua con tante ingiurie perseguitata; né dovavamo mai credere che tanti principi fussero, nel petto di Francesco Sforza, di minore autorità che i Milanesi, e che si avessi ad osservare quella fede in noi, che si era negli altri più volte violata. Non di meno questa poca prudenza che ci accusa non scusa la perfidia tua, né purga quella infamia che le nostre giuste querele per tutto il mondo ti partoriranno, né farà che il giusto stimolo della tua conscienza non ti perseguiti, quando quelle armi, state da noi preparate per offendere e sbigottire altri, verranno a ferire e ingiuriare noi; perché tu medesimo ti giudicherai degno di quella pena che i parricidi hanno meritata. E quando pure l’ambizione ti accecassi, il mondo tutto, testimone della iniquità tua, ti farà aprire gli occhi; faratteli aprire Iddio, se i pergiurii, se la violata fede, se i tradimenti gli dispiacciono, e se sempre, come in fino ad ora per qualche occulto bene ha fatto, ei non vorrà essere de’ malvagi uomini amico. Non ti promettere adunque la vittoria certa, perché la ti fia dalla giusta ira di Dio impedita; e noi siamo disposti con la morte perdere la libertà nostra, la quale quando pure non potessimo difendere, ad ogni altro principe, prima che a te, la sottoporremo; e se pure i peccati nostri fussino tali che contro ad ogni nostra voglia ti venissimo in mano, abbi ferma fede che quel regno che sarà da te cominciato con inganno e infamia finirà, in te o ne’ tuoi figliuoli, con vituperio e danno.
Il Conte, ancora che da ogni parte si sentisse da’ Milanesi morso, sanza dimostrare o con le parole o con i gesti alcuna estraordinaria alterazione, rispose che era contento donare agli loro adirati animi la grave ingiuria delle loro poco savie parole; alle quali risponderebbe particularmente, se fusse davanti ad alcuno che delle loro differenze dovesse essere giudice, perché si vedrebbe lui non avere ingiuriati i Milanesi, ma provedutosi che non potessero iniuriare lui. Perché sapevono bene come dopo la vittoria di Carafaggio si erano governati; perché, in scambio di premiarlo di Verona o Brescia, cercavano di fare pace con i Viniziani, acciò che solo apresso di lui restassero i carichi della inimicizia e apresso di loro i frutti della vittoria, con il grado della pace e tutto l’utile che si era tratto della guerra. In modo che eglino non si potevono dolere, se li aveva fatto quello accordo che eglino prima avevano tentato di fare; il qual partito se alquanto differiva a prendere, arebbe al presente a rimproverare a loro quella ingratitudine la quale ora eglino gli rimproverano. Il che se fusse vero o no, lo dimosterrebbe, con il fine di quella guerra, quello Iddio ch’eglino chiamavano per vendicatore delle loro ingiurie; mediante il quale vedranno quale di loro sarà più suo amico, e quale con maggiore giustizia arà combattuto. Partitisi gli ambasciadori, il Conte si ordinò a potere assaltare i milanesi, e questi si preparorono alla difesa; e con Francesco e Iacopo Piccinino, i quali per lo antico odio avieno i Bracceschi con li Sforzeschi erano stati a’ Milanesi fedeli, pensorono di difendere la loro libertà infino a tanto, almeno che potessero smembrare i Viniziani da il Conte, i quali non credevono dovessino esserli fedeli né amici lungamente. Dall’altra parte il Conte, che questo medesimo cognosceva, pensò che fusse savio partito, quando giudicava che l’obligo non bastasse, tenerli fermi con il premio. E per ciò, nel distribuire le imprese della guerra, fu contento che i Viniziani assalissero Crema, ed egli con l’altra gente assalirebbe il restante di quello stato. Questo pasto messo davanti ai Viniziani fu cagione ch’eglino durorono tanto nella amicizia del Conte, che il Conte aveva già occupato tutto il dominio a’ Milanesi, e in modo ristrettili alla terra, che non potevono di alcuna cosa necessaria provedersi; tanto che, disperati d’ogni altro aiuto, mandorono oratori a Vinegia a pregarli che avessero compassione alle cose loro; e fussino contenti, secondo che debbe essere il costume delle republiche, favorire la loro libertà, non uno tiranno, il quale, se gli riesce insignorirsi di quella città, non potranno a loro posta frenare. Né credino che gli stia contento a’ termini ne’ capituli posti, ché vorrà i termini antichi di quello stato ricognoscere. Non si erano ancora i Viniziani insignoriti di Crema, e volendo, prima che cambiassino volto, insignorirsene, risposono publicamente, non potere, per lo accordo fatto con il Conte, suvvenirli; ma in privato gli intrattennono in modo che, sperando nello accordo, poterono a’ loro Signori darne una ferma speranza.
Era già il Conte con le sue genti tanto propinquo a Milano che combatteva i borghi, quando a’ Viniziani, avuta Crema non parve da differire di fare amicizia con i Milanesi con i quali si accordorono, e intra’ primi capituli promissono al tutto la difesa alla loro libertà. Fatto lo accordo, commissono alle genti loro avieno presso al Conte che partitesi de’ suoi campi, nel Viniziano si ritirassero. Significorono ancora al Conte la pace fatta co’ Milanesi, e gli dierono venti giorni di tempo ad accettarla. Non si maravigliò il Conte del partito preso dai Viniziani, perché molto tempo innanzi lo aveva preveduto, e temeva che ogni giorno potesse accadere; non di meno non potette fare che, venuto il caso, non se ne dolesse e quel dispiacere sentisse che avevano i Milanesi, quando egli gli aveva abbandonati, sentito. Prese tempo dagli ambasciadori, che da Vinegia erano stati mandati a significargli lo accordo, duoi giorni a rispondere; fra il quale tempo deliberò di intrattenere i Viniziani e non abbandonare la impresa. E per ciò publicamente disse di volere accettare la pace, e mandò suoi ambasciadori a Vinegia, con amplo mandato, a ratificarla; ma da parte commisse loro che in alcuno modo non la ratificassero, ma con varie invenzioni e gavillazioni la conclusione differissero. E per fare a’ Viniziani più credere che dicessi da vero fece triegua con i Milanesi per uno mese e discostossi da Milano, e divise le sue genti per gli alloggiamenti ne’ luoghi che allo intorno aveva occupati. Questo partito fu cagione della vittoria sua e della rovina de’ Milanesi, perché i Viniziani, confidando nella pace, furono più lenti alle provisioni della guerra, e i Milanesi, veggendo la tregua fatta, e il nimico discostatosi, e i Viniziani amici crederono al tutto che il Conte fusse per abbandonare la impresa. La quale opinione in duoi modi li offese: l’uno ch’eglino straccurorono gli ordini delle difese loro; l’altro, che nel paese libero dal nimico, perché il tempo della semente era, assai grano seminorono, donde nacque che più tosto il Conte li potette affamare. Al Conte dall’altra parte tutte quelle cose giovorono che i nimici offesono; e di più quel tempo gli dette commodità a potere respirare e provedersi di aiuti.
