Istorie fiorentine/Libro sesto/Capitolo 20

Libro sesto

Capitolo 20

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Questo accordo, come fu saputo a Milano, contristò molto più quella città che non aveva la vittoria di Caravaggio rallegrata. Dolevonsi i principi, rammaricavansi i popolari, piangevano le donne e i fanciulli e tutti insieme il Conte traditore e disleale chiamavano; e benché quelli non credessino né con prieghi né con promesse dal suo ingrato proponimento rivocarlo, gli mandorono imbasciadori, per vedere con che viso e con quali parole questa sua sceleratezza accompagnasse. Venuti per tanto davanti al Conte, uno di quelli parlò in questa sentenza: - Sogliono coloro i quali alcuna cosa da alcuno impetrare desiderano, con i prieghi, premii o minacce assalirlo, acciò, mosso o dalla misericordia o dall’utile o dalla paura, a fare quanto da loro si desidera condescenda. Ma negli uomini crudeli e avarissimi, e secondo la opinione loro potenti, non vi avendo quelli tre modi luogo alcuno, indarno si affaticono coloro che credono o con i prieghi umiliarli o con i premii guadagnarli, o con le minacce sbigottirli. Noi per tanto, conoscendo al presente, benché tardi, la crudeltà, l’ambizione e superbia tua, veniamo a te, non per volere impetrare alcuna cosa, né per credere di ottenerla quando bene noi la domandassimo, ma per ricordarti i benefizi che tu hai dal popolo milanese ricevuti, e dimostrarti con quanta ingratitudine tu li hai ricompensati, acciò che almeno, infra tanti mali che noi sentiamo, si gusti qualche piacere per rimproverarteli. E’ ti debbe ricordare benissimo quali erano le condizioni tue dopo la morte del duca Filippo: tu eri del Papa e del Re inimico; tu avevi abbandonati i Fiorentini e Viniziani, de’ quali, e per il giusto e fresco sdegno, e per non avere quelli più bisogno di te, eri quasi che nimico divenuto; trovaviti stracco della guerra avevi avuta con la Chiesa, con poca gente, sanza amici, sanza danari e privo d’ogni speranza di potere mantenere gli stati tuoi e l’antica tua riputazione. Dalle quali cose facilmente cadevi, se non fusse stata la nostra semplicità: perché noi soli ti ricevemmo in casa, mossi dalla reverenzia avavamo alla felice memoria del Duca nostro; con il quale avendo tu parentado e nuova amicizia, credavamo che ne’ suoi eredi passasse lo amore tuo e che se a’ benifici suoi si aggiugnessino i nostri, dovesse questa amicizia, non solamente essere ferma, ma inseparabile; e per ciò alle antiche convenzioni Verona o Brescia aggiugnemmo. Che più potavamo noi darti e prometterti? E tu che potevi, non dico da noi, ma in quelli tempi da ciascuno, non dico avere, ma desiderare? Tu per tanto ricevesti da noi uno insperato bene; e noi, per ricompenso, riceviamo da te uno insperato male. Né hai differito infino ad ora a dimostrarci lo iniquo animo tuo; perché non prima fusti delle nostre armi principe, che, contro ad ogni giustizia, ricevesti Pavia; il che ne doveva ammunire quale doveva essere il fine di questa tua amicizia. La quale ingiuria noi sopportammo, pensando che quello acquisto dovessi empiere con la grandezza sua l’ambizione tua. Ahimè! che a coloro che desiderano il tutto non puote la parte sodisfare. Tu promettesti che noi gli acquisti di poi da te fatti godessimo, perché sapevi bene come quello che in molte volte ci davi ci potevi in un tratto ritorre; come è stato dopo la vittoria di Caravaggio; la quale, preparata prima con il sangue e con i danari nostri, poi fu con la nostra rovina conseguita. O infelice quelle città che hanno contro alla ambizione di chi le vuole opprimere a difendere la libertà loro; ma molto più infelice quelle che sono con le armi mercennarie e infedeli, come le tue, necessitate a difendersi! Vaglia almeno questo nostro esemplo a’ posteri, poi che quello di Tebe e di Filippo di Macedonia non è valuto a noi: il quale, dopo la vittoria avuta de’ nimici, prima diventò, di capitano, loro nimico, e di poi principe. Non possiamo per tanto essere d’altra colpa accusati, se non di avere confidato assai in quello in cui noi dovavamo confidare poco; perché la tua passata vita, lo animo tuo vasto, non contento mai di alcuno grado o stato, ci doveva ammunire; né dovavamo porre speranza in colui che aveva tradito il signore di Lucca, taglieggiato i Fiorentini e Vinizani, stimato poco il Duca, vilipeso un Re, e sopra tutto Iddio e la Chiesa sua con tante ingiurie perseguitata; né dovavamo mai credere che tanti principi fussero, nel petto di Francesco Sforza, di minore autorità che i Milanesi, e che si avessi ad osservare quella fede in noi, che si era negli altri più volte violata. Non di meno questa poca prudenza che ci accusa non scusa la perfidia tua, né purga quella infamia che le nostre giuste querele per tutto il mondo ti partoriranno, né farà che il giusto stimolo della tua conscienza non ti perseguiti, quando quelle armi, state da noi preparate per offendere e sbigottire altri, verranno a ferire e ingiuriare noi; perché tu medesimo ti giudicherai degno di quella pena che i parricidi hanno meritata. E quando pure l’ambizione ti accecassi, il mondo tutto, testimone della iniquità tua, ti farà aprire gli occhi; faratteli aprire Iddio, se i pergiurii, se la violata fede, se i tradimenti gli dispiacciono, e se sempre, come in fino ad ora per qualche occulto bene ha fatto, ei non vorrà essere de’ malvagi uomini amico. Non ti promettere adunque la vittoria certa, perché la ti fia dalla giusta ira di Dio impedita; e noi siamo disposti con la morte perdere la libertà nostra, la quale quando pure non potessimo difendere, ad ogni altro principe, prima che a te, la sottoporremo; e se pure i peccati nostri fussino tali che contro ad ogni nostra voglia ti venissimo in mano, abbi ferma fede che quel regno che sarà da te cominciato con inganno e infamia finirà, in te o ne’ tuoi figliuoli, con vituperio e danno.