Parlò a tutti messer Rinaldo degli Albizzi. Mostrò le condizioni della città; e come, per negligenzia loro, ella era tornata nella potestà della plebe, donde nel 1381 era stata da’ loro padri cavata; ricordò la iniquità di quello stato che regnò da il 78 allo ’81; e come da quello a tutti quelli che erano presenti era stato morto a chi il padre e a chi l’avolo; e come si ritornava ne’ medesimi pericoli, e la città ne’ medesimi disordini ricadeva, perché di già la moltitudine aveva posto una gravezza a suo modo, e poco di poi, se la non era da maggiore forza o da migliore ordine ritenuta, la creerebbe i magistrati secondo lo arbitrio suo; il che quando seguisse, occuperebbe i luoghi loro, e guasterebbe quello stato che quarantadue anni con tanta gloria della città aveva retto, e sarebbe Firenze governata, o a caso, sotto l’arbitrio della moltitudine, dove per una parte licenziosamente e per l’altra pericolosamente si viverebbe, o sotto lo imperio di uno che di quella si facesse principe. Per tanto affermava come ciascuno che amava la patria e lo onore suo era necessitato a risentirsi e ricordarsi della virtù di Bardo Mancini, il quale trasse la città, con la rovina degli Alberti, di quelli pericoli ne’ quali allora era; e come la cagione di questa audacia presa dalla moltitudine nasceva da’ larghi squittini che per negligenzia loro s’erano fatti, e si era ripieno il Palagio di uomini nuovi e vili. Concluse per tanto che solo ci vedeva questo modo a rimediarvi: rendere lo stato ai Grandi, e torre l’autorità alle Arti minori, riducendole da quattordici a sette; il che farebbe che la plebe ne’ Consigli arebbe meno autorità, sì per essere diminuito il numero loro, sì ancora per avere in quelli più autorità i Grandi, i quali per la vecchia inimicizia gli disfavorirebbero: affermando essere prudenza sapersi valere degli uomini secondo i tempi; perché, se i padri loro si valsono della plebe per spegnere la insolenza de’ Grandi, ora che i Grandi erano diventati umili e la plebe insolente era bene frenare la insolenzia sua con lo aiuto di quelli: e come a condurre queste cose ci era lo inganno o la forza, alla quale facilmente si poteva ricorrere, sendo alcuni di loro del magistrato de’ Dieci e potendo condurre secretamente nella città gente. Fu lodato messer Rinaldo, e il consiglio suo approvò ciascuno. E Niccolò da Uzano infra gli altri, disse tutte le cose che da messer Rinaldo erano state dette essere vere, e i rimedi buoni e certi, quando si potessero fare sanza venire ad una manifesta divisione della città, il che seguirebbe in ogni modo, quando non si tirasse alla voglia loro Giovanni de’ Medici: perché, concorrendo quello, la moltitudine, priva di capo e di forze, non potrebbe offendere; ma non concorrendo egli, non si potrebbe sanza arme fare, e con l’arme lo giudicava pericoloso o di non potere vincere o di non potere godersi la vittoria. E ridusse modestamente loro a memoria i passati ricordi suoi; e come e’ non avieno voluto rimediare a queste difficultà in quelli tempi che facilmente si poteva; ma che ora non si era più a tempo a farlo sanza temere di maggiore danno, e non ci restare altro rimedio che guadagnarselo. Fu data per tanto la commissione a messer Rinaldo che fusse con Giovanni, e vedesse di tirarlo nella sentenza loro.