Istorie fiorentine/Libro quarto

Libro quarto

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Libro terzo Libro quinto


Le città, e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le quali sotto nome di republica si amministrano, variano spesso i governi e stati loro, non mediante la libertà e la servitù, come molti credono, ma mediante la servitù e la licenza. Perché della libertà solamente il nome dai ministri della licenza, che sono i popolari, e da quelli della servitù, che sono i nobili, è celebrato, desiderando qualunque di costoro non essere né alle leggi né agli uomini sottoposto. Vero è che quando pure avviene (che avviene rade volte) che, per buona fortuna della città, surga in quella un savio, buono e potente cittadino, da il quale si ordinino leggi per le quali questi umori de’ nobili e de’ popolani si quietino, o in modo si ristringhino che male operare non possino, allora è che quella città si può chiamare libera, e quello stato si può stabile e fermo giudicare; perché, sendo sopra buone leggi e buoni ordini fondato, non ha necessità della virtù d’uno uomo, come hanno gli altri, che lo mantenga. Di simili leggi e ordini molte republiche antiche, gli stati delle quali ebbono lunga vita, furono dotate; di simili ordini e leggi sono mancate e mancano tutte quelle che spesso i loro governi da lo stato tirannico a licenzioso, e da questo a quell’altro, hanno variato e variano. Perché in essi, per i potenti nimici che ha ciascuno di loro, non è né puote essere alcuna stabilità; perché l’uno non piace agli uomini buoni, l’altro dispiace a’ savi; l’uno può fare male facilmente, l’altro può fare bene con difficultà; nell’uno hanno troppa autorità gli uomini insolenti, nell’altro gli sciocchi; e l’uno e l’altro di essi conviene che sia da la virtù e fortuna d’uno uomo mantenuto, il quale, o per morte può venire meno, o per travagli diventare inutile.

Dico per tanto che lo stato il quale in Firenze da la morte di messer Giorgio Scali ebbe, nel 1381, il principio suo fu prima dalla virtù di messer Maso degli Albizzi, di poi da quella di Niccolò da Uzano sostenuto. Visse la città da il 1414 per infino al ’22 quietamente sendo morto il re Ladislao, e lo stato di Lombardia in più parti diviso in modo che di fuora né dentro era alcuna cosa che la facesse dubitare. Appresso a Niccolò da Uzano, cittadini di autorità erano Bartolomeo Valori, Nerone di Nigi, messer Rinaldo degli Albizzi, Neri di Gino e Lapo Niccolini. Le parti che nacquono per la discordia degli Albizzi e de’ Ricci e che furono di poi da messer Salvestro de’ Medici con tanto scandolo risuscitate, mai non si spensono e benché quella che era più favorita dallo universale solamente tre anni regnasse e che nel 1381 la rimanesse vinta, non di meno, comprendendo lo umore di quella la maggiore parte della città, non si potette mai al tutto spegnere. Vero è che gli spessi parlamenti e le continue persecuzioni fatte contro a’ capi di quella da lo ’81 al 400 la redussono quasi che a niente. Le prime famiglie che furono come capi di essa perseguitate furono Alberti, Ricci e Medici, le quali più volte di uomini e di ricchezze spogliate furono; e se alcuni nella città ne rimasono, furono loro tolti gli onori: le quali battiture renderono quella parte umile e quasi che la consumarono. Restava non di meno in molti uomini una memoria delle iniurie ricevute e uno desiderio di vendicarle; il quale, per non trovare dove appoggiarsi, occulto nel petto loro rimaneva. Quelli nobili popolani i quali pacificamente governavano la città, feciono duoi errori, che furono la rovina dello stato di quelli: l’uno, che diventorono per il continuo dominio, insolenti; l’altro, che, per la invidia ch’eglino avevono l’uno all’altro, e per la lunga possessione nello stato, quella cura di chi gli potesse offendere che dovevono non tennono.

Rinfrescando adunque costoro con i loro sinistri modi, ogni dì, l’odio nello universale, e non vigilando le cose nocive per non le temere, o nutrendole per invidia l’uno dell’altro, feciono che la famiglia de’ Medici riprese autorità. Il primo che in quella cominciò a risurgere fu Giovanni di Bicci. Costui, sendo diventato ricchissimo, ed essendo di natura benigno e umano, per concessione di quegli che governavano fu condotto al supremo magistrato. Di che per lo universale della città se ne fece tanta allegrezza, parendo alla moltitudine aversi guadagnato uno defensore, che meritamente ai più savi la fu sospetta, perché si vedeva tutti gli antichi umori cominciare a risentirsi. E Niccolò da Uzano non mancò di avvertirne gli altri cittadini, mostrando quanto era pericoloso nutrire uno che avesse nello universale tanta reputazione; e come era facile opporsi a’ disordini ne’ principii, ma lasciandogli crescere, era difficile il rimediarvi; e che cognosceva come in Giovanni erano molte parti che superavano quelle di messer Salvestro. Non fu Niccolò da’ suoi uguali udito, perché avevano invidia alla reputazione sua e desideravano avere compagni a batterlo. Vivendosi per tanto in Firenze intra questi umori, i quali occultamente cominciavano a ribollire, Filippo Visconti, secondo figliuolo di Giovanni Galeazzo, sendo, per la morte del fratello, diventato signore di tutta Lombardia, e parendogli potere disegnare qualunque impresa, desiderava sommamente riinsignorirsi di Genova, la quale allora, sotto il dogato di messer Tommaso da Campo Fregoso, libera si viveva; ma si diffidava potere o quella o altra impresa ottenere, se prima non publicava nuovo accordo co’ Fiorentini, la riputazione del quale giudicava gli bastasse a potere a’ suoi desiderii sodisfare. Mandò per tanto suoi oratori a Firenze a domandarlo. Molti cittadini consigliavano che non si facesse; ma che, sanza farlo, nella pace che molti anni s’era mantenuta seco si perseverasse, perché cognoscevono il favore che il farlo gli arrecava e il poco utile che la città ne traeva. A molti altri pareva da farlo, e per virtù di quello imporgli termini, i quali trapassando, ciascuno cognoscesse il cattivo animo suo, e si potesse, quando e’ rompesse la pace, più giustificatamente fargli la guerra. E così, disputata la cosa assai, si fermò la pace, nella quale Filippo promisse non si travagliare delle cose che fussero dal fiume della Magra e del Panaro in qua.

Fatto questo accordo, Filippo occupò Brescia, e poco di poi Genova, contro alla opinione di quegli che in Firenze avevano confortata la pace, perché credevano che Brescia fusse difesa da’ Viniziani e Genova per se medesima si defendesse. E perché nello accordo che Filippo aveva fatto con il doge di Genova gli aveva lasciate Serezana e altre terre poste di qua dalla Magra, con patti che, volendo alienarle, fusse obligato darle a’ Genovesi, veniva Filippo ad avere violata la pace: aveva, oltre di questo, fatto accordo con il legato di Bologna: le quali cose alterorono gli animi de’ nostri cittadini, e fernogli, dubitando di nuovi mali, pensare a nuovi rimedi. Le quali perturbazioni venendo a notizia a Filippo, o per giustificarsi, o per tentare gli animi de’ Fiorentini, o per addormentargli, mandò a Firenze ambasciadori, mostrando maravigliarsi de’ sospetti presi e offerendo rinunziare a qualunque cosa fusse da lui stata fatta, che potesse generare alcuno sospetto. I quali ambasciadori non feciono altro effetto che dividere la città, perché una parte e quelli che erano più reputati nel governo, giudicavano che fusse bene armarsi e prepararsi a guastare i disegni al nimico; e quando le preparazioni fussero fatte, e Filippo stesse quieto, non era mossa la guerra, ma data cagione alla pace: molti altri, o per invidia di chi governava, o per timore di guerra, giudicavano che non fusse da insospettire d’uno amico leggiermente; e che le cose fatte da lui non erano degne di averne tanto sospetto, ma che sapevono bene che il creare i Dieci, il soldare gente, voleva dire guerra; la quale se si pigliava con un tanto principe, era con una certa rovina della città, e sanza poterne sperare alcuno utile, non potendo noi delli acquisti che si facessero, per avere la Romagna in mezzo, diventarne signori, e non potendo alle cose di Romagna, per la vicinità della Chiesa, pensare. Valse non di meno più l’autorità di quelli che si volevono preparare alla guerra, che quella di coloro che volevono ordinarsi alla pace; e creorono i Dieci, soldorono gente e posono nuove gravezze. Le quali, perché le aggravavano più i minori che i maggiori cittadini, empierono la città di rammarichii; e ciascuno dannava l’ambizione e l’avarizia de’ potenti, accusandogli che, per sfogare gli appetiti loro e opprimere, per dominare, il popolo, volevono muovere una guerra non necessaria.

Non si era ancora venuto con il Duca a manifesta rottura; ma ogni cosa era piena di sospetto, perché Filippo aveva, a richiesta del legato di Bologna, il quale temeva di messer Antonio Bentivogli, che fuori uscito si trovava a Castel Bolognese, mandate genti in quella città; le quali, per essere propinque al dominio di Firenze, tenevono in sospetto lo stato di quella. Ma quello che fece più spaventare ciascuno, e dette larga cagione di scoprire la guerra, fu la impresa, che il Duca fece, di Furlì. Era signore di Furlì Giorgio Ordelaffi, il quale, venendo a morte, lasciò Tibaldo suo figliuolo sotto la tutela di Filippo; e benché la madre, parendogli il tutore sospetto, lo mandasse a Lodovico Alidosi suo padre, che era signore di Imola, non di meno fu forzata dal popolo di Furlì, per la osservanza del testamento del padre, a rimetterlo nelle mani del Duca. Onde Filippo, per dare meno sospetto di sé, e per meglio celare lo animo suo, ordinò che il marchese di Ferrara mandasse come suo procuratore Guido Torello, con gente, a pigliare il governo di Furlì. Così venne quella terra in potestà di Filippo. La qual cosa, come si seppe a Firenze, insieme con la nuova delle genti venute a Bologna, fece più facile la deliberazione della guerra non ostante che l’avesse grande contradizione e che Giovanni de’ Medici publicamente la sconfortasse, mostrando che, quando bene si fusse certo della mala mente del Duca, era meglio aspettare che ti assaltasse che farsegli incontro con le forze; perché in questo caso così era giustificata la guerra nel conspetto de’ principi di Italia da la parte del Duca come da la parte nostra, né si poteva animosamente domandare quelli aiuti che si potrebbono scoperta che fusse l’ambizione sua, e con altro animo e con altre forze si difenderebbero le cose sue che quelle d’altri. Gli altri dicevano che non era da aspettare il nimico in casa; ma di andare a trovare lui; e che la fortuna è amica più di chi assalta che di chi si difende; e con minori danni, quando fusse con maggiore spesa, si fa la guerra in casa altri che in casa sua. Tanto che questa opinione prevalse, e si deliberò che i Dieci facessero ogni rimedio perché la città di Furlì si traesse delle mani del Duca.