Non si erano in questa guerra di Lombardia, i Fiorentini declarati per alcuna delle parti, né avieno dato alcuno favore al Conte, né quando egli difendeva i Milanesi né poi; perché il Conte non ne avendo avuto di bisogno non ne gli aveva con instanzia ricerchi, solamente avieno, dopo la rotta di Carafaggio, per virtù delli obblighi della lega, mandato aiuti a’ Viniziani. Ma sendo rimaso il conte Francesco solo, non avendo dove ricorrere, fu necessitato chiedere instantemente aiuto a’ Fiorentini, e publicamente allo stato, e privatamente agli amici, e massimamente a Cosimo de’ Medici, con il quale aveva sempre tenuta una continua amicizia, ed era sempre stato da quello in ogni sua impresa fedelmente consigliato e largamente suvvenuto. Né in questa tanta necessità Cosimo lo abbandonò, ma come privato copiosamente lo suvvenne, e gli dette animo a seguire la impresa: desiderava ancora che la città publicamente lo aiutasse, dove si trovava difficultà. Era in Firenze Neri di Gino Capponi potentissimo. A costui non pareva che fusse a benefizio della città che il Conte occupasse Milano, e credeva che fusse più a salute della Italia che il Conte ratificasse la pace, che egli seguisse la guerra. In prima egli dubitava che i Milanesi, per lo sdegno avieno contro al Conte, non si dessino al tutto a’ Viniziani; il che era la rovina di ciascuno di poi, quando pure gli riuscisse di occupare Milano, gli pareva che tante armi e tanto stato congiunte insieme fussero formidabili; e s’egli era insopportabile conte, giudicava che fussi per essere uno duca insopportabilissimo. Per tanto affermava che fusse meglio, e per la republica di Firenze e per la Italia, che il Conte restasse con la sua reputazione delle armi, e la Lombardia in due republiche si dividessi, le quali mai si unirebbono alla offesa degli altri, e ciascheduna per sé offendere non potrebbe. E a fare questo non ci vedeva altro migliore rimedio che non suvvenire il Conte e mantenere la lega vecchia con i Viniziani. Non erano queste ragioni dagli amici di Cosimo accettate, perché credevano Neri muoversi a questo, non perché così credessi essere il bene della Republica, ma per non volere che il Conte, amico di Cosimo, diventassi duca, parendogli che per questo Cosimo ne diventassi troppo potente. E Cosimo ancora con ragioni mostrava lo aiutare il Conte essere alla Republica e alla Italia utilissimo; perché gli era opinione poco savia credere che i Milanesi si potessero conservare liberi; perché le qualità della cittadinanza, il modo del vivere loro, le sette antiquate in quella città, erano ad ogni forma di civile governo contrarie; talmente che gli era necessario o che il Conte ne diventasse duca, o e Viniziani signori; e in tale partito niuno era sì sciocco che dubitassi qual fussi meglio, o avere uno amico potente vicino, o avervi uno nimico potentissimo. Né credeva che fusse da dubitare che i Milanesi, per avere guerra con il Conte, si sottomettersi a’ Viniziani; perché il Conte aveva la parte in Milano, e non quelli; talché qualunque volta e’ non potranno difendersi come liberi, sempre più tosto al Conte che a’ Viniziani si sottometteranno. Queste diversità di opinioni tennono assai sospesa la città, e alla fine deliberorono che si mandasse imbasciadori al Conte per trattare il modo dello accordo; e se trovassino il Conte gagliardo da potere sperare che e’ vincesse, concluderlo, quanto che no, gavillarlo e differirlo.
Erano questi ambasciadori a Reggio, quando eglino intesono il Conte essere diventato signore di Milano. Perché il Conte, passato il tempo della tregua, si ristrinse con le sue genti a quella città, sperando in brieve, a dispetto de’ Viniziani, occuparla; perché quelli non la potevano soccorrere se non dalla parte dell’Adda, il quale passo facilmente poteva chiudere; e non temeva, per essere la vernata, che i Viniziani gli campeggiassino apresso; e sperava, prima che il verno passasse, avere la vittoria, massimamente sendo morto Francesco Piccinino, e restato solo Iacopo suo fratello capo de’ Milanesi. Avevano i Viniziani mandato uno loro oratore a Milano, a confortare quelli cittadini, che fussino pronti a difendersi, promettendo loro grande e presto soccorso. Seguirono adunque, durante il verno, intra i Viniziani e il Conte, alcune leggieri zuffe; ma fattosi il tempo più benigno, i Viniziani, sotto Pandolfo Malatesti, si fermorono con il loro esercito sopra l’Adda. Dove, consigliatisi se dovevono, per soccorrere Milano, assalire il Conte e tentare la fortuna della zuffa, Pandolfo loro capitano giudicò che e’ non fusse da farne questa esperienza, conoscendo la virtù del Conte e del suo esercito. E credeva che si potesse, sanza combattere, vincere al sicuro, perché il Conte da il disagio delli strami e del frumento era cacciato. Consigliò per tanto che si conservasse quello alloggiamento, per dare speranza a’ Milanesi di soccorso, acciò che, disperati, non si dessino al Conte. Questo partito fu approvato da’ Viniziani, sì per giudicarlo sicuro, sì ancora perché avevono speranza che, tenendo i Milanesi in quella necessità, sarebbono forzati rimettersi sotto il loro imperio; persuadendosi che mai non fussino per darsi al Conte, considerate le ingiurie avieno ricevute da lui. Intanto i Milanesi erano condotti quasi che in estrema miseria; e abbondando quella città naturalmente di poveri, si morivano per le strade di fame; donde ne nascevano romori e pianti in diversi luoghi della città; di che i magistrati temevano forte, e facevano ogni diligenzia perché genti non si adunassero insieme. Indugia assai la moltitudine tutta a disporsi al male; ma quando vi è disposta ogni piccolo accidente la muove. Duoi adunque, di non molta condizione, ragionando, propinqui a Porta Nuova, della calamità della città e miseria loro, e che modi vi fussero per la salute, si cominciò ad accostare loro delli altri, tanto che diventorono buono numero: donde che si sparse per Milano voce, quelli di Porta Nuova essere contro a’ magistrati in arme. Per la qual cosa tutta la moltitudine, la quale non aspettava altro che essere mossa, fu in arme; e feciono capo di loro Gasparre da Vicomercato, e ne andorono al luogo dove i magistrati erano ragunati. Nei quali feciono tale impeto che tutti quelli che non si poterono fuggire uccisono; intra’ quali Lionardo Venero, ambasciadore viniziano, come cagione della loro fame, e della loro miseria allegro, ammazzorono. E così, quasi che principi della città diventati, infra loro preposono quello si avesse a fare, a volere uscire di tanti affanni e qualche volta riposarsi. E ciascuno giudicava che convenisse rifuggire, poi che la libertà non si poteva conservare, sotto uno principe che gli difendessi: e chi il re Alfonso, chi il duca di Savoia, chi il re di Francia voleva per suo signore chiamare. Del Conte non era alcuno che ragionasse: tanto erano ancora potenti gli sdegni avevano seco. Non di meno, non si accordando degli altri, Gasparre da Vicomercato fu il primo che nominò il Conte; e largamente mostrò come, volendosi levare la guerra da dosso, non ci era altro modo che chiamare quello; perché il popolo di Milano aveva bisogno di una certa e presente pace, non d’una speranza lunga d’uno futuro soccorso. Scusò con le parole le imprese del Conte; accusò i Viniziani; accusò tutti gli altri principi di Italia, che non aveno voluto, chi per ambizione, chi per avarizia, che vivessino liberi. E da poi che la loro libertà si aveva a dare, si desse ad uno che li sapesse e potesse difendere; acciò che almeno dalla servitù nascesse la pace, e non maggiori danni e più pericolosa guerra. Fu costui con maravigliosa attenzione ascoltato; e tutti, finito il suo parlare, gridorono che il Conte si chiamasse, e Gasparre feciono ambasciadore a chiamarlo. Il quale, per comandamento del popolo, andò a trovare il Conte, e gli portò sì lieta e felice novella. La quale il Conte accettò lietamente, ed entrato in Milano come principe, a’ 26 di febbraio, nel 1450, fu con somma e maravigliosa letizia ricevuto da coloro che non molto tempo innanzi lo avieno con tanto odio infamato.
Venuta la nuova di questo acquisto a Firenze, si ordinò agli oratori fiorentini che erano in cammino che, in cambio di andare a trattare accordo con il Conte, si rallegrassino con il Duca della vittoria. Furono questi oratori da il Duca ricevuti onorevolmente e copiosamente onorati, perché sapeva bene che contro alla potenza de’ Viniziani non poteva avere in Italia più fedeli né più gagliardi amici de’ Fiorentini; i quali, avendo deposto il timore della casa de’ Visconti, si vedeva che avevono a combattere con le forze de’ Ragonesi e Viniziani; perché i Ragonesi re di Napoli erano loro nimici per la amicizia che sapevano che il popolo fiorentino aveva sempre con la casa di Francia tenuta e i Viniziani cognoscevano che l’antica paura de’ Visconti era nuova di loro, e perché sapevono con quanto studio eglino avevono i Visconti perseguitati, temendo le medesime persecuzioni, cercavano la rovina di quelli. Queste cose furono cagione che il nuovo Duca facilmente si ristrignesse con i Fiorentini, e che i Viniziani e re Alfonso si accordassero contro a’ comuni nimici: e si obligorono in uno medesimo tempo a muovere le armi; e che il Re assalisse i Fiorentini e i Viniziani il Duca, il quale, per essere nuovo nello stato, credevono né con le forze proprie né con gli aiuti d’altri potesse sostenerli. Ma perché la lega tra i Fiorentini e Viniziani durava, e il Re, dopo la guerra di Piombino, aveva fatto pace con quelli, non parve loro da rompere la pace, se prima con qualche colore non si giustificasse la guerra. E per ciò l’uno e l’altro mandò ambasciadore a Firenze; i quali per parte de’ loro signori feciono intendere la lega fatta essere, non per offendere alcuno, ma per difendere gli stati loro. Dolfesi di poi il Viniziano che i Fiorentini avevono dato passo per Lunigiana ad Alessandro fratello del Duca che con genti passasse in Lombardia e di più erano stati aiutatori e consigliatori dello accordo fatto intra il Duca e il marchese di Mantova. Le quali cose tutte affermavano essere contrarie allo stato loro e alla amicizia avieno insieme e per ciò ricordavano loro amorevolmente che chi offende a torto dà cagione ad altri di essere offeso a ragione, e che chi rompe la pace aspetti la guerra. Fu commessa dalla Signoria la risposta a Cosimo; il quale, con lunga e savia orazione, riandò tutti i beneficii fatti dalla città sua alla republica viniziana; mostrò quanto imperio quella aveva, con i danari, con le genti e con il consiglio de’ Fiorentini, acquistato; e ricordò loro che, poi che da i Fiorentini era venuta la cagione della amicizia, non mai verrebbe la cagione della nimicizia; ed essendo stati sempre amatori della pace, lodavano assai lo accordo fatto infra loro, quando per pace, e non per guerra, fusse fatto. Vero era che delle querele fatte assai si maravigliava, veggendo che di sì leggieri cosa e vana da una tanta republica si teneva tanto conto; ma quando pure fussero degne di essere considerate, facevono a ciascuno intendere come e’ volevono che il paese loro fusse libero e aperto a qualunque, e che il Duca era di qualità che per fare amicizia con Mantova non aveva né de’ favori né de’ consigli loro bisogno. E per ciò dubitava che queste querele non avessero altro veleno nascosto che le non dimostravano, il che quando fusse, farebbono cognoscere a ciascuno facilmente l’amicizia de’ Fiorentini quanto la è utile, tanto essere la nimicizia dannosa.
Passò per allora la cosa leggiermente, e parve che gli oratori se ne andassero assai sodisfatti. Non di meno la lega fatta e i modi de’ Viniziani e del Re facevono più tosto temere i Fiorentini e il Duca di nuova guerra, che sperare ferma pace. Per tanto i Fiorentini si collegorono con il Duca; e intanto si scoperse il malo animo de’ Viniziani, perché feciono lega con i Sanesi, e cacciorono tutti i Fiorentini e loro sudditi della città e imperio loro. E poco appresso Alfonso fece il simigliante, e sanza avere alla pace l’anno davanti fatta alcuno rispetto, e sanza averne, non che giusta, ma colorita cagione. Cercorono i Viniziani di acquistarsi i Bolognesi, e fatti forti i fuori usciti, gli missono con assai gente, di notte, per le fogne, in Bologna; né prima si seppe la entrata loro, che loro medesimi levassero il romore. Al quale Santi Bentivogli sendosi desto, intese come tutta la città era da’ ribelli occupata; e benché fusse consigliato da molti che con la fuga salvasse la vita, poi che con lo stare non poteva salvare lo stato, non di meno volle mostrare alla fortuna il viso; e prese le armi, e dette animo a’ suoi, e fatto testa di alcuni amici, assalì parte de’ ribelli, e quelli rotti, molti ne ammazzò, e il restante cacciò della città. Dove per ciascuno fu giudicato avere fatto verissima pruova di essere della casa de’ Bentivogli. Queste opere e dimostrazioni feciono in Firenze ferma credenza della futura guerra; e però si volsono i Fiorentini alle loro antiche e consuete difese; e creorono il magistrato de’ Dieci, soldorono nuovi condottieri, mandorono oratori a Roma, a Napoli, a Vinegia, a Milano e a Siena, per chiedere aiuti agli amici, chiarire i sospetti, guadagnarsi i dubi e scoprire i consigli de’ nimici. Dal Papa non si ritrasse altro che parole generali, buona disposizione e conforti alla pace; dal Re vane scuse di avere licenziati i Fiorentini, offerendosi volere dare il salvocondotto a qualunque lo adimandasse. E benché s’ingegnasse al tutto i consigli della nuova guerra nascondere, non di meno gli ambasciadori cognobbono il malo animo suo, e scopersono molte sue preparazioni per venire a’ danni della republica loro. Col Duca di nuovo con varii oblighi si fortificò la lega; e per suo mezzo si fece amicizia con i Genovesi, e le antiche differenzie di rappresaglie e molte altre querele si composono, non ostante che i Viniziani cercassero per ogni modo tale composizione turbare. Né mancorono di supplicare allo imperadore di Gostantinopoli che dovesse cacciare la nazione fiorentina del paese suo: con tanto odio presono questa guerra; e tanto poteva in loro la cupidità del dominare, che sanza alcuno rispetto volevono distruggere coloro che della loro grandezza erano stati cagione; ma da quello imperadore non furono intesi. Fu da il Senato viniziano alli oratori fiorentini proibito lo entrare nello stato di quella republica, allegando che, sendo in amicizia con il Re, non potevono, sanza sua participazione, udirli. I Sanesi con buone parole gli ambasciadori riceverono, temendo di non essere prima disfatti che la lega li potesse difendere, e per ciò parve loro di addormentare quelle armi che non potevono sostenere. Vollono i Viniziani e il Re, secondo che allora si conietturò, per giustificare la guerra, mandare oratori a Firenze, ma quello de’ Viniziani non fu voluto intromettere nel dominio fiorentino, e non volendo quello del Re solo fare quello uffizio, restò quella legazione imperfetta; e i Viniziani per questo cognobbono essere stimati meno da quelli Fiorentini che non molti mesi innanzi avevono stimati poco.