Filippo, vedendo che i Fiorentini volevono occupare quelle cose che egli aveva prese a difendere, posti da parte i rispetti, mandò Agnolo della Pergola con gente grossa ad Imola, acciò che quel Signore, avendo a pensare di difendere il suo, alla tutela del nipote non pensasse. Arrivato per tanto Agnolo propinquo ad Imola, sendo ancora le genti de’ Fiorentini a Modigliana, e sendo il freddo grande e per quello diacciati i fossi della città, una notte, di furto, prese la terra, e Lodovico ne mandò prigione a Milano. I Fiorentini, veduta perduta Imola e la guerra scoperta, mandorono le loro genti a Furlì, le quali posero l’assedio a quella città e da ogni parte la strignevano. E perché le genti del Duca non potessero, unite, soccorrerla, avevono soldato il conte Alberigo il quale da Zagonara, sua terra, scorreva ciascuno dì infino in su le porte di Imola. Agnolo della Pergola vedeva di non potere securamente soccorrere Furlì per il forte alloggiamento che avevano le nostre genti preso, però pensò di andare alla espugnazione di Zagonara, giudicando che i Fiorentini non fussero per lasciare perdere quel luogo; e volendo soccorrere, conveniva loro abbandonare la impresa di Furlì e venire con disavantaggio alla giornata. Constrinsono adunque, le genti del Duca, Alberigo a domandare patti; i quali gli furono concessi, promettendo di dare la terra qualunque volta infra quindici giorni non fusse da i Fiorentini soccorso. Intesesi questo disordine nel campo de’ Fiorentini e nella città, e desiderando ciascuno che i nimici non avessero quella vittoria, feciono che ne ebbono una maggiore, perché, partito il campo da Furlì per soccorrere Zagonara, come venne allo scontro de’ nimici fu rotto, non tanto dalla virtù degli avversarii, quanto dalla malignità del tempo; perché, avendo i nostri camminato parecchi ore intra il fango altissimo e con l’acqua adosso, trovorono i nimici freschi, i quali facilmente gli poterono vincere. Non di meno in una tanta rotta, celebrata per tutta Italia, non morì altri che Lodovico degli Obizzi insieme con duoi altri suoi i quali, cascati da cavallo, affogorono nel fango.

Tutta la città di Firenze, alla nuova di questa rotta, si contristò; ma più i cittadini grandi, che avevano consigliata la guerra, perché vedevono il nimico gagliardo, loro disarmati, sanza amici, e il popolo loro contro. Il quale per tutte le piazze con parole ingiuriose gli mordeva, dolendosi delle gravezze sopportate e della guerra mossa sanza cagione dicendo: - Ora hanno creati costoro i Dieci per dare terrore al nimico? ora hanno eglino soccorso Furlì e trattolo delle mani del Duca? Ecco che si sono scoperti i consigli loro, e a quale fine camminavano: non per difendere la libertà, la quale è loro nimica, ma per accrescere la potenza propria; la quale Iddio ha giustamente diminuita. Né hanno solo con questa impresa aggravata la città, ma con molte; perché simile a questa fu quella contro al re Ladislao. A chi ricorreranno eglino ora per aiuto? a papa Martino, stato, a contemplazione di Braccio, straziato da loro? alla reina Giovanna, che, per abbandonarla, l’hanno fatta gittare in grembo al re d’Aragona? - E oltre a di questo dicevono tutte quelle cose che suole dire uno popolo adirato. Per tanto parve a’ Signori ragunare assai cittadini, i quali, con buone parole, gli umori mossi dalla moltitudine quietassero. Donde che messer Rinaldo degli Albizzi, il quale era rimaso primo figliuolo di messer Maso e aspirava, con le virtù sua e con la memoria del padre, al primo grado della città, parlò lungamente, mostrando che non era prudenza giudicare le cose dagli effetti, perché molte volte le cose bene consigliate hanno non buono fine e le male consigliate l’hanno buono: e se si lodano i cattivi consigli per il fine buono, non si fa altro che dare animo agli uomini di errare; il che torna in danno grande delle republiche, perché sempre i mali consigli non sono felici: così medesimamente si errava a biasimare uno savio partito che abbia fine non lieto, perché si toglieva animo ai cittadini a consigliare la città e a dire quello che gli intendono. Poi mostrò la necessità che era di pigliare quella guerra, e come, se la non si fusse mossa in Romagna, la si sarebbe fatta in Toscana. Ma poi che Iddio aveva voluto che le genti fussero state rotte, la perdita sarebbe più grave quanto più altri si abbandonassi; ma se si mostrava il viso alla fortuna, e si facevano quelli rimedi si potevano, né loro sentirebbono la perdita, né il Duca la vittoria. E che non doveva sbigottirgli le spese e le gravezze future; perché queste era ragionevole mutare e quelle sarebbono molte minori che le passate, perché minori apparati sono necessari a chi si vuole difendere che non sono a quelli che cercano di offendere. Confortògli, in fine, ad imitare i padri loro, i quali, per non avere perduto lo animo in qualunque caso avverso, s’erano sempre contro a qualunque principe difesi.

Confortati per tanto i cittadini dalla autorità sua, soldorono il conte Oddo figliuolo di Braccio, e gli dierono per governatore Niccolò Piccino, allievo di Braccio e più reputato che alcuno altro che sotto le insegne di quello avesse militato; e a quello aggiunsono altri condottieri, e degli spogliati ne rimessono alcuni a cavallo. Creorono venti cittadini a porre nuova gravezza; i quali, avendo preso animo per vedere i potenti cittadini sbattuti per la passata rotta, sanza avere loro alcuno rispetto gli aggravorono. Questa gravezza offese assai i cittadini grandi; i quali da principio, per parere più onesti, non si dolevono della gravezza loro, ma come ingiusta generalmente la biasimavano, e consigliavano che si dovesse fare uno sgravo. La qual cosa, cognosciuta da molti, fu loro ne’ Consigli impedita: donde, per fare sentire dalle opere la durezza di quella, e per farla odiare da molti, operorono che gli esattori con ogni acerbità la riscotessero, dando autorità loro di potere ammazzare qualunque contro a’ sergenti publici si difendesse. Di che nacquero molti tristi accidenti, per morte e ferite di cittadini; onde pareva che le parti venissero al sangue, e ciascuno prudente dubitava di qualche futuro male, non potendo gli uomini grandi, usi ad essere riguardati, sopportare di essere manomessi, e gli altri volendo che ugualmente ciascuno fusse aggravato. Molti per tanto de’ primi cittadini si ristrignevano insieme, e concludevono come gli era di necessità ripigliare lo stato; perché la poca diligenzia loro aveva dato animo agli uomini di riprendere le azioni publiche e fatto pigliare ardire a quelli che solieno essere capi della moltitudine. E avendo discorso queste cose infra loro più volte, deliberorono di rivedersi ad un tratto insieme tutti, e si ragunorono nella chiesa di Santo Stefano più di settanta cittadini, con licenza di messer Lorenzo Ridolfi e di Francesco Gianfigliazzi, i quali allora sedevano de’ Signori. Con costoro non convenne Giovanni de’ Medici; o che non vi fusse chiamato come sospetto, o che non vi volesse, come contrario alla opinione loro, intervenire.

Parlò a tutti messer Rinaldo degli Albizzi. Mostrò le condizioni della città; e come, per negligenzia loro, ella era tornata nella potestà della plebe, donde nel 1381 era stata da’ loro padri cavata; ricordò la iniquità di quello stato che regnò da il 78 allo ’81; e come da quello a tutti quelli che erano presenti era stato morto a chi il padre e a chi l’avolo; e come si ritornava ne’ medesimi pericoli, e la città ne’ medesimi disordini ricadeva, perché di già la moltitudine aveva posto una gravezza a suo modo, e poco di poi, se la non era da maggiore forza o da migliore ordine ritenuta, la creerebbe i magistrati secondo lo arbitrio suo; il che quando seguisse, occuperebbe i luoghi loro, e guasterebbe quello stato che quarantadue anni con tanta gloria della città aveva retto, e sarebbe Firenze governata, o a caso, sotto l’arbitrio della moltitudine, dove per una parte licenziosamente e per l’altra pericolosamente si viverebbe, o sotto lo imperio di uno che di quella si facesse principe. Per tanto affermava come ciascuno che amava la patria e lo onore suo era necessitato a risentirsi e ricordarsi della virtù di Bardo Mancini, il quale trasse la città, con la rovina degli Alberti, di quelli pericoli ne’ quali allora era; e come la cagione di questa audacia presa dalla moltitudine nasceva da’ larghi squittini che per negligenzia loro s’erano fatti, e si era ripieno il Palagio di uomini nuovi e vili. Concluse per tanto che solo ci vedeva questo modo a rimediarvi: rendere lo stato ai Grandi, e torre l’autorità alle Arti minori, riducendole da quattordici a sette; il che farebbe che la plebe ne’ Consigli arebbe meno autorità, sì per essere diminuito il numero loro, sì ancora per avere in quelli più autorità i Grandi, i quali per la vecchia inimicizia gli disfavorirebbero: affermando essere prudenza sapersi valere degli uomini secondo i tempi; perché, se i padri loro si valsono della plebe per spegnere la insolenza de’ Grandi, ora che i Grandi erano diventati umili e la plebe insolente era bene frenare la insolenzia sua con lo aiuto di quelli: e come a condurre queste cose ci era lo inganno o la forza, alla quale facilmente si poteva ricorrere, sendo alcuni di loro del magistrato de’ Dieci e potendo condurre secretamente nella città gente. Fu lodato messer Rinaldo, e il consiglio suo approvò ciascuno. E Niccolò da Uzano infra gli altri, disse tutte le cose che da messer Rinaldo erano state dette essere vere, e i rimedi buoni e certi, quando si potessero fare sanza venire ad una manifesta divisione della città, il che seguirebbe in ogni modo, quando non si tirasse alla voglia loro Giovanni de’ Medici: perché, concorrendo quello, la moltitudine, priva di capo e di forze, non potrebbe offendere; ma non concorrendo egli, non si potrebbe sanza arme fare, e con l’arme lo giudicava pericoloso o di non potere vincere o di non potere godersi la vittoria. E ridusse modestamente loro a memoria i passati ricordi suoi; e come e’ non avieno voluto rimediare a queste difficultà in quelli tempi che facilmente si poteva; ma che ora non si era più a tempo a farlo sanza temere di maggiore danno, e non ci restare altro rimedio che guadagnarselo. Fu data per tanto la commissione a messer Rinaldo che fusse con Giovanni, e vedesse di tirarlo nella sentenza loro.

Esequì il Cavaliere la commissione, e con tutti quelli termini seppe migliori lo confortò a pigliare questa impresa con loro, e non volere, per favorire una moltitudine, farla audace con rovina dello stato e della città. Al quale Giovanni rispose che l’uffizio d’un savio e buono cittadino credeva essere non alterare gli ordini consueti della sua città, non sendo cosa che offenda tanto gli uomini, quanto il variare quelli; perché conviene offendere molti, e dove molti restono mal contenti si può ogni giorno temere di qualche cattivo accidente. E come gli pareva che questa loro deliberazione facesse due cose perniziosissime: l’una, di dare gli onori a quelli che, per non gli avere mai avuti, gli stimano meno e meno cagione hanno, non gli avendo, di dolersi; l’altra, di torgli a coloro che, sendo consueti avergli, mai quieterebbero se non gli fussero restituiti: e così verrebbe ad essere molto maggiore la ingiuria che si facesse ad una parte che il beneficio che si facesse a l’altra; tale che chi ne fusse autore si acquisterebbe pochi amici e moltissimi inimici; e questi sarebbero più feroci ad ingiuriarlo che quelli a difenderlo, sendo gli uomini naturalmente più pronti alla vendetta della ingiuria che alla gratitudine del benifizio, parendo che questa ci arrechi danno, quell’altra utile e piacere. Di poi rivolse il parlare a messer Rinaldo, e disse: - E voi, se vi ricordasse delle cose seguite, e con quali inganni in questa città si cammina, saresti meno caldo in questa deliberazione; perché chi la consiglia, tolta che gli avesse, con le forze vostre, l’autorità al popolo, la torrebbe a voi con lo aiuto di quello, che vi sarebbe diventato, per questa ingiuria, inimico; e vi interverrebbe come a messer Benedetto Alberti, il quale consentì, per le persuasioni di chi non lo amava, alla rovina di messer Giorgio Scali e di messer Tommaso Strozzi, e poco di poi, da quelli medesimi che lo persuasono, fu mandato in esilio -. Confortollo per tanto a pensare più maturamente alle cose, e a volere imitare suo padre, il quale, per avere la benivolenza universale, scemò il pregio al sale, provide che chi avesse meno d’uno mezzo fiorino di gravezza potesse pagarla o no, come gli paresse, volle che il dì che si ragunavano i Consigli ciascuno fusse sicuro da’ suoi creditori. E in fine gli concluse che era, per quanto si apparteneva a lui, per lasciare la città negli ordini suoi.