Nel mezzo del timore di questi moti, Federigo III imperadore passò in Italia per coronarsi, e a dì 30 di gennaio, nel 1451, entrò in Firenze con mille cinquecento cavagli, e fu da quella Signoria onoratissimamente ricevuto; e stette in quella città infino a dì 6 di febbraio, che quello partì per ire a Roma alla sua coronazione. Dove solennemente coronato, e celebrate le nozze con la imperadrice, la quale per mare era venuta a Roma, se ne ritornò nella Magna; e di maggio passò di nuovo per Firenze, dove gli furono fatti i medesimi onori che alla venuta sua. E nel ritornarsene, sendo stato dal marchese di Ferrara benificato, per ristorare quello, gli concesse Modena e Reggio. Non mancorono i Fiorentini, in questo medesimo tempo, di prepararsi alla imminente guerra, e per dare reputazione a loro e terrore al nimico, feciono, eglino e il Duca, lega con il re di Francia per difesa de’ comuni stati; la quale con grande magnificenza e letizia per tutta Italia publicorono. Era venuto il mese di maggio dell’anno 1452, quando ai Viniziani non parve da differire più di rompere la guerra al Duca, e con sedici mila cavagli e sei mila fanti, dalla parte di Lodi lo assalirono; e nel medesimo tempo il marchese di Monferrato, o per sua propria ambizione, o spinto da’ Viniziani, ancora lo assalì dalla parte di Alessandria. Il Duca dall’altra parte aveva messo insieme diciotto mila cavalli e tre mila fanti, e avendo proveduto Alessandria e Lodi di gente, e similmente muniti tutti i luoghi dove i nimici lo potessino offendere, assalì con le sue genti il Bresciano, dove fece a’ Viniziani danni grandissimi; e da ciascuna parte si predava il paese, e le deboli ville si saccheggiavano. Ma sendo rotto il marchese di Monferrato ad Alessandria dalle genti del Duca, potette quello, di poi, con maggiori forze opporsi a’ Viniziani e il paese loro assalire.
Travagliandosi per tanto la guerra di Lombardia con varii ma deboli accidenti e poco degni di memoria, in Toscana nacque medesimamente la guerra del re Alfonso e de’ Fiorentini, la quale non si maneggiò con maggiore virtù né con maggiore pericolo che si maneggiasse quella di Lombardia. Venne in Toscana Ferrando, figliuolo non legittimo di Alfonso, con dodici mila soldati, capitaneati da Federigo signore di Urbino. La prima loro impresa fu ch’eglino assalirono Foiano in Val di Chiana; perché, avendo amici i Sanesi, entrorono da quella parte nello imperio fiorentino. Era il castello debile di mura, piccolo, e per ciò non pieno di molti uomini; ma secondo quelli tempi, erano reputati feroci e fedeli. Erano in quello dugento soldati mandati dalla Signoria per guardia di esso. A questo così munito castello Ferrando si accampò; e fu tanta, o la gran virtù di quelli di dentro o la poca sua, che non prima che dopo trentasei giorni se ne insignorì. Il quale tempo dette commodità alla città di provedere gli altri luoghi di maggiore momento, e di ragunare le loro genti, e meglio che non erano, alle difese loro ordinarsi. Preso i nimici questo castello, passorono nel Chianti, dove due piccole ville possedute da privati cittadini non poterono espugnare. Donde che, lasciate quelle, se n’andorono a campo alla Castellina, castello posto a’ confini del Chianti, propinquo a dieci miglia a Siena, debile per arte, e per sito debilissimo; ma non poterono per ciò queste due debolezze superare la debolezza dello esercito che lo assalì, perché, dopo quarantaquattro giorni che gli stette a combatterlo, se ne partì con vergogna. Tanto erano quelli eserciti formidabili e quelle guerre pericolose, che quelle terre le quali oggi come luoghi impossibili a defenderli si abbandonano, allora come cose impossibili a pigliarsi si defendevono. E mentre che Ferrando stette con il campo in Chianti, fece assai correrie e prede nel Fiorentino, e corse infino propinquo a sei miglia alla città, con paura e danno assai de’ sudditi de’ Fiorentini. I quali in questi tempi, avendo condotte le loro genti, in numero di ottomila soldati, sotto Astor da Faenza e Gismondo Malatesti, verso il castello di Colle, le tenevano discosto al nimico, temendo che le non fussino necessitate di venire a giornata; perché giudicavano, non perdendo quella, non potere perdere la guerra; perché le piccole castella, perdendole, con la pace si recuperano, e delle terre grosse erano securi, sapiendo che il nimico non era per assalirle. Aveva ancora il Re una armata di circa venti legni, tra galee e fuste, ne’ mari di Pisa; e mentre che per terra la Castellina si combatteva, pose questa armata alla rocca di Vada, e quella, per poca diligenzia del castellano occupò, per che i nimici di poi il paese allo intorno molestavano; la quale molestia facilmente si levò via per alcuni soldati che i Fiorentini mandorono a Campiglia, i quali tenevano i nimici stretti alla marina.
Il Pontefice intra queste guerre non si travagliava, se non in quanto egli credeva potere mettere accordo infra le parti; e benché e’ si astenessi dalla guerra di fuori, fu per trovarla più pericolosa in casa. Viveva in quelli tempi un messer Stefano Porcari, cittadino romano, per sangue e per dottrina, ma molto più per eccellenza di animo, nobile. Desiderava costui, secondo il costume degli uomini che appetiscono gloria, o fare, o tentare almeno, qualche cosa degna di memoria; e giudicò non potere tentare altro, che vedere se potesse trarre la patria sua delle mani de’ prelati e ridurla nello antico vivere, sperando per questo, quando gli riuscisse, essere chiamato nuovo fondatore e secondo padre di quella città. Facevagli sperare di questa impresa felice fine i malvagi costumi de’ prelati e la mala contentezza de’ baroni e popolo romano; ma sopra tutto gliene davano speranza quelli versi del Petrarca, nella canzona che comincia: "Spirto gentil che quelle membra reggi", dove dice: Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai Un cavalier che Italia tutta onora, Pensoso più d’altrui che di se stesso. Sapeva messere Stefano i poeti molte volte essere di spirito divino e profetico ripieni; tal che giudicava dovere ad ogni modo intervenire quella cosa che il Petrarca in quella canzona profetizzava, ed essere egli quello che dovesse essere di sì gloriosa impresa esecutore; parendogli, per eloquenzia, per dottrina, per grazia e per amici, essere superiore ad ogni altro romano. Caduto adunque in questo pensiero, non potette in modo cauto governarsi, che con le parole, con le usanze e con il modo del vivere non si scoprisse, talmente che divenne sospetto al Pontefice, il quale, per torgli commodità a potere operare male, lo confinò a Bologna, e al governatore di quella città commisse che ciascuno giorno lo rassegnasse. Non fu messer Stefano per questo primo intoppo sbigottito, anzi con maggiore studio seguitò la impresa sua, e per quelli mezzi poteva più cauti, teneva pratiche con gli amici; e più volte andò e tornò da Roma con tanta celerità, che gli era a tempo a rappresentarsi al governatore infra i termini comandati. Ma dappoi che gli parve avere tratti assai uomini alla sua volontà, deliberò di non differire a tentare la cosa; e commisse agli amici i quali erano in Roma che, in un tempo determinato, una splendida cena ordinassero, dove tutti i congiurati fussero chiamati, con ordine che ciascheduno avesse seco i più fidati amici, e promisse di essere con loro avanti che la cena fusse fornita. Fu ordinato tutto secondo lo avviso suo, e messere Stefano era già arrivato nella casa dove si cenava, tanto che, fornita la cena, vestito di drappo d’oro, con collane e altri ornamenti che gli davano maestà e riputazione, comparse infra i convivanti, e quelli abbracciati, con una lunga orazione gli confortò a fermare l’animo e disporsi a sì gloriosa impresa. Di poi divisò il modo; e ordinò che una parte di loro, la mattina seguente, il palagio del Pontefice occupasse, l’altra, per Roma, chiamasse il popolo all’arme. Venne la cosa a notizia al Pontefice la notte: alcuni dicono che fu per poca fede de’ congiurati, altri che si seppe essere messere Stefano in Roma. Comunque si fusse, il Papa, la notte medesima che la cena si era fatta, fece prendere messere Stefano con la maggior parte de’ compagni, e di poi, secondo che meritavano i falli loro, morire. Cotal fine ebbe questo suo disegno. E veramente puote essere da qualcuno la costui intenzione lodata, ma da ciascuno sarà sempre il giudicio biasimato; perché simili imprese, se le hanno in sé, nel pensarle, alcuna ombra di gloria, hanno, nello esequirle, quasi sempre certissimo danno.
Era già durata la guerra in Toscana quasi che uno anno, ed era venuto il tempo, nel 1453, che gli eserciti si riducono alla campagna, quando al soccorso de’ Fiorentini venne il signore Alessandro Sforza, fratello del Duca, con due mila cavagli; e per questo, essendo lo esercito de’ Fiorentini cresciuto e quello del Re diminuito, parve a’ Fiorentini di andare a recuperare le cose perdute; e con poca fatica alcune terre recuperorono. Di poi andorono a campo a Foiano, il quale fu per poca cura de’ commissari saccheggiato, tanto che, essendo dispersi gli abitatori, con difficultà grande vi tornorono ad abitare, e con esenzioni e altri premii vi si ridussono. La rocca ancora di Vada si racquistò, perché i nimici, veggendo di non poterla tenere, l’abbandonorono e arsono. E mentre che queste cose dallo esercito fiorentino erano operate, lo esercito ragonese, non avendo ardire di appressarsi a quello de’ nimici, si era ridotto propinquo a Siena, e scorreva molte volte nel Fiorentino, dove faceva ruberie, tumulti e spaventi grandissimi. Né mancò quel re di vedere se poteva per altra via assalire i nimici, e dividere le forze di quelli, e per nuovi travagli e assalti invilirgli. Era signore di Val di Bagno Gherardo Gambacorti, il quale, o per amicizia o per obligo, era stato sempre, insieme con i suoi passati, o soldato o raccomandato de’ Fiorentini. Con costui tenne pratica il re Alfonso, che gli desse quello stato, ed egli, allo incontro, d’uno altro stato nel Regno lo ricompensasse. Questa pratica fu rivelata a Firenze; e per scoprire lo animo suo, se gli mandò uno ambasciadore, il quale gli ricordassi gli oblighi de’ passati e suoi, e lo confortasse a seguire nella fede con quella republica. Mostrò Gherardo maravigliarsi, e con giuramenti gravi affermò non mai sì scellerato pensiero essergli caduto nello animo; e che verrebbe in persona a Firenze a farsi pegno della fede sua; ma sendo indisposto, quello che non poteva fare egli farebbe fare al figliuolo il quale come statico consegnò allo ambasciadore, che a Firenze seco ne lo menasse. Queste parole e questa demostrazione feciono a’ Fiorentini credere che Gherardo dicesse il vero, e lo accusatore suo essere stato bugiardo e vano; e per ciò sopra questo pensiero si riposorono. Ma Gherardo con maggiore instanzia seguitò con il Re la pratica; la quale come fu conclusa, il Re mandò in Val di Bagno frate Puccio, cavaliere ierosolimitano, con assai gente, a prendere delle rocche e delle terre di Gherardo la possessione. Ma quelli popoli di Bagno, sendo alla republica fiorentina affezionati, con dispiacere promettevano ubbidienza a’ commissari del Re. Aveva già preso frate Puccio quasi che la possessione di tutto quello stato: solo gli mancava di insignorirsi della rocca di Corzano. Era con Gherardo, mentre faceva tale consegnazione, infra i suoi che gli erano d’intorno, Antonio Gualandi, pisano, giovane e ardito, a cui questo tradimento di Gherardo dispiaceva; e considerato il sito della fortezza, e gli uomini che vi erano in guardia, e cognosciuta nel viso e ne’ gesti la mala loro contentezza, e trovandosi Gherardo alla porta per intromettere le genti ragonesi, si girò Antonio verso il di drento della rocca, e spinse con ambo le mani Gherardo fuora di quella, e alle guardie comandò che sopra il volto di sì scelerato uomo quella fortezza serrassero e alla republica fiorentina la conservassero. Questo romore come fu udito in Bagno e negli altri luoghi vicini, ciascuno di quelli popoli prese le armi contro a’ Ragonesi, e ritte le bandiere di Firenze, quelli ne cacciorono. Questa cosa come fu intesa a Firenze, i Fiorentini il figliuolo di Gherardo dato loro per statico imprigionorono, e a Bagno mandorono genti che quel paese per la loro republica defendessero, e quello stato che per il principe si governava in vicariato redussono. Ma Gherardo, traditore del suo signore e del figliuolo, con fatica poté fuggire, e lasciò la donna e sua famiglia, con ogni sua sustanza, nella potestà de’ nimici. Fu stimato assai, in Firenze, questo accidente, perché, se succedeva al Re di quello paese insignorirsi, poteva con poca sua spesa a sua posta in Val di Tevere e in Casentino correre; dove arebbe dato tanta noia alla Republica, che non arebbono i Fiorentini potuto le loro forze tutte allo esercito ragonese, che a Siena si trovava, opporre.
Avevano i Fiorentini, oltre agli apparati fatti in Italia per reprimere le forze della inimica lega, mandato messer Agnolo Acciaiuoli loro oratore al re di Francia, a trattare con quello, che dessi facultate ad il re Rinato d’Angiò di venire in Italia in favore del Duca e loro, acciò che venisse a defendere i suoi amici, e potesse di poi, sendo in Italia, pensare allo acquisto del regno di Napoli e a questo effetto, aiuto di genti e di denari gli promettevano. E così, mentre che in Lombardia e in Toscana la guerra secondo abbiamo narrato, si travagliava lo ambasciadore con il re Rinato lo accordo conchiuse: che dovesse venire per tutto giugno con duemila quattrocento cavagli in Italia; e allo arrivare suo in Alessandria la lega gli doveva dare trentamila fiorini, e di poi, durante la guerra, diecimila per ciascuno mese. Volendo adunque questo re, per virtù di questo accordo, passare in Italia, era da il duca di Savoia e marchese di Monferrato ritenuto, i quali, sendo amici de’ Viniziani, non gli permettevano il passo. Onde che il Re fu dallo ambasciadore fiorentino confortato che, per dare reputazione agli amici, se ne tornasse in Provenza, e per mare con alquanti suoi scendesse in Italia; e dall’altra parte facesse forza con il re di Francia, che operasse con quel duca che le genti sue potessero per la Savoia passare. E così come fu consigliato successe; perché Rinato, per mare, si condusse in Italia, e le sue genti, a contemplazione del Re, furono ricevute in Savoia. Fu il re Rinato raccettato da il duca Francesco onoratissimamente; e messe le genti italiane e franzese insieme, assalirono con tanto terrore i Viniziani, che in poco tempo tutte le terre che quelli avevano prese nel Cremonese recuperorono; né contenti a questo, quasi che tutto il Bresciano occuporono; e l’esercito viniziano, non si tenendo più securo in campagna, propinquo alle mura di Brescia si era ridutto. Ma sendo venuto il verno, parve al Duca di ritirare le sue genti negli alloggiamenti, e al re Rinato consegnò le stanze a Piacenza. E così, dimorato il verno del 1453 sanza fare alcuna impresa, quando di poi la state ne veniva, e che si stimava per il Duca uscire alla campagna e spogliare i Viniziani dello stato loro di terra, il re Rinato fece intendere al Duca come egli era necessitato ritornarsene in Francia. Fu questa deliberazione al Duca nuova e inespettata, e per ciò ne prese dispiacere grandissimo, e benché subito andassi da quello per dissuadergli la partita, non possé né per preghi né per promesse rimuoverlo; ma solo promisse lasciare parte delle sue genti e mandare Giovanni suo figliuolo, che per lui fusse a’ servizi della lega. Non dispiacque questa partita a’ Fiorentini, come quelli che, avendo recuperate le loro castella, non temevano più il Re, e dall’altra parte non desideravano che il Duca altro che le sue terre in Lombardia ricuperasse. Partissi per tanto Rinato, e mandò il suo figliuolo, come aveva promesso, in Italia; il quale non si fermò in Lombardia, ma ne venne a Firenze, dove onoratissimamente fu ricevuto.
La partita del Re fece che il Duca volentieri si voltò alla pace; e i Viniziani, Alfonso e i Fiorentini, per essere tutti stracchi, la desideravano, e il Papa ancora con ogni demostrazione la aveva desiderata e desiderava, perché questo medesimo anno Maumetto Gran Turco aveva preso Gostantinopoli e al tutto di Grecia insignoritosi. Il quale acquisto sbigottì tutti i cristiani, e più che ciascuno altro i Viniziani e il Papa, parendo a ciascuno già di questi sentire le sue armi in Italia. Il Papa per tanto pregò i potentati italiani gli mandassero oratori, con autorità di fermare una universale pace. I quali tutti ubbidirono; e venuti insieme a’ meriti della cosa, vi si trovava nel trattarla assai difficultà: voleva il Re che i Fiorentini lo rifacessero delle spese fatte in quella guerra, e i Fiorentini volevono esserne sodisfatti loro, i Viniziani domandavano al Duca Cremona, il Duca a loro Bergamo, Brescia e Crema; tal che pareva che queste difficultà fussero a risolvere impossibile. Non di meno, quello che a Roma fra molti pareva difficile a fare, a Milano e a Vinegia infra duoi fu facilissimo; perché, mentre che le pratiche a Roma della pace si tenevano, il Duca e i Viniziani, a dì 9 di aprile, nel 1454, la conclusono. Per virtù della quale ciascuno ritornò nelle terre possedeva avanti la guerra, e al Duca fu concesso potere recuperare le terre gli avieno occupate i principi di Monferrato e di Savoia; e agli altri italiani principi fu uno mese a ratificarla concesso. Il Papa e i Fiorentini, e con loro Sanesi e altri minori potenti, fra il tempo la ratificorono; né contenti a questo, si fermò fra i Fiorentini, Duca e Viniziani pace per anni venticinque. Mostrò solamente il re Alfonso, delli principi di Italia, essere di questa pace mal contento, parendogli fusse fatta con poca sua reputazione, avendo, non come principale, ma come aderente ad essere ricevuto in quella; e per ciò stette molto tempo sospeso, sanza lasciarsi intendere. Pure, sendogli state mandate, dal Papa e dagli altri principi molte solenne ambascerie, si lasciò da quelli, e massime dal Pontefice, persuadere, ed entrò in questa lega, con il figliuolo, per anni trenta; e ferono insieme il Duca e il Re doppio parentado e doppie nozze, dando e togliendo la figliuola l’uno dell’altro per i loro figliuoli. Non di meno, acciò che in Italia restassero i semi della guerra, non consentì fare la pace, se prima dai collegati non gli fu concessa licenzia di potere, sanza loro ingiuria, fare guerra a’ Genovesi, a Gismondo Malatesti e ad Astor principe di Faenza. E fatto questo accordo, Ferrando suo figliuolo, il quale si trovava a Siena, se ne tornò nel Regno, avendo fatto, per la venuta sua in Toscana, niuno acquisto di imperio, e assai perdita di sue genti.
Sendo adunque seguita questa pace universale, si temeva solo che il re Alfonso, per la nimicizia aveva con i Genovesi, non la turbasse, ma il fatto andò altrimenti, perché, non da il Re apertamente, ma, come sempre per lo addietro era intervenuto, dalla ambizione de’ soldati mercennari fu turbata. Avevono i Viniziani, come è costume, fatta la pace, licenziato da’ loro soldi Iacopo Piccinino loro condottiere; con il quale aggiuntosi alcuni altri condottieri sanza partito, passarono in Romagna, e di quindi nel Sanese, dove fermatosi, Iacopo mosse loro guerra, e occupò a’ Sanesi alcune terre. Nel principio di questi moti, e al cominciamento dello anno 1455, morì papa Niccola, e a lui fu eletto successore Calisto III. Questo pontefice, per reprimere la nuova e vicina guerra, subito sotto Giovanni Ventimiglia suo capitano ragunò quanta più gente potette, e quelle, con gente de’ Fiorentini e del Duca, i quali ancora a reprimere questi moti erano concorsi, mandò contro a Iacopo. E venuti alla zuffa propinqui a Bolsena, non ostante che il Ventimiglia restasse prigione, Iacopo ne rimase perdente, e come rotto a Castiglione della Pescaia si ridusse; e se non fusse stato da Alfonso suvvenuto di danari, vi rimaneva al tutto disfatto. La qual cosa fece a ciascuno credere questo moto di Iacopo essere per ordine di quello re seguito; in modo che, parendo ad Alfonso di essere scoperto, per riconciliarsi i collegati con la pace, che si aveva con questa debile guerra quasi che alienati, operò che Iacopo restituisse a’ Sanesi le terre occupate loro, e quelli gli dessino ventimila fiorini; e fatto questo accordo, ricevé Iacopo e le sue genti nel Regno. In questi tempi, ancora che il Papa pensasse a frenare Iacopo Piccinino, non di meno non mancò di ordinarsi a potere suvvenire alla cristianità, che si vedeva che era per essere dai Turchi oppressata; e per ciò mandò per tutte le provincie cristiane oratori e predicatori, a persuadere ai principi e ai popoli che si armassero in favore della loro religione e con danari e con la persona la impresa contro al comune nimico di quella favorissero. Tanto che in Firenze si ferono assai limosine, assai ancora si segnorono d’una croce rossa, per essere presti con la persona a quella guerra, fecionsi ancora solenne processioni, né si mancò, per il publico e per il privato, di mostrare di volere essere intra i primi cristiani, con il consiglio, con i danari e con gli uomini, a tale impresa. Ma questa caldezza della cruciata fu raffrenata alquanto da una nuova che venne, come, sendo il Turco con lo esercito suo intorno a Belgrado per espugnarlo, castello posto in Ungheria sopra il fiume del Danubio, era stato dagli Ungheri rotto e ferito. Talmente che, essendo nel Pontefice e ne’ cristiani cessata quella paura ch’ eglino avieno per la perdita di Gostantinopoli conceputa, si procedé nelle preparazioni che si facevano per la guerra più tepidamente; e in Ungheria medesimamente, per la morte di Giovanni Vaivoda, capitano di quella vittoria, raffreddorono.
Ma tornando alle cose di Italia, dico come e’ correva l’anno 1456, quando i tumulti mossi da Iacopo Piccinino finirono, donde che, posate le armi dagli uomini, parve che Iddio le volessi prendere egli, tanta fu grande una tempesta di venti che allora seguì, la quale in Toscana fece inauditi per lo adietro e a chi per lo avvenire lo intenderà maravigliosi e memorabili effetti. Partissi a’ 24 d’agosto, una ora avanti giorno, dalle parti del mare di sopra di verso Ancona, e attraversando per la Italia, entrò nel mare di sotto verso Pisa, un turbine d’una nugolaglia grossa e folta, la quale quasi che due miglia di spazio per ogni verso occupava. Questa, spinta da superiori forze, o naturali o sopranaturali che le fussero, in se medesimo rotta, in se medesimo combatteva, e le spezzate nugole, ora verso il cielo salendo, ora verso la terra scendendo, insieme si urtavano; e ora in giro con una velocità grandissima si movevano, e davanti a loro un vento fuori d’ogni modo impetuoso concitavano; e spessi fuochi e lucidissimi vampi intra loro nel combattere apparivono. Da queste così rotte e confuse nebbie, da questi così furiosi venti e spessi splendori, nasceva uno romore non mai più da alcuna qualità o grandezza di tremuoto o di tuono udito; dal quale usciva tanto spavento che ciascuno che lo sentì giudicava che il fine del mondo fusse venuto, e la terra, l’acqua e il resto del cielo e del mondo, nello antico caos, mescolandosi insieme, ritornassero. Fe’ questo spaventevole turbine, dovunque passò, inauditi e maravigliosi effetti; ma più notabili che altrove intorno al castello di San Casciano seguirono. È questo castello posto propinquo a Firenze ad otto miglia, sopra il colle che parte le valli di Pesa e di Grieve. Fra detto castello, adunque, e il borgo di Santo Andrea, posto sopra il medesimo colle, passando, questa furiosa tempesta, a Santo Andrea non aggiunse, e San Casciano rasentò in modo che solo alcuni merli e cammini di alcune case abbatté, ma fuori, in quello spazio che è dall’uno de’ luoghi detti all’altro, molte case furono infino al piano della terra rovinate. I tetti de’ templi di San Martino a Bagnuolo e di Santa Maria della Pace, interi come sopra quelli erano, furono più che un miglio discosto portati, uno vetturale, insieme con i suoi muli, fu, discosto dalla strada, nelle vicine convalli trovato morto, tutte le più grosse querce, tutti i più gagliardi arbori, che a tanto furore non volevono cedere, furono, non solo sbarbati, ma discosto molto da dove avevano le loro radice portati; onde che, passata la tempesta e venuto il giorno, gli uomini stupidi al tutto erano rimasi. Vedevasi il paese desolato e guasto; vedevasi la rovina delle case e de’ templi; sentivansi i lamenti di quelli che vedevano le loro possessioni distrutte, e sotto le rovine avevano lasciato il loro bestiame e i loro parenti morti: la qual cosa a chi vedeva e udiva recava compassione e spavento grandissimo. Volle senza dubio Iddio più tosto minacciare che gastigare la Toscana; perché se tanta tempesta fusse entrata in una città, infra le case e gli abitatori assai e spessi, come l’entrò fra querce e arbori e case poche e rare, sanza dubio faceva quella rovina e fragello che si può con la mente conietturare maggiore. Ma Iddio volle, per allora, che bastasse questo poco di esemplo a rinfrescare infra gli uomini la memoria della potenzia sua.
Era, per tornare donde io mi partii, il re Alfonso, come di sopra dicemmo, male contento della pace; e poi che la guerra ch’egli aveva fatta muovere da Iacopo Piccinino a’ Sanesi sanza alcuna ragionevole cagione non aveva alcuno importante effetto partorito, volle vedere quello che partoriva quella la quale, secondo le convenzioni della lega, poteva muovere. E però, l’anno 1456, mosse per mare e per terra guerra a’ Genovesi, desideroso di rendere lo stato agli Adorni e privarne i Fregosi che allora governavano; e dall’altra parte fece passare il Tronto a Iacopo Piccinino contro a Gismondo Malatesti. Costui perché aveva guernite bene le sue terre stimò poco lo assalto di Iacopo; di maniera che da questa parte la impresa del Re non fece alcuno effetto, ma quella di Genova partorì a lui e al suo regno più guerra che non arebbe voluto. Era allora duce di Genova Pietro Fregoso. Costui, dubitando non potere sostenere l’impeto del Re, deliberò quello che non poteva tenere donarlo almeno ad alcuno che da’ nimici suoi lo defendesse e qualche volta, per tale beneficio, gliene potesse giusto premio rendere. Mandò per tanto oratori a Carlo VII re di Francia, e gli offerì lo imperio di Genova. Accettò Carlo la offerta, e a prendere la possessione di quella città vi mandò Giovanni d’Angiò figliuolo del re Rinato, il quale di poco tempo avanti si era partito da Firenze e ritornato in Francia. E si persuadeva Carlo che Giovanni, per avere presi assai costumi italiani, potesse meglio che uno altro governare quella città; e parte giudicava che di quindi potesse pensare alla impresa di Napoli; del quale regno Rinato suo padre era stato da Alfonso spogliato. Andò per tanto Giovanni a Genova dove fu ricevuto come principe, e datogli in sua potestate le fortezze della città e dello stato.
Questo accidente dispiacque ad Alfonso, parendogli aversi tirato adosso troppo importante nimico, non di meno, per ciò non sbigottito, seguitò con franco animo la impresa sua e aveva già condotta l’armata sotto Villa Marina a Portofino, quando, preso da una subita infirmità, morì. Restorono, per questa morte, Giovanni e i Genovesi liberi dalla guerra; e Ferrando, il quale successe nel regno di Alfonso suo padre, era pieno di sospetto, avendo uno nimico di tanta reputazione in Italia, e dubitando della fede di molti suoi baroni, i quali desiderosi di cose nuove, ai Franzesi non si aderissino. Temeva ancora del Papa la ambizione del quale cognosceva, che per essere nuovo nel regno non disegnasse spogliarlo di quello. Sperava solo nel duca di Milano, il quale non era meno ansio delle cose del Regno che si fusse Ferrando, perché dubitava che, quando i Franzesi se ne fussero insignoriti, non disegnassero di occupare ancora lo stato suo, il quale sapeva come ei credevono potere come cosa a loro appartenente domandare. Mandò per tanto quel duca, subito dopo la morte di Alfonso, lettere e gente a Ferrando: queste per dargli aiuto e reputazione, quelle per confortarlo a fare buono animo, significandogli come non era, in alcuna sua necessità, per abbandonarlo. Il Pontefice dopo la morte di Alfonso, disegnò di dare quel regno a Pietro Lodovico Borgia suo nipote; e per adonestare quella impresa e avere più concorso con gli altri principi di Italia, publicò come sotto lo imperio della Romana Chiesa voleva quel regno ridurre; e per ciò persuadeva al Duca che non dovesse prestare alcuno favore a Ferrando, offerendogli le terre che già in quel regno possedeva. Ma nel mezzo di questi pensieri e nuovi travagli Calisto morì; e successe al pontificato Pio II, di nazione sanese, della famiglia de’ Piccoluomini, nominato Enea. Questo pontefice, pensando solamente a benificare i cristiani e ad onorar la Chiesa, lasciando indietro ogni sua privata passione, per i prieghi del duca di Milano, coronò del Regno Ferrando, giudicando poter più presto mantenendo chi possedeva posare l’armi italiane, che se avesse, o favorito i Franzesi perché gli occupassero quel regno, o disegnato, come Calisto, di prenderlo per sé. Non di meno Ferrando, per questo benifizio, fece principe di Malfi Antonio, nipote del Papa, e con quello congiunse una sua figliuola non legittima. Restituì ancora Benevento e Terracina alla Chiesa.
Pareva per tanto che fussero posate le armi in Italia, e il Pontefice si ordinava a muovere la cristianità contro a’ Turchi, secondo che da Calisto era già stato principiato, quando nacque intra i Fregosi e Giovanni signore di Genova dissensione, la quale maggiori guerre e più importanti di quelle passate raccese. Trovavasi Petrino Fregoso in uno suo castello in Riviera. A costui non pareva essere stato rimunerato da Giovanni d’Angiò secondo i suoi meriti e della sua casa, sendo loro stati cagione di farlo in quella città principe: per tanto vennono insieme a manifesta inimicizia. Piacque questa cosa a Ferrando, come unico rimedio e sola via alla sua salute; e Petrino di gente e di danari suvvenne, e per suo mezzo giudicava potere cacciare Giovanni di quello stato. Il che cognoscendo egli, mandò per aiuti in Francia, con i quali si fece incontro a Petrino, il quale, per molti favori gli erano stati mandati, era gagliardissimo; in modo che Giovanni si ridusse a guardare la città. Nella quale entrato una notte Petrino, prese alcuni luoghi di quella; ma venuto il giorno, fu dalle genti di Giovanni combattuto e morto, e tutte le sue genti o morte o prese. Questa vittoria dette animo a Giovanni di fare la impresa del Regno; e di ottobre, nel 1459, con una potente armata partì di Genova per alla volta di quello; e pose a Baia, e di quivi a Sessa, dove fu da quel duca ricevuto. Accostoronsi a Giovanni il principe di Taranto, gli Aquilani e molte altre città e principi; di modo che quel regno era quasi tutto in rovina. Veduto questo, Ferrando ricorse per aiuti al Papa e al Duca; e per avere meno nimici, fece accordo con Gismondo Malatesti. Per la qual cosa si turbò in modo Iacopo Piccinino, per essere di Gismondo naturale nimico, che si parti da’ soldi di Ferrando e accostossi a Giovanni. Mandò ancora Ferrando danari a Federigo signore di Urbino, e quanto prima poté, ragunò, secondo quelli tempi, uno buono esercito; e sopra il fiume di Sarni si ridusse a fronte con li nimici, e venuti alla zuffa, fu il re Ferrando rotto, e presi molti importanti suoi capitani. Dopo questa rovina rimase in fede di Ferrando la città di Napoli con alcuni pochi principi e terre: la maggiore parte a Giovanni si dierono. Voleva Iacopo Piccinino che Giovanni con questa vittoria andasse a Napoli e si insignorissi del capo del Regno; ma non volse, dicendo che prima voleva spogliarlo di tutto il dominio e poi assalirlo, pensando che, privo delle sue terre, lo acquisto di Napoli fusse più facile. Il quale partito, preso al contrario, gli tolse la vittoria di quella impresa; perché egli non cognobbe come più facilmente le membra seguono il capo che il capo le membra.
Erasi rifuggito, dopo la rotta, Ferrando in Napoli, e quivi gli scacciati de’ suoi stati riceveva; e con quelli modi più umani poté, ragunò danari insieme, e fece un poco di testa di esercito. Mandò di nuovo per aiuto al Papa e al Duca, e dall’uno e dall’altro fu suvvenuto con maggiore celerità e più copiosamente che per innanzi, perché vivevono con sospetto grande che non perdessi quel regno. Diventato per tanto il re Ferrando gagliardo, uscì di Napoli; e avendo cominciato a racquistare riputazione, riacquistava delle terre perdute. E mentre che la guerra nel Regno si travagliava, nacque uno accidente che al tutto tolse a Giovanni d’Angiò la reputazione e la commodità di vincere quella impresa. Erano i Genovesi infastiditi del governo avaro e superbo de’ Franzesi, tanto che presono le armi contro al governatore regio, e quello constrinsono a rifuggirsi nel Castelletto; e a questa impresa furono i Fregosi e gli Adorni concordi, e dal duca di Milano di danari e di gente furono aiutati, così nell’acquistare lo stato come nel conservarlo; tanto che il re Rinato, il quale con una armata venne di poi in soccorso del figliuolo, sperando riacquistare Genova per virtù del Castelletto, fu, nel porre delle sue genti in terra, rotto, di sorte che fu forzato tornarsene svergognato in Provenza. Questa nuova, come fu intesa nel regno di Napoli, sbigottì assai Giovanni d’Angiò; non di meno non lasciò la impresa; ma per più tempo sostenne la guerra aiutato da quelli baroni i quali, per la rebellione loro, non credevono apresso a Ferrando trovare luogo alcuno. Pure alla fine, dopo molti accidenti seguiti a giornata li duoi regali eserciti si condussono, nella quale fu Giovanni, propinquo a Troia, rotto, l’anno 1463. Né tanto l’offese la rotta, quanto la partita da lui di Iacopo Piccinino, il quale si accostò a Ferrando; sì che, spogliato di forze, si ridusse in Istia, donde poi se ne tornò in Francia. Durò questa guerra quattro anni e la perdé colui, per sua negligenzia, il quale, per virtù de’ suoi soldati l’ebbe più volte vinta. Nella quale i Fiorentini non si travagliorono in modo che apparisse: vero è che da il re Giovanni di Aragona, nuovamente assunto re in quel regno per la morte di Alfonso, furono, per sua ambasciata, richiesti che dovessero soccorrere alle cose di Ferrando suo nipote, come erano, per la lega nuovamente fatta con Alfonso suo padre, obligati. A cui per i Fiorentini fu risposto: non avere obligo alcuno con quello; e che non erano per aiutare il figliuolo in quella guerra che il padre con le armi sue aveva mossa; e come la fu cominciata sanza loro consiglio o saputa, così sanza il loro aiuto la tratti e finisca. Donde che quelli oratori, per parte del loro re, protestorono la pena dello obligo e gli interessi del danno; e sdegnati contro a quella città si partirono. Stettono per tanto i Fiorentini, nel tempo di questa guerra, quanto alle cose di fuori, in pace; ma non posorono già drento, come particularmente nel seguente libro si dimosterrà.