Queste cose, così praticate, s’intesono fuori, e accrebbono a Giovanni riputazione e agli altri cittadini odio. Dalla quale egli si discostava, per dare meno animo a coloro che disegnassero, sotto i favori suoi, cose nuove; e in ogni suo parlare faceva intendere a ciascuno che non era per nutrire sette, ma per spegnerle, e, quanto a lui si aspettava, non cercava altro che la unione della città: di che molti che seguivano le parti sue erano mali contenti, perché arebbono voluto che si fusse nelle cose mostro più vivo. Intra i quali era Alamanno de’ Medici, il quale, sendo di natura feroce, non cessava di accenderlo a perseguitare i nimici e favorire gli amici, dannando la sua freddezza e il suo modo di procedere lento; il che diceva essere cagione che i nimici senza rispetto gli praticavano contro; le quali pratiche arebbono un giorno effetto con la rovina della casa e degli amici suoi. Inanimiva ancora al medesimo Cosimo suo figliuolo. Non di meno Giovanni, per cosa che gli fusse rivelata o pronosticata, non si moveva di suo proposito: pure, con tutto questo, la parte era già scoperta, e la città era in manifesta divisione. Erano in Palagio, al servizio de’ Signori, duoi cancellieri, ser Martino e ser Pagolo: questo favoriva la parte da Uzano, quell’altro la Medica; e messer Rinaldo, veduto come Giovanni non aveva voluto convenire con loro, pensò che fusse da privare dell’uffizio suo ser Martino, giudicando di poi avere sempre il Palagio più favorevole. Il che presentito dagli avversarii, non solamente fu ser Martino difeso, ma ser Pagolo privato, con dispiacere e ingiuria della sua parte. Il che arebbe fatto subito cattivi effetti, se non fusse la guerra che soprastava alla città; la quale per la rotta ricevuta a Zagonara era impaurita, perché, mentre che queste cose in Firenze così si travagliavano, Agnolo della Pergola, con le genti del Duca, aveva prese tutte le terre di Romagna possedute dai Fiorentini, eccetto che Castrocaro e Modigliana, parte per debolezza de’ luoghi, parte per difetto di chi le aveva in guardia. Nella occupazione delle quali terre seguirono due cose per le quali si cognobbe quanto la virtù degli uomini ancora al nimico è accetta, e quanto la viltà e malignità dispiaccia.

Era castellano nella rocca di Monte Petroso Biagio del Melano. Costui, sendo affocato intorno dai nimici e non vedendo per la salute della rocca alcuno scampo, gittò panni e paglia da quella parte che ancora non ardeva, e di sopra vi gittò duoi suoi piccoli figliuoli, dicendo a’ nimici: - Togliete per voi quelli beni che mi ha dati la fortuna e che voi mi potete torre: quelli che io ho dello animo, dove la gloria e l’onore mio consiste, né io vi darò, né voi mi torrete! - Corsono i nimici a salvare i fanciulli, e a lui porgevano funi e scale perché si salvasse, ma quello non le accettò, anzi volle più tosto morire nelle fiamme, che vivere salvo per le mani degli avversarii della patria sua. Esemplo veramente degno di quella lodata antichità! e tanto è più mirabile di quelli quanto è più rado. Furono a’ figliuoli suoi da’ nimici restituite quelle cose che si poterono avere salve, e con massima cura rimandati a’ parenti loro; verso de’ quali la republica non fu meno amorevole, perché mentre vissero furono publicamente sostentati. Al contrario di questo occorse in Galeata, dove era podestà Zanobi del Pino; il quale, senza fare difesa alcuna, dette la rocca al nimico, e di più confortava Agnolo a lasciare l’alpi di Romagna e venire ne’ colli di Toscana, dove poteva fare la guerra con meno pericolo e maggiore guadagno. Non potette Agnolo sopportare la viltà e il malvagio animo di costui, e lo dette in preda a’ suoi servidori i quali, dopo molti scherni, gli davano solamente mangiare carte dipinte a biscie, dicendo che di guelfo, per quel modo, lo volevono fare diventare ghibellino; e così stentando, in brievi giorni morì.

Il conte Oddo, in questo mezzo, insieme con Niccolò Piccino, era entrato in Val di Lamona, per vedere di ridurre il signore di Faenza alla amicizia de’ Fiorentini, o almeno impedire Agnolo della Pergola, che non scorresse più liberamente per Romagna. Ma perché quella valle è fortissima e i valligiani armigeri, vi fu il conte Oddo morto, e Niccolò Piccino ne andò prigione a Faenza. Ma la fortuna volle che i Fiorentini ottenessero quello, per avere perduto che forse avendo vinto non arebbono ottenuto; perché Niccolò tanto operò con il signore di Faenza e con la madre, che gli fece amici a’ Fiorentini. Fu, in questo accordo, libero Niccolò Piccino: il quale non tenne per sé quel consiglio che gli aveva dato ad altri, perché, praticando con la città della sua condotta o che le condizioni gli paressero debili, o che le trovasse migliori altrove, quasi che ex abrupto si partì di Arezzo, dove era alle stanze, e ne andò in Lombardia, e prese soldo da il Duca. I Fiorentini, per questo accidente impauriti e dalle spesse perdite sbigottiti, giudicorono non potere più, soli, sostenere questa guerra; e mandorono oratori a’ Viniziani, a pregarli che dovessero opporsi, mentre che gli era loro facile, alla grandezza d’uno che, se lo lasciavano crescere, era così per essere pernizioso a loro come a’ Fiorentini. Confortavagli alla medesima impresa Francesco Carmignuola, uomo tenuto in quelli tempi nella guerra eccellentissimo, il quale era già stato soldato del Duca, ma di poi ribellatosi da quello. Stavano i Viniziani dubi, per non sapere quanto si potevano fidare del Carmignuola, dubitando che la inimicizia del Duca e sua non fusse finta. E stando così sospesi, nacque che il Duca, per mezzo d’uno servidore del Carmignuola, lo fece avvelenare; il quale veleno non fu sì potente che lo ammazzasse, ma lo ridusse allo estremo. Scoperta la cagione del male, i Viniziani si privorono di quello sospetto; e seguitando i Fiorentini di sollecitargli, feciono lega con loro; e ciascuna delle parti si obligò a fare la guerra a spese comune; e gli acquisti di Lombardia fussero de’ Viniziani, e quelli di Romagna e di Toscana de’ Fiorentini; e il Carmignuola fu capitano generale della lega. Ridussesi per tanto la guerra mediante questo accordo, in Lombardia dove fu governata da il Carmignuola virtuosamente, e in pochi mesi tolse molte terre al Duca, insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione, in quelli tempi e secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile.

Era durata questa guerra da il ’22 al 27, ed erano stracchi i cittadini di Firenze delle gravezze poste infino allora, in modo che si accordorono a rinnovarle. E perché le fussero uguali secondo le ricchezze, si provide che le si ponessero a’ beni, e che quello che aveva cento fiorini di valsente ne avesse un mezzo di gravezza. Avendola pertanto a distribuire la legge, e non gli uomini, venne ad aggravare assai i cittadini potenti, e avanti che la si deliberassi era disfavorita da loro. Solo Giovanni de’ Medici apertamente la lodava; tanto che la si ottenne. E perché nel distribuirla si aggregavano i beni di ciascuno, il che i Fiorentini dicono accatastare, si chiamò questa gravezza catasto. Questo modo pose, in parte, regola alla tirannide de’ potenti; perché non potevano battere i minori e fargli con le minacce ne’ Consigli tacere, come potevano prima. Era adunque questa gravezza dall’universale accettata e da’ potenti con dispiacere grandissimo ricevuta. Ma come accade che mai gli uomini non si sodisfanno, e avuta una cosa, non vi si contentando dentro, ne desiderano un’altra, il popolo, non contento alla ugualità della gravezza che dalla legge nasceva, domandava che si riandassero i tempi passati, e che si vedesse quello che i potenti, secondo il catasto, avevano pagato meno, e si facessero pagare tanto che gli andassero a ragguaglio di coloro che, per pagare quello che non dovevano, avevano vendute le loro possessioni. Questa domanda, molto più che il catasto, spaventò gli uomini grandi; e per difendersene non cessavano di dannarlo, affermando quello essere ingiustissimo, per essersi posto ancora sopra i beni mobili, i quali oggi si posseggono e domani si perdono; e che sono, oltra di questo, molte persone che hanno danari occulti, che il catasto non può ritrovare. A che aggiugnevano che coloro che, per governare la republica, lasciavano le loro faccende dovevano essere meno carichi da quella, dovendole bastare che con la persona si affaticassero, e che non era giusto che la città si godesse la roba e la industria loro, e degli altri solo i danari. Gli altri, a chi il catasto piaceva, rispondevano che, se i beni mobili variano, e possono ancora variare le gravezze, e con il variarle spesso si può a quello inconveniente rimediare; e di quelli che hanno danari occulti non era necessario tenere conto, perché quegli danari che non fruttono non è ragionevole che paghino, e fruttando conviene che si scuoprino; e se non piaceva loro durare fatica per la republica, lasciassilla da parte e non se ne travagliassino, perché la troverrebbe de’ cittadini amorevoli, a’ quali non parrebbe difficile aiutarla di danari e di consiglio; e che sono tanti i commodi e gli onori che si tira dreto il governo, che doverebbero bastare loro, sanza volere non participare de’ carichi. Ma il male stava dove e’ non dicevano; perché doleva loro non potere più muovere una guerra sanza loro danno, avendo a concorrere alle spese come gli altri; e se questo modo si fusse trovato prima, non si sarebbe fatta la guerra con il re Ladislao, né ora si farebbe questa con il duca Filippo; le quali si erano fatte per riempiere i cittadini, e non per necessità. Questi umori mossi erano quietati da Giovanni de’ Medici, mostrando che non era bene riandare le cose passate, ma sì bene provedere alle future; e se le gravezze per lo adietro erano state ingiuste, ringraziare Iddio poi che si era trovato il modo a farle giuste e volere che questo modo servisse a riunire, non a dividere la città, come sarebbe quando si ricercasse le imposte passate, e farle ragguagliare con le presenti; e che chi è contento di una mezzana vittoria sempre ne farà meglio, perché quelli che vogliono sopravincere spesso perdono. E con simili parole quietò questi umori, e fece che del ragguaglio non si ragionasse.

Seguitando in tanto la guerra con il Duca, si fermò una pace a Ferrara, per il mezzo d’uno legato del Papa. Della quale il Duca, nel principio di essa, non osservò le condizioni, in modo che di nuovo la lega riprese le armi; e venuto con le genti di quello alle mani, lo ruppe a Maclovio. Dopo la quale rotta il Duca mosse nuovi ragionamenti d’accordo, ai quali i Viniziani e i Fiorentini acconsentirono, questi per essere insospettiti de’ Viniziani, parendo loro spendere assai per fare potenti altri, quelli per avere veduto il Carmignuola, dopo la rotta data al Duca, andare lento, tanto che non pareva loro da potere più confidare in quello. Conclusesi adunque la pace nel 1428; per la quale i Fiorentini riebbono le terre perdute in Romagna, e a’ Viniziani rimase Brescia, e di più il Duca dette loro Bergamo e il contado. Spesono in questa guerra i Fiorentini tre milioni e 500 mila ducati; mediante la quale accrebbero a’ Viniziani stato e grandezza, e a loro povertà e disunione. Seguita la pace di fuora, ricominciò la guerra dentro. Non potendo i cittadini grandi sopportare il catasto, e non vedendo via da spegnerlo, pensorono modi a fargli più nimici, per avere più compagni ad urtarlo. Mostrorono adunque agli uffiziali deputati a porlo come la legge gli costrigneva ad accatastare ancora i beni de’ distrettuali, per vedere se intra quelli vi fussero beni di Fiorentini. Furono per tanto citati tutti i sudditi a portare, infra certo tempo, le scritte de’ beni loro. Donde che i Volterrani mandorono alla Signoria a dolersi della cosa, di modo che gli uffiziali, sdegnati, ne missono diciotto di loro in prigione. Questo fatto fece assai sdegnare i Volterrani; pure, avendo rispetto alli loro prigioni, non si mossono.

In questo tempo Giovanni de’ Medici ammalò, e cognoscendo il male suo mortale, chiamò Cosimo e Lorenzo suoi figliuoli, e disse loro: - Io credo essere vivuto quel tempo che da Dio e dalla natura mi fu al mio nascimento consegnato. Muoio contento, poi che io vi lascio ricchi, sani, e di qualità che voi potrete, quando voi seguitiate le mie pedate, vivere in Firenze onorati e con la grazia di ciascuno. Perché niuna cosa mi fa tanto morire contento, quanto mi ricordare di non avere mai offeso alcuno, anzi più tosto, secondo che io ho potuto, benificato ognuno. Così conforto a fare voi. Dello stato, se voi volete vivere securi, toglietene quanto ve n’è dalle leggi e dagli uomini dato; il che non vi recherà mai né invidia né pericolo, perché quello che l’uomo si toglie, non quello che all’uomo è dato, ci fa odiare, e sempre ne arete molto più di coloro che, volendo la parte d’altri, perdono la loro, e avanti che la perdino vivono in continui affanni. Con queste arti io ho, intra tanti nimici, intra tanti dispareri, non solamente mantenuta, ma accresciuta la reputazione mia in questa città. Così, quando seguitiate le pedate mie, manterrete e accrescerete voi. Ma quando facesse altrimenti, pensate che il fine vostro non ha ad essere altrimenti felice che si sia stato quello di coloro che, nella memoria nostra, hanno rovinato sé e destrutta la casa loro -. Morì poco di poi, e nello universale della città lasciò di sé uno grandissimo desiderio, secondo che meritavano le sue ottime qualità. Fu Giovanni misericordioso; e non solamente dava lemosine a chi le domandava, ma molte volte al bisogno de’ poveri, sanza esser domandato, soccorreva. Amava ognuno; i buoni lodava, e de’ cattivi aveva compassione. Non domandò mai onori, ed ebbeli tutti; non andò mai in Palagio, se non chiamato. Amava la pace, fuggiva la guerra. Alle avversità degli uomini suvveniva, le prosperità aiutava. Era alieno dalle rapine publiche, e del bene commune aumentatore. Ne’ magistrati grazioso; non di molta eloquenzia, ma di prudenza grandissima. Mostrava nella presenza melanconico; ma era poi nella conversazione piacevole e faceto. Morì ricchissimo di tesoro, ma più di buona fama e di benivolenza. La cui eredità, così de’ beni della fortuna come di quelli dello animo, fu da Cosimo non solamente mantenuta, ma accresciuta.

Erano i Volterrani stracchi di stare in carcere; e per essere liberi promissono di consentire a quello era comandato loro. Liberati adunque, e tornati a Volterra, venne il tempo che i nuovi loro priori prendevono il magistrato; de’ quali fu tratto uno Giusto, uomo plebeo, ma di credito nella plebe, il quale era uno di quelli che fu imprigionato a Firenze. Costui, acceso per se medesimo di odio, per la ingiuria publica e per la privata, contro a’ Fiorentini, fu ancora stimolato da Giovanni di uomo nobile e che seco sedeva in magistrato, a dovere muovere il popolo con la autorità de’ priori e con la grazia sua, e trarre la terra delle mani de’ Fiorentini, e farne sé principe. Per il consiglio del quale, Giusto prese le armi, corse la terra, prese il capitano che vi era pe’ Fiorentini, e sé fece, con il consentimento del popolo, signore di quella. Questa novità seguita in Volterra dispiacque assai a’ Fiorentini; pure, trovandosi avere fatto pace con il Duca, e freschi in su gli accordi, giudicorono potere avere tempo a racquistarla; e per non lo perdere, mandorono subito a quella impresa commissari messer Rinaldo degli Albizzi e messer Palla Strozzi. Giusto intanto, che pensava che i Fiorentini lo assalterebbero, richiese i Sanesi e i Lucchesi di aiuto. I Sanesi gliene negorono, dicendo essere in lega con i Fiorentini; e Pagolo Guinigi, che era signore di Lucca, per racquistare la grazia con il popolo di Firenze, la quale nella guerra del Duca gli pareva avere perduta per essersi scoperto amico di Filippo, non solamente negò gli aiuti a Giusto, ma ne mandò prigione a Firenze quello che era venuto a domandarli. I commissari intanto, per giugnere i Volterrani sproveduti, ragunorono insieme tutte le loro genti d’arme, e levorono di Valdarno di sotto e del contado di Pisa assai fanteria, e ne andorono verso Volterra. Né Giusto, per essere abbandonato da’ vicini, né per lo assalto che si vedeva fare da’ Fiorentini, si abbandonava; ma rifidatosi nella fortezza del sito e nella grassezza della terra, si provedeva alla difesa. Era in Volterra uno messer Arcolano, fratello di quello Giovanni che aveva persuaso Giusto a pigliare la signoria, uomo di credito nella nobilità. Costui ragunò certi suoi confidenti e mostrò loro come Iddio aveva, per questo accidente venuto, soccorso alla necessità della città loro; perché, se gli erano contenti di pigliare le armi, e privare Giusto della signoria, e rendere la città a’ Fiorentini, ne seguirebbe che resterebbono i primi di quella terra, e a lei si perserverrebbono gli antichi privilegi suoi. Rimasi adunque d’accordo della cosa, ne andorono al Palagio, dove si posava il Signore, e fermisi parte di loro da basso, messer Arcolano con tre di loro salì in su la sala, e trovato quello con alcuni cittadini, lo tirò da parte, come se gli volesse ragionare di alcuna cosa importante; e d’un ragionamento in un altro, lo condusse in camera, dove egli e quelli che erano seco con le spade lo assalirono. Né furono però sì presti che non dessero commodità a Giusto di porre mano all’arme sua; il quale, prima che lo ammazzassero, ferì gravemente duoi di loro; ma non potendo alfine resistere a tanti, fu morto e gittato a terra del Palazzo. E prese le armi, quelli della parte di messer Arcolano dettono la città ai commissari fiorentini, che con le genti vi erano propinqui; i quali, senza fare altri patti, entrorono in quella. Di che ne seguì che Volterra peggiorò le sue condizioni, perché, intra le altre cose, le smembrorono la maggiore parte del contado e ridussollo in vicariato.

Perduta adunque quasi che in un tratto e racquistata Volterra, non si vedeva cagione di nuova guerra, se l’ambizione degli uomini non la avesse di nuovo mossa. Aveva militato assai tempo per la città di Firenze, nelle guerre del Duca, Niccolò Fortebraccio, nato d’una sirocchia di Braccio da Perugia. Costui, venuta la pace, fu da’ Fiorentini licenziato, e quando e’ venne il caso di Volterra si trovava ancora alloggiato a Fucecchio, onde che i commissari, in quella impresa, si valsono di lui e delle sue genti. Fu opinione, nel tempo che messer Rinaldo travagliò seco quella guerra, lo persuadesse a volere, sotto qualche fitta querela, assaltare i Lucchesi, mostrandogli che, se e’ lo faceva, opererebbe in modo, a Firenze, che la impresa contro a Lucca si farebbe, ed egli ne sarebbe fatto capo. Acquistata pertanto Volterra, e tornato Niccolò alle stanze a Fucecchio, o per le persuasioni di messer Rinaldo, o per sua propria volontà, di novembre, nel 1429, con trecento cavagli e trecento fanti, occupò Ruoti e Compito, castella de’ Lucchesi; di poi, sceso nel piano, fece grandissima preda. Publicata la nuova a Firenze di questo assalto, si fece per tutta la città circuli di ogni sorte uomini, e la maggiore parte voleva che si facesse la impresa di Lucca. De’ cittadini grandi, che la favorivano erano quelli della parte de’ Medici, e con loro s’era accostato messer Rinaldo, mosso, o da giudicare che la fusse impresa utile per la republica, o da sua propria ambizione, credendo aversi a trovare capo di quella vittoria; quelli che la disfavorivano erano Niccolò da Uzano e la parte sua. E pare cosa da non la credere che sì diverso giudizio nel muovere guerra fusse in una medesima città, perché quelli cittadini e quel popolo che, dopo dieci anni di pace, avevono biasimato la guerra presa contro al duca Filippo per difendere la sua libertà, ora, dopo tante spese fatte e in tanta afflizione della città, con ogni efficacia domandassero che si movesse la guerra a Lucca per occupare la libertà d’altri, e dall’altro canto quelli che vollono quella biasimavano questa: tanto variano con il tempo i pareri, e tanto è più pronta la moltitudine ad occupare quello d’altri che a guardare il suo, e tanto sono mossi più gli uomini dalla speranza dello acquistare che dal timore del perdere; perché questo non è, se non da presso, creduto, quell’altra, ancora che discosto, si spera. E il popolo di Firenze era ripieno di speranza dagli acquisti che aveva fatti e faceva Niccolò Fortebraccio, e dalle lettere de’ rettori propinqui a Lucca; perché il vicario di Vico e di Pescia scrivevono che si dessi loro licenza di ricevere quelle castella che venivano a darsi loro, perché presto tutto il contado di Lucca si acquisterebbe. Aggiunsesi a questo lo ambasciadore mandato dal signore di Lucca a Firenze, a dolersi degli assalti fatti da Niccolò e a pregare la Signoria che non volesse muovere guerra a uno suo vicino e ad una città che sempre gli era stata amica. Chiamavasi lo ambasciadore messer Iacopo Viviani: costui, poco tempo innanzi, era stato tenuto prigione da Pagolo per avere congiuratogli contro; e benché lo avesse trovato in colpa, gli aveva perdonata la vita, e perché credeva che messer Iacopo gli avesse perdonata la ingiuria si fidava di lui. Ma ricordandosi più messer Iacopo del pericolo che del benifizio, venuto a Firenze, secretamente confortava i cittadini alla impresa. I quali conforti, aggiunti all’altre speranze, feciono che la Signoria ragunò il Consiglio, dove convennono quattrocentonovantotto cittadini, innanzi a’ quali per i principali della città fu disputata la cosa.

Intra i primi che volevono la impresa, come di sopra dicemmo, era messer Rinaldo. Mostrava costui l’utile che si traeva dello acquisto; mostrava la occasione della impresa, sendo loro lasciata in preda dai Viniziani e da il Duca, né possendo essere dal Papa, implicato nelle cose del Regno, impedita. A questo aggiugneva la facilità dello espugnarla, sendo serva d’un suo cittadino e avendo perduto quel naturale vigore e quello antico studio di difendere la sua libertà; in modo che, o dal popolo per cacciarne il tiranno, o dal tiranno per paura del popolo, la sarà concessa. Narrava le ingiurie del signore, fatte alla republica nostra, e il malvagio animo suo verso di quella; e quanto era pericoloso, se di nuovo o il Papa o il Duca alla città movesse guerra; e concludeva che niuna impresa mai fu fatta da il popolo fiorentino né più facile, né più utile, né più giusta. Contro a questa opinione, Niccolò da Uzano disse che la città di Firenze non fece mai impresa più ingiusta, né più pericolosa, né che da quella dovessero nascere maggiori danni. E prima, che si andava a ferire una città guelfa, stata sempre amica al popolo fiorentino, e che nel suo grembo, con suo pericolo, aveva molte volte ricevuti i Guelfi che non potevono stare nella patria loro. E che nelle memorie delle cose nostre non si troverrà mai Lucca libera avere offeso Firenze ma se chi l’aveva fatta serva, come già Castruccio e ora costui, l’aveva offesa non si poteva imputare la colpa a lei, ma al tiranno. E se al tiranno si potesse fare guerra sanza farla a’ cittadini, gli dispiacerebbe meno; ma perché questo non poteva essere, non poteva anche consentire che una cittadinanza amica fusse spogliata de’ beni suoi. Ma poi che si viveva oggi in modo che del giusto e dello ingiusto non si aveva a tenere molto conto, voleva lasciare questa parte indietro, e pensare solo alla utilità della città. Credeva per tanto quelle cose potersi chiamare utili che non potevono arrecare facilmente danno: non sapeva adunque come alcuno poteva chiamare utile quella impresa dove i danni erano certi e gli utili dubbi. I danni certi erano le spese che la si tirava dietro, le quali si vedevano tante, che le dovevono fare paura ad una città riposata, non che ad una stracca d’una lunga e grave guerra, come era la loro; gli utili che se ne potevono trarre erano lo acquisto di Lucca; i quali confessava essere grandi, ma che gli era da considerare i dubi che ci erano dentro, i quali a lui parevono tanti, che giudicava lo acquisto impossibile. E che non credessero che i Viniziani e Filippo fussero contenti di questo acquisto; perché quelli solo mostravano consentirlo per non parere ingrati, avendo poco tempo innanzi, con i danari de’ Fiorentini, preso tanto imperio; quell’altro aveva caro che in nuova guerra e in nuove spese si implicassero, acciò che, attriti e stracchi da ogni parte, potesse di poi di nuovo assaltargli; e come non gli mancherà modo, nel mezzo della impresa e nella maggiore speranza della vittoria, di soccorrere i Lucchesi, o copertamente, con danari, o cassare delle sue genti e come soldati di ventura mandarli in loro aiuto. Confortava per tanto ad astenersi dalla impresa, e vivere con il tiranno in modo che se gli facesse, dentro, più inimici si potesse, perché non ci era più commoda via a subiugarla, che lasciarla vivere sotto il tiranno e da quello affliggere e indebolire; per che, governata la cosa prudentemente, quella città si condurrebbe in termine che il tiranno non la potendo tenere, ed ella non sapendo né potendo per sé governarsi, di necessità cadrebbe loro in grembo. Ma che vedeva gli umori mossi, e le parole sua non essere udite. Pure voleva pronosticare loro questo: che farebbono una guerra dove spenderebbono assai, correrebbonvi dentro assai pericoli, e in cambio di occupare Lucca, la libererebbono dal tiranno, e di una città amica, subiugata e debole farebbono una città libera, loro nimica, e, con il tempo, uno ostaculo alla grandezza della republica loro.

Parlato per tanto che fu per la impresa e contro alla impresa, si venne, secondo il costume, secretamente a ricercare la volontà degli uomini; e di tutto il numero, solo novantotto la contradissero. Fatta per tanto la deliberazione, e creati i Dieci per trattare la guerra, soldorono gente a piè e a cavallo; deputorono commissari Astorre Gianni e messer Rinaldo degli Albizzi, e con Niccolò Fortebraccio di avere da lui le terre aveva prese, e che seguisse la impresa come soldato nostro, convennono. I commissari, arrivati con lo esercito nel paese di Lucca, divisono quello; e Astorre si distese per il piano, verso Camaiore e Pietrasanta, e messer Rinaldo se ne andò verso i monti, giudicando che, spogliata la città del suo contado, facil cosa fusse, di poi, lo espugnarla. Furono le imprese di costoro infelici, non perché non acquistassero assai terre, ma per i carichi che furno, nel maneggio della guerra, dati all’uno e all’altro di loro. Vero è che Astorre Gianni de’ carichi suoi se ne dette evidente cagione. È una valle propinqua a Pietrasanta, chiamata Seravezza, ricca e piena di abitatori, i quali, sentendo la venuta del Commissario, se gli feciono incontro, e lo pregorono gli accettasse per fedeli servidori del popolo fiorentino. Mostrò Astorre di accettare le offerte; di poi fece occupare alle sue genti tutti i passi e luoghi forti della valle, e fece ragunare gli uomini nel principale tempio loro; e di poi gli prese tutti prigioni, e alle sue genti fe’ saccheggiare e destruggere tutto il paese, con esemplo crudele e avaro, non perdonando a luoghi pii, né a donne, così vergini come maritate. Queste cose, così come le erano seguite, si seppono a Firenze, e dispiacquono non solamente a’ magistrati, ma a tutta la città.

De’ Seravezzesi alcuni, che dalle mani del Commissario s’erano fuggiti, corsono a Firenze, e per ogni strada e ad ogni uomo narravano le miserie loro; di modo che, confortati da molti desiderosi che si punisse il Commissario, o come malvagio uomo, o come contrario alla fazione loro, ne andorono a’ Dieci e domandorono di essere uditi. E intromessi, uno di loro parlò in questa sentenza: - Noi siamo certi, magnifici Signori, che le nostre parole troveranno fede e compassione appresso le Signorie vostre, quando voi saprete in che modo occupasse il paese nostro il commissario vostro, e in quale maniera di poi siamo stati trattati da quello. La valle nostra, come ne possono essere piene le memorie delle antiche cose vostre, fu sempremai guelfa, ed è stata molte volte uno fedele ricetto a’ cittadini vostri, che, perseguitati da’ Ghibellini, sono ricorsi in quella. E sempre gli antichi nostri e noi abbiamo adorato il nome di questa inclita republica, per essere stata capo e principe di quella parte; e in mentre che i Lucchesi furono guelfi, volentieri servimmo allo imperio loro; ma poi che pervennero sotto il tiranno, il quale ha lasciati gli antichi amici e seguite le parti ghibelline, più tosto forzati che volontari lo abbiamo ubbidito; e Dio sa quante volte noi lo abbiamo pregato che ci desse occasione di dimostrare l’animo nostro verso l’antica parte. Quanto sono gli uomini ciechi ne’ desiderii loro! Quello che noi desideravamo per nostra salute è stato la nostra rovina. Perché, come prima noi sentimmo che le insegne vostre venivano verso di noi, non come a nimici, ma come agli antichi signori nostri ci facemmo incontro al commissario vostro, e mettemmo la valle, le nostre fortune e noi nelle sue mani, e alla sua fede ci raccomandammo, credendo che in lui fusse animo, se non di Fiorentino, almeno d’uomo. Le Signorie vostre ci perdoneranno, perché non potere sopportar peggio di quello abbiamo sopportato ci dà animo a parlare. Questo vostro commissario non ha di uomo altro che la presenzia, né di Fiorentino altro che il nome: una peste mortifera, una fiera crudele, uno mostro orrendo, quanto mai da alcuno scrittore fusse figurato; perché, riduttici nel nostro tempio, sotto colore di volerci parlare, noi fece prigioni, e la valle tutta rovinò e arse, e gli abitatori e le robe di quella rapì, spogliò, saccheggiò, batté, ammazzò; stuprò le donne, viziò le vergini, e trattele delle braccia delle madri, le fece preda de’ suoi soldati. Se noi, per alcuna ingiuria fatta al popolo fiorentino o a lui, avessimo meritato tanto male, o se armati e difendendoci ci avessi presi, ci dorremmo meno, anzi accuseremmo noi, i quali o con le iniurie o con la arroganzia nostra l’avessimo meritato; ma sendo, disarmati, daticegli liberamente, che di poi ci abbi rubati, e con tanta ingiuria e ignominia spogliati, siamo forzati a dolerci. E quantunque noi avessimo potuto riempiere la Lombardia di querele, e con carico di questa città spargere per tutta Italia la fama delle iniurie nostre, non lo aviamo voluto fare, per non imbrattare una sì onesta e piatosa republica con la disonestà e crudeltà d’uno suo malvagio cittadino. Del quale se avanti alla rovina nostra avessimo conosciuto l’avarizia ci saremmo sforzati il suo ingordo animo, ancora che non abbi né misura ne fondo, riempiere, e aremmo per quella via, con parte delle sustanze nostre, salvate l’altre, ma poi che non siamo più a tempo, abbiamo voluto ricorrere a voi, e pregarvi soccorriate alla infelicità de’ vostri subietti, acciò che gli altri uomini non si sbigottischino, per lo esemplo nostro, a venire sotto lo imperio vostro. E quando non vi muovino gli infiniti mali nostri, vi muova la paura dell’ira di Dio, il quale ha veduto i suoi templi saccheggiati e arsi, e il popolo nostro tradito nel grembo suo -. E detto questo si gittorono in terra, gridando e pregando che fusse loro renduto la roba e la patria; e facessero restituire (poi che non si poteva l’onore) almeno le moglie a’ mariti, e a’ padri le figliuole. L’atrocità della cosa, saputa prima, e di poi dalle vive voci di quelli che la avevano sopportata intesa, commosse il magistrato; e sanza differire si fece tornare Astorre, e di poi fu condannato e ammunito. Ricercossi de’ beni de’ Seravezzesi e quelli che si poterono trovare si restituirono, degli altri furono dalla città, con il tempo, in varii modi sodisfatti.

Messer Rinaldo degli Albizzi dall’altra parte era diffamato ch’egli faceva la guerra non per utilità del popolo fiorentino, ma sua, e come, poi che fu commissario, gli era fuggito dell’animo la cupidità del pigliare Lucca, perché gli bastava saccheggiare il contado e riempire le possessioni sue di bestiame e le case sua di preda; e come non gli bastavano le prede che da’ suoi satelliti per propria utilità si facevano, che comperava quelle de’ soldati, tale che di commissario era diventato mercatante. Queste calunnie, pervenute agli orecchi suoi, mossono lo intero e altiero animo suo più che ad uno grave uomo non si conveniva, e tanto lo perturborono che, sdegnato contro al magistrato e i cittadini, sanza aspettare o domandare licenza, se ne tornò a Firenze. E presentatosi davanti a’ Dieci, disse che sapeva bene quanta difficultà e pericolo era servire ad un popolo sciolto e ad una città divisa, perché l’uno ogni romore riempie, l’altra le cattive opere perseguita, le buone non premia e le dubie accusa; tanto che vincendo niuno ti loda, errando ognuno ti condanna, perdendo ognuno ti calunnia, perché la parte amica per invidia, la nimica per odio ti perseguita; non di meno non aveva mai per paura d’un carico vano, lasciato di non fare una opera che facesse uno utile certo alla sua città. Vero era che la disonestà delle presenti calunnie avevano vinta la pazienzia sua, e fattogli mutare natura. Per tanto pregava il magistrato che volesse per lo avvenire essere più pronto a difendere i suoi cittadini, acciò che quegli fussero ancora più pronti a operare bene per la patria; e poi che in Firenze non si usava concedere loro il trionfo, almeno si usasse dai falsi vituperii difenderli; e si ricordassero che ancora loro erano di quella città cittadini, e come ad ogni ora potria essere loro dato qualche carico, per il quale intenderebbono quanta offesa agli uomini interi le false calunnie arrechino. I Dieci, secondo il tempo, s’ingegnorono mitigarlo; e la cura di quella impresa a Neri di Gino e Alamanno Salviati demandarono. I quali, lasciato da parte il correre per il contado di Lucca, s’accostorono con il campo alla terra; e perché ancora era la stagione fredda, si missono a Capannole; dove a’ commissari pareva che si perdesse tempo; e volendosi strignere più alla terra, i soldati, per il tempo sinistro, non vi si accordavano, non ostante che i Dieci sollecitassino lo accamparsi e non accettassino scusa alcuna.

Era, in quelli tempi, in Firenze uno eccellentissimo architettore, chiamato Filippo di ser Brunellesco, delle opere del quale è piena la nostra città, tanto che meritò, dopo la morte, che la sua immagine fusse posta, di marmo, nel principale tempio di Firenze, con lettere a piè che ancora rendono a chi legge testimonianza delle sue virtù. Mostrava costui come Lucca si poteva allagare, considerato il sito della città e il letto del fiume del Serchio; e tanto lo persuase, che i Dieci commissono che questa esperienza si facesse. Di che non ne nacque altro che disordine al campo nostro e securtà a’ nemici; perché i Lucchesi alzorono con uno argine il terreno verso quella parte che faceno venire il Serchio, e di poi, una notte, ruppono l’argine di quel fosso per il quale conducevano le acque, tanto che quelle, trovato il riscontro alto verso Lucca e l’argine del canale aperto, in modo per tutto il piano si sparsono, che il campo, non che si potesse appropinquare alla terra, si ebbe a discostare.

Non riuscita adunque questa impresa, i Dieci che di nuovo presono il magistrato mandorono commissario messer Giovanni Guicciardini. Costui, il più presto che possé, si accampò alla terra; donde che il Signore, vedendosi strignere, per conforto d’uno messer Antonio del Rosso sanese, il quale in nome del comune di Siena era apresso di lui, mandò al duca di Milano Salvestro Trenta e Lionardo Buonvisi. Costoro per parte del Signore gli chiesono aiuto; e trovandolo freddo, lo pregorono secretamente che dovesse dare loro genti; perché gli promettevano per parte del popolo dargli preso il loro Signore, e apresso la possessione della terra, avvertendolo che, se non pigliava presto questo partito, il Signore darebbe la terra a’ Fiorentini, i quali con molte promesse lo sollecitavano. La paura per tanto che il Duca ebbe di questo gli fece porre da parte i respetti, e ordinò che il conte Francesco Sforza, suo soldato, gli domandasse publicamente licenza per andare nel Regno. Il quale, ottenuta quella, se ne venne con la sua compagnia a Lucca, non ostante che i Fiorentini, sapendo questa pratica e dubitando di quello avvenne, mandassino al Conte Boccaccino Alamanni suo amico, per sturbarla. Venuto per tanto il Conte a Lucca, i Fiorentini si ritirarono con il campo a Librafatta; e il Conte subito andò a campo a Pescia dove era vicario Pagolo da Diacceto. Il quale, consigliato più dalla paura che da alcuno altro migliore rimedio, si fuggì a Pistoia; e se la terra non fusse stata difesa da Giovanni Malavolti, che vi era a guardia, si sarebbe perduta. Il Conte per tanto, non la avendo potuta nel primo assalto pigliare, ne andò al Borgo a Buggiano, e lo prese, e Stigliano, castello a quello propinquo, arse. I Fiorentini, veggendo questa rovina, ricorsono a quelli rimedi che molte volte gli avevano salvati, sapiendo come, con i soldati mercenari, dove le forze non bastavano giovava la corruzione, e però profersono al Conte danari, e quello, non solamente si partisse, ma desse loro la terra. Il Conte, parendogli non potere trarre più danari da Lucca, facilmente si volse a trarne da quelli che ne avevano; e convenne con i Fiorentini, non di dare loro Lucca, che per onestà non lo volle consentire, ma di abbandonarla, quando gli fusse dato cinquantamila ducati. E fatta questa convenzione, acciò che il popolo di Lucca apresso al Duca lo scusasse, tenne mano con quello che i Lucchesi cacciassero il loro Signore.

Era in Lucca, come di sopra dicemmo, messer Antonio del Rosso, ambasciadore sanese. Costui, con la autorità del Conte, praticò con i cittadini la rovina di Pagolo. Capi della congiura furono Piero Cennami e Giovanni da Chivizzano. Trovavasi il Conte alloggiato fuora della terra, in sul Serchio, e con lui era Lanzilao, figliuolo del Signore. Donde i congiurati, in numero di quaranta, di notte, armati, andorono a trovare Pagolo; al romore de’ quali fattosi incontro tutto attonito, domandò della cagione della venuta loro. Al quale Piero Cennami disse come loro erano stati governati da lui più tempo, e condotti, con i nimici intorno, a morire di ferro e di fame; e però erano deliberati per lo avvenire, di volere governare loro. E gli domandorono le chiavi della città e il tesoro di quella. A’ quali Pagolo rispose che il tesoro era consumato, le chiavi ed egli erano in loro podestà, e gli pregava di questo solo, che fussero contenti, così come la sua signoria era cominciata e vivuta sanza sangue, così sanza sangue finisse. Fu dal conte Francesco condotto Pagolo e il figliuolo al Duca, i quali morirono, di poi, in prigione. La partita del Conte aveva lasciata libera Lucca dal tiranno e i Fiorentini dal timore delle genti sue, onde che quelli si preparorono alle difese e quelli altri ritornorono alle offese; e avevano eletto per capitano il conte di Urbino, il quale, strignendo forte la terra, constrinse di nuovo i Lucchesi a ricorrere al Duca; il quale, sotto il medesimo colore aveva mandato il Conte, mandò in loro aiuto Niccolò Piccino. A costui, venendo per entrare in Lucca, i nostri si feciono incontro in sul Serchio; e al passare di quello vennono alla zuffa, e vi furono rotti; e il Commissario con poche delle nostre genti si salvò a Pisa. Questa rotta contristò tutta la nostra città; e perché la impresa era stata fatta dallo universale, non sapendo i popolani contro a chi volgersi calunniavano chi l’aveva amministrata poi che e’ non potevono calunniare chi la aveva deliberata, e risucitorono i carichi dati a messer Rinaldo. Ma più che alcuno era lacero messer Giovanni Guicciardini, accusandolo che gli arebbe potuto, dopo la partita del conte Francesco, ultimare la guerra, ma che gli era stato corrotto con danari, e come ne aveva mandati a casa una soma, e allegavano chi gli aveva portati e chi ricevuti. E andorono tanto alto questi romori e queste accuse, che il Capitano del popolo, mosso da queste publiche voci, e da quelli della parte contraria spinto, lo citò. Comparse messer Giovanni tutto pieno di sdegno; donde i parenti suoi, per onore loro, operorono tanto che il Capitano abbandonò la impresa. I Lucchesi, dopo la vittoria, non solamente riebbero le loro terre, ma occuporono tutte quelle del contado di Pisa, eccetto Bientina, Calcinaia, Livorno e Librafatta, e se non fusse stata scoperta una congiura che si era fatta in Pisa, si perdeva anche quella città. I Fiorentini riordinorono le loro genti, e feciono loro capitano Micheletto, allievo di Sforza. Dall’altra parte il Duca seguitò la vittoria, e per potere con più forze affliggere i Fiorentini, fece che i Genovesi, Sanesi e signore di Piombino si collegassero alla difesa di Lucca, e che soldassero Niccolò Piccino per loro capitano, la qual cosa lo fece in tutto scoprire. Donde che i Viniziani e i Fiorentini rinnovorono la lega e la guerra si cominciò a fare aperta in Lombardia e in Toscana. E nell’una e nell’altra provincia seguirono, con varia fortuna, varie zuffe; tanto che, stracco ciascuno, si fece, di maggio, nel 1433, lo accordo infra le parti, per il quale i Fiorentini, Lucchesi e Sanesi, che avevano nella guerra occupate più castella l’uno all’altro, le lasciarono tutte, e ciascuno tornò nella possessione delle sua.

Mentre che questa guerra si travagliava, ribollivano tuttavia i maligni umori delle parti di dentro; e Cosimo de’ Medici, dopo la morte di Giovanni suo padre, con maggiore animo nelle cose publiche, e con maggiore studio e più liberalità con gli amici che non aveva fatto il padre, si governava; in modo che quelli che per la morte di Giovanni si erano rallegrati, vedendo quale era Cosimo si contristavano. Era Cosimo uomo prudentissimo, di grave e grata presenzia, tutto liberale, tutto umano; né mai tentò alcuna cosa contro alla Parte né contro allo stato, ma attendeva a benificare ciascuno e, con la liberalità sua, farsi partigiani assai cittadini. Di modo che lo esemplo suo accresceva carico a quelli che governavano, e lui giudicava, per questa via, o vivere in Firenze potente e securo quanto alcuno altro, o, venendosi per la ambizione degli avversarii allo straordinario, essere e con le armi e con i favori superiore. Grandi strumenti ad ordire la potenza sua furono Averardo de’ Medici e Puccio Pucci: di costoro, Averardo con l’audacia, Puccio con la prudenzia e sagacità, favori e grandezza gli sumministravano; ed era tanto stimato il consiglio e il iudicio di Puccio, e tanto per ciascuno cognosciuto, che la parte di Cosimo, non da lui, ma da Puccio era nominata. Da questa così divisa città fu fatta la impresa di Lucca, nella quale si accesono gli umori delle parti, non che si spegnessero. E avvenga che la parte di Cosimo fusse quella che l’avesse favorita, non di meno ne’ governi di essa erano mandati assai di quelli della parte avversa, come uomini più reputati nello stato: a che non potendo Averardo de’ Medici e gli altri rimediare, attendevono con ogni arte e industria a calunniarli; e se perdita alcuna nasceva, che ne nacquero molte, era, non la fortuna o la forza del nimico, ma la poca prudenza del commissario accusata. Questo fece aggravare i peccati di Astorre Gianni, questo fece sdegnare messer Rinaldo degli Albizzi e partirsi dalla sua commissione sanza licenza, questo medesimo fece richiedere dal Capitano del popolo messer Giovanni Guicciardini; da questo tutti gli altri carichi che a’ magistrati e a’ commissari si dettero nacquero, perché i veri si accrescevano, i non veri si fingevano, e i veri e i non veri da quel popolo, che ordinariamente gli odiava, erano creduti.

Queste così fatte cose e modi estraordinari di procedere erano ottimamente da Niccolò da Uzano e dagli altri capi della Parte cognosciuti, e molte volte avevano ragionato insieme de’ rimedi; e non ce gli trovavano, perché pareva loro il lasciare crescere la cosa pericoloso, e il volerla urtare difficile. E Niccolò da Uzano era il primo al quale non piacevano le vie straordinarie; onde che, vivendosi con la guerra fuora e con questi travagli dentro, Niccolò Barbadori, volendo disporre Niccolò da Uzano ad acconsentire alla rovina di Cosimo, lo andò a trovare a casa, dove tutto pensoso in uno suo studio dimorava, e lo confortò con quelle ragioni seppe addurre migliori a volere convenire con messer Rinaldo a cacciare Cosimo. Al quale Niccolò da Uzano rispose in questa sentenza: - E’ si farebbe per te, per la tua casa e per la nostra republica, che tu e gli altri che ti seguono in questa opinione avessero più tosto la barba d’ariento che d’oro, come si dice che hai tu, perché i loro consigli, procedendo da capo canuto e pieno di esperienza, sarebbero più savi e più utili a ciascheduno. E’ mi pare che coloro che pensono di cacciare Cosimo da Firenze abbino, prima che ogni cosa, a misurare le forze loro e quelle di Cosimo. Questa nostra parte voi l’avete battezzata la Parte de’ nobili, e la contraria quella della plebe: quando la verità correspondesse al nome, sarebbe in ogni accidente la vittoria dubia, e più tosto doverremmo temere noi che sperare, mossi dallo esemplo delle antiche nobilità di questa città, le quali dalla plebe sono state spente. Ma noi abbiamo molto più da temere, sendo la nostra parte smembrata e quella degli avversarii intera. La prima cosa, Neri di Gino e Nerone di Nigi, duoi de’ primi cittadini nostri, non si sono mai dichiarati in modo che si possa dire che sieno più amici nostri che loro. Sonci assai famiglie, anzi assai case, divise; perché molti, per invidia de’ frategli o de’ congiunti, disfavoriscono noi, e favoriscono loro. Io te ne voglio ricordare alcuno de’ più importanti: gli altri considererai tu per te medesimo. De’ figliuoli di messer Maso degli Albizzi, Luca, per invidia di messer Rinaldo, si è gittato dalla parte loro; in casa e Guicciardini, de’ figliuoli di messer Luigi, Piero è nimico a messer Giovanni, e favorisce gli avversarii nostri; Tommaso e Niccolò Soderini apertamente, per lo odio portono a Francesco loro zio, ci fanno contro. In modo che, se si considera bene quali sono loro e quali siamo noi, io non so perché più si merita di essere chiamata la parte nostra nobile che la loro. E se fusse perché loro sono seguitati da tutta la plebe, noi siamo per questo, in peggiore condizione, e loro in migliore; e in tanto che, se si viene alle armi o a’ partiti, noi non siamo per potere resistere. E se noi stiamo ancora nella dignità nostra, nasce dalla reputazione antica di questo stato, la quale si ha per cinquanta anni conservata; ma come e’ si venisse alla pruova, e che e’ si scoprisse la debolezza nostra, noi ce la perderemmo. E se tu dicessi che la giusta cagione che ci muove accrescerebbe a noi credito e a loro lo torrebbe, ti rispondo che questa giustizia conviene che sia intesa e creduta da altri come da noi; il che è tutto il contrario; perché la cagione che ci muove è tutta fondata in sul sospetto che non si faccia principe di questa città: se questo sospetto noi lo abbiamo, non lo hanno gli altri; anzi, che è peggio, accusono noi di quello che noi accusiamo lui. L’opere di Cosimo che ce lo fanno sospetto sono: perché gli serve de’ suoi danari ciascuno, e non solamente i privati ma il publico, e non solo i Fiorentini ma i condottieri; perché favorisce quello e quell’altro cittadino che ha bisogno de’ magistrati; perché e’ tira, con la benivolenzia che gli ha nello universale, questo e quell’altro suo amico a maggiori gradi di onori. Adunque converrebbe addurre le cagioni del cacciarlo, perché gli è piatoso, oficioso, liberale e amato da ciascuno. Dimmi un poco: quale legge è quella che proibisca o che biasimi e danni negli uomini la pietà, la liberalità, lo amore? E benché sieno modi tutti che tirino gli uomini volando al principato, non di meno e’ non sono creduti così, né noi siamo sufficienti a darli ad intendere, perché i modi nostri ci hanno tolta la fede, e la città, che naturalmente è partigiana e, per essere sempre vivuta in parte, corrotta, non può prestare gli orecchi a simili accuse. Ma poniamo che vi riuscisse il cacciarlo, che potrebbe, avendo una Signoria propizia riuscire facilmente: come potresti voi mai, intra tanti suoi amici che ci rimarrebbono e arderebbono del desiderio della tornata sua, obviare che non ci ritornasse? Questo sarebbe impossibile, perché mai, sendo tanti e avendo la benivolenzia universale, non ve ne potresti assicurare; e quanti più de’ primi suoi scoperti amici cacciasse tanti più nimici vi faresti in modo che dopo poco tempo e’ ci ritornerebbe; e ne aresti guadagnato questo, che voi lo aresti cacciato buono, e tornerebbeci cattivo; perché la natura sua sarebbe corrotta da quelli che lo revocassero, a’ quali sendo obligato non si potrebbe opporre. E se voi disegnassi di farlo morire, non mai per via de’ magistrati vi riuscirà, perché i danari suoi, gli animi vostri corruttibili, sempre lo salveranno. Ma poniamo che muoia, o cacciato non torni: io non veggo che acquisto ci facci dentro la nostra republica; perché, se la si libera da Cosimo, la si fa serva a messer Rinaldo; e io, per me, sono uno di quelli che desidero che niuno cittadino di potenza e di autorità superi l’altro; ma quando alcuno di questi duoi avesse a prevalere, io non so quale cagione mi facesse amare più messer Rinaldo che Cosimo. Né ti voglio dire altro, se non che Dio guardi questa città che alcuno suo cittadino ne diventi principe; ma quando pure i peccati nostri lo meritassero, la guardi di avere ad ubbidire a lui. Non volere dunque consigliare che si pigli uno partito che da ogni parte sia dannoso; né credere, accompagnato da pochi, potere opporti alla voglia di molti: perché tutti questi cittadini, parte per ignoranza, parte per malizia, sono a vendere questa republica apparecchiati; ed è in tanto la fortuna loro amica, ch’eglino hanno trovato il comperatore. Governati per tanto per il mio consiglio: attendi a vivere modestamente; e arai, quanto alla libertà, così a sospetto quelli della parte nostra, come quelli della avversa, e quando travaglio alcuno nasca, vivendo neutrale, sarai a ciascuno grato; e così gioverai a te, e non nocerai alla tua patria.

Queste parole raffrenorono alquanto lo animo del Barbadoro, in modo che le cose stettono quiete quanto durò la guerra di Lucca; ma seguita la pace, e con quella la morte di Niccolò da Uzano, rimase la città sanza guerra e sanza freno. Donde che sanza alcuno rispetto crebbono i malvagi umori; e messer Rinaldo, parendogli essere rimaso solo principe della Parte, non cessava di pregare e infestare tutti i cittadini i quali credeva potessero essere gonfalonieri, che si armassero a liberare la patria di quello uomo che di necessità, per la malignità di pochi e per la ignoranza di molti, la conduceva in servitù. Questi modi tenuti da messer Rinaldo, e quelli di coloro che favorivano la parte avversa, tenevano la città piena di sospetto; e qualunque volta si creava uno magistrato, si diceva publicamente quanti dell’una e quanti dell’altra parte vi sedevano; e nella tratta de’ Signori stava tutta la città sollevata. Ogni caso che veniva davanti a’ magistrati, ancora che minimo, si riduceva fra loro in gara; i secreti si publicavano; così il bene come il male si favoriva e disfavoriva; i buoni come i cattivi ugualmente erano lacerati; niuno magistrato faceva l’ufizio suo. Stando adunque Firenze in questa confusione, e messer Rinaldo in quella voglia di abbassare la potenza di Cosimo, e sapendo come Bernardo Guadagni poteva essere gonfaloniere, pagò le sue gravezze, acciò che il debito publico non gli togliesse quel grado. Venutosi di poi alla tratta de’ Signori, fece la fortuna, amica alle discordie nostre, che Bernardo fu tratto gonfalonieri per sedere il settembre e l’ottobre. Il quale messer Rinaldo andò subito a vicitare, e gli disse quanto la parte de’ nobili e qualunque desiderava bene vivere si era rallegrato per essere lui pervenuto a quella dignità; e che a lui si apparteneva operare in modo che non si fussero rallegrati invano. Mostrogli di poi i pericoli che nella disunione si correvono, e come non era altro rimedio alla unione, che spegnere Cosimo; perché solo quello, per i favori che da le immoderate sue ricchezze nascevano, gli teneva infermi; e che si era condotto tanto alto che, se e’ non vi si provedeva, ne diventerebbe principe; e come ad uno buono cittadino s’apparteneva rimediarvi, chiamare il popolo in Piazza, ripigliare lo stato, per rendere alla patria la sua libertà. Ricordogli che messer Salvestro de’ Medici potette ingiustamente frenare la grandezza de’ Guelfi, a’ quali, per il sangue dai loro antichi sparso, si apparteneva il governo; e che quello ch’egli fare contro a tanti ingiustamente potette, potrebbe bene fare esso, giustamente, contro ad uno solo. Confortollo a non temere, perché gli amici con le armi sarebbono presti per aiutarlo; e della plebe che lo adorava non tenessi conto, perché non trarrebbe Cosimo da lei altri favori che si traessi già messer Giorgio Scali; né delle sue ricchezze dubitasse, perché quando fia in podestà de’ Signori, le saranno loro, e conclusegli che questo fatto farebbe la republica secura e unita, e lui glorioso. Alle quali parole Bernardo rispose brevemente, come giudicava cosa necessaria fare quanto egli diceva; e perché il tempo era da spenderlo in operare, attendessi a prepararsi con le forze, per essere presto, persuaso che gli avesse i compagni. Preso che ebbe Bernardo il magistrato, disposti i compagni e convenuto con messer Rinaldo, citò Cosimo, il quale, ancora che ne fusse da molti amici sconfortato comparì, confidatosi più nella innocenzia sua che nella misericordia de’ Signori. Come Cosimo fu in Palagio, e sostenuto, messer Rinaldo con molti armati uscì di casa, e apresso a quello tutta la Parte, e ne vennono in Piazza, dove i Signori feciono chiamare il popolo, e creorono dugento uomini di balia per riformare lo stato della città. Nella quale balia, come prima si potette, si trattò della riforma, e della vita e della morte di Cosimo. Molti volevono che fusse mandato in esilio; molti morto; molti altri tacevano, o per compassione di lui o per paura di loro. I quali dispareri non lasciavano concludere alcuna cosa.

È nella torre del Palagio uno luogo, tanto grande quanto patisce lo spazio di quella, chiamato l’Alberghettino; nel quale fu rinchiuso Cosimo, e dato in guardia a Federigo Malavolti. Dal quale luogo sentendo Cosimo fare il parlamento, e il romore delle armi che in Piazza si faceva, e il sonare spesso a balia, stava con sospetto della sua vita; ma più ancora temeva che estraordinariamente i particulari nimici lo facessero morire. Per questo si asteneva dal cibo tanto che, in quattro giorni, non aveva voluto mangiare altro che un poco di pane. Della qual cosa accorgendosi Federigo, gli disse: - Tu dubiti, Cosimo di non essere avvelenato; e fai te morire di fame, e poco onore a me, credendo che io volessi tenere le mani ad una simile scelleratezza. Io non credo che tu abbia a perdere la vita: tanti amici hai in Palagio e fuori; ma quando pure avessi a perderla, vivi securo che piglieranno altri modi che usare me per ministro a tortela, perché io non voglio bruttarmi le mani nel sangue di alcuno e massime del tuo, che non mi offendesti mai. Sta’ per tanto di buona voglia prendi il cibo, e mantienti vivo agli amici e alla patria. E perché con maggiore fidanza possa farlo, io voglio delle cose tue medesime mangiare teco -. Queste parole tutto confortorono Cosimo; e con le lagrime agli occhi abbracciò e baciò Federigo, e con vive ed efficaci parole ringraziò quello di sì piatoso e amorevole officio, offerendo essernegli gratissimo, se mai dalla fortuna gliene fusse data occasione. Sendo adunque Cosimo alquanto riconfortato, e disputandosi il caso suo intra i cittadini, occorse che Federigo, per darli piacere, condusse a cena seco uno familiare del Gonfaloniere, chiamato il Farganaccio, uomo sollazzevole e faceto. E avendo quasi che cenato, Cosimo, che pensò valersi della venuta di costui, perché benissimo lo cognosceva, accennò Federigo che si partisse. Il quale, intendendo la cagione, finse di andare per cose che mancassero a fornire la cena; e lasciati quelli soli, Cosimo, dopo alquante amorevoli parole usate al Farganaccio, gli dette uno contrasegno, e gli impose che andasse allo Spedalingo di Santa Maria Nuova per mille cento ducati: cento ne prendesse per sé, e mille ne portasse al Gonfaloniere; e pregasse quello che, presa onesta occasione, gli venisse a parlare. Accettò costui la commissione: i denari furono pagati; donde Bernardo ne diventò più umano: e ne seguì che Cosimo fu confinato a Padova, contro alla voglia di messer Rinaldo, che lo voleva spegnere. Fu ancora confinato Averardo e molti della casa de’ Medici; e con quelli, Puccio e Giovanni Pucci. E per sbigottire quelli che erano male contenti dello esilio di Cosimo, dettono balia agli Otto di guardia e al Capitano del popolo. Dopo le quali deliberazioni, Cosimo, a’ dì 3 di ottobre, nel 1433, venne davanti a’ Signori, da’ quali gli fu denunziato il confine, confortandolo allo ubbidire, quando e’ non volesse che più aspramente contro a’ suoi beni e contro a lui si procedesse. Accettò Cosimo con vista allegra il confine, affermando che dovunque quella Signoria lo mandasse era per stare volentieri. Pregava bene che, poi gli aveva conservata la vita, gliene difendesse; perché sentiva essere in Piazza molti che desideravano il sangue suo. Offerse di poi, in qualunque luogo dove fusse, alla città, al popolo e a Loro Signorie sé e le sustanze sue. Fu da il Gonfalonieri confortato, e tanto ritenuto in Palagio che venisse la notte. Di poi lo condusse in casa sua, e fattolo cenare seco, da molti armati lo fece accompagnare a’ confini. Fu, dovunque passò, ricevuto Cosimo onorevolmente, e da’ Viniziani publicamente vicitato, e non come sbandito, ma come posto in supremo grado, onorato.

Rimasa Firenze vedova d’uno tanto cittadino e tanto universalmente amato, era ciascuno sbigottito; e parimente quelli che avevano vinto e quelli che erano vinti temevano. Donde che messer Rinaldo, dubitando del suo futuro male, per non mancare a sé e alla Parte, ragunati molti cittadini amici, disse a quelli che vedeva apparecchiata la rovina loro, per essersi lasciati vincere da’ prieghi, dalle lagrime e da’ danari de’ loro nimici. E non si accorgevono che poco di poi aranno a pregare e piagnere eglino, e che i loro prieghi non saranno uditi, e delle loro lagrime non troverranno chi abbia compassione: e de’ danari presi restituiranno il capitale e pagheranno l’usura con tormenti, morte ed esili. E che gli era molto meglio essersi stati, che avere lasciato Cosimo in vita e gli amici suoi in Firenze; perché gli uomini grandi o e’ non si hanno a toccare o, tocchi, a spegnere. Né ci vedeva altro rimedio che farsi forti nella città, acciò che, risentendosi e nimici, che si risentirieno presto, si potesse cacciarli con le armi, poi che con i modi civili non se ne erano potuti mandare. E che il rimedio era quello che molto tempo innanzi aveva ricordato: di riguadagnarsi i Grandi, rendendo e concedendo loro tutti gli onori della città, e farsi forte con questa parte, poi che i loro avversarii si erano fatti forti con la plebe. E come, per questo, la parte loro sarebbe più gagliarda, quanto in quella sarebbe più vita, più virtù, più animo e più credito; affermando che, se questo ultimo e vero rimedio non si pigliava, non vedeva con quale altro modo si potesse conservare uno stato infra tanti nimici, e cognosceva una propinqua rovina della parte loro e della città. A che Mariotto Baldovinetti, uno de’ ragunati, si oppose, mostrando la superbia de’ Grandi e la natura loro insopportabile; e che non era da ricorrere sotto una certa tirannide loro, per fuggire i dubi pericoli della plebe. Donde che messer Rinaldo, veduto il suo consiglio non essere udito, si dolfe della sua sventura e di quella della sua parte, imputando ogni cosa più a’ cieli, che volevono così, che alla ignoranza e cecità degli uomini. Standosi la cosa adunque in questa maniera, sanza fare alcuna necessaria provisione, fu trovata una lettera scritta da messer Agnolo Acciaiuoli a Cosimo, la quale gli mostrava la disposizione della città verso di lui, e lo confortava a fare che si movesse qualche guerra, e a farsi amico Neri di Gino; perché giudicava, come la città avesse bisogno di danari, non si troverebbe chi la servisse, e verrebbe la memoria sua a rinfrescarsi ne’ cittadini e il desiderio di farlo ritornare, e se Neri si smembrasse da messer Rinaldo, quella parte indebolirebbe tanto che la non sarebbe sufficiente a defendersi. Questa lettera, venuta nelle mani de’ magistrati, fu cagione che messer Agnolo fusse preso, collato e mandato in esilio. Né per tale esemplo si frenò in alcuna parte l’umore che favoriva Cosimo. Era di già girato quasi che l’anno dal dì che Cosimo era stato cacciato, e venendo il fine di agosto 1434, fu tratto gonfalonieri per i duoi mesi futuri Niccolò di Cocco, e con quello otto Signori tutti partigiani di Cosimo; di modo che tale Signoria spaventò messer Rinaldo e tutta la sua parte. E perché avanti che i Signori prendino il magistrato eglino stanno tre giorni privati, messer Rinaldo fu di nuovo con i capi della parte sua; e mostrò loro il certo e propinquo periculo e che il rimedio era pigliare le armi e fare che Donato Velluti, il quale allora sedeva gonfalonieri, ragunasse il popolo in Piazza, facesse nuova balia, privasse i nuovi Signori del magistrato, e se ne creasse de’ nuovi, a proposito dello stato, e si ardessero le borse e con nuovi squittini, si riempiessero di amici. Questo partito da molti era giudicato sicuro e necessario, da molti altri troppo violento e da tirarsi dreto troppo carico. E intra quelli a chi e’ dispiacque fu messer Palla Strozzi, il quale era uomo quieto, gentile e umano, e più tosto atto agli studi delle lettere che a frenare una parte e opporsi alle civili discordie. E però disse che i partiti o astuti o audaci paiono nel principio buoni, ma riescono poi nel trattargli difficili, e nel finirgli dannosi; e che credeva che il timore delle nuove guerre di fuori, sendo le genti del Duca in Romagna sopra i confini nostri, farebbe che i Signori penserebbero più a quelle che alle discordie di dentro; pure, quando si vedesse che volessero alterare (il che non potevono fare che non si intendesse) sempre si sarebbe a tempo a pigliare le armi ed esequire quanto paresse necessario per la salute comune; il che faccendosi per necessità, seguirebbe con meno ammirazione del popolo e meno carico loro. Fu per tanto concluso che si lasciassero entrare i nuovi Signori e che si vigilassero i loro andamenti, e quando si sentisse cosa alcuna contro alla Parte, ciascuno pigliasse l’armi e convenisse alla piazza di San Pulinari luogo propinquo al Palagio, donde potrebbero poi condursi dove paresse loro necessario.

Partiti con questa conclusione, i Signori nuovi entrarono in magistrato; e il Gonfaloniere, per darsi reputazione e per sbigottire quelli che disegnassero opporsegli, condannò Donato Velluti suo antecessore, alle carcere, come uomo che si fusse valuto de’ danari publici. Dopo questo, tentò i compagni per fare ritornare Cosimo; e trovatigli disposti, ne parlava con quelli che della parte de’ Medici giudicava capi: da’ quali sendo riscaldato, citò messer Rinaldo, Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadoro, come principali della parte avversa. Dopo la quale citazione, pensò messer Rinaldo che non fusse da ritardare più, e uscì fuora di casa con gran numero di armati: con il quale si congiunse subito Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadoro. Fra costoro erano di molti altri cittadini, e assai soldati che in Firenze sanza soldo si trovavano, e tutti si fermorono secondo la convenzione fatta, alla piazza di San Pulinari. Messer Palla Strozzi ancora che gli avesse ragunate assai genti, non uscì fuora, il simile fece messer Giovanni Guicciardini: donde che messer Rinaldo mandò a sollecitargli, e a riprendergli della loro tardità. Messer Giovanni rispose che faceva assai guerra alla parte nimica, se teneva, con lo starsi in casa, che Piero suo fratello non uscisse fuora a soccorrere il Palagio; messer Palla, dopo molte ambasciate fattegli, venne a San Pulinari a cavallo, con duoi a piè, e disarmato. Al quale messer Rinaldo si fece incontra, e forte lo riprese della sua negligenzia; e che il non convenire con gli altri nasceva o da poca fede o da poco animo; e l’uno e l’altro di questi carichi doveva fuggire uno uomo che volesse essere tenuto di quella sorte era tenuto egli. E se credeva, per non fare suo debito contro alla Parte, che gli nimici suoi, vincendo, gli perdonassero o la vita o lo esilio, se ne ingannava. E quanto si aspettava a lui, venendo alcuna cosa sinistra, ci arebbe questo contento, di non essere mancato innanzi al pericolo con il consiglio, e in sul pericolo con la forza; ma a lui e agli altri si raddoppierieno i dispiaceri, pensando di avere tradita la patria loro tre volte: l’una quando salvorono Cosimo; l’altra quando non presono i suoi consigli; la terza allora, di non la soccorrere con le armi. Alle quali parole messer Palla non rispose cosa che da’ circustanti fusse intesa; ma, mormorando, volse il cavallo, e tornossene a casa. I Signori, sentendo messer Rinaldo e la sua parte avere prese le armi, e vedendosi abbandonati, fatto serrare il Palagio, privi di consiglio, non sapevano che farsi. Ma soprastando messer Rinaldo a venire in Piazza, per aspettare quelle forze che non vennono, tolse a sé l’occasione del vincere, e dette animo a loro a provedersi, e a molti cittadini di andare a quelli e confortargli a volere usare termini che si posassero le armi. Andorono adunque alcuni meno sospetti, da parte de’ Signori, a messer Rinaldo; e dissono che la Signoria non sapeva la cagione perché questi moti si facessero, e che non aveva mai pensato di offenderlo; e se si era ragionato di Cosimo, non si era pensato a rimetterlo; e se questa era la cagione del sospetto, che gli assicurerebbero; e che fussino contenti venire in Palagio; e che sarebbono bene veduti e compiaciuti d’ogni loro domanda. Queste parole non feciono mutare di proposito messer Rinaldo; ma diceva volere assicurarsi con il fargli privati, e di poi a benificio di ciascuno si riordinasse la città. Ma sempre occorre che dove le autorità sono pari e i pareri sieno diversi, vi si risolve rade volte alcuna cosa in bene. Ridolfo Peruzzi, mosso dalle parole di quelli cittadini, disse che per lui non si cercava altro se non che Cosimo non tornasse, e avendo questo d’accordo, gli pareva assai vittoria; né voleva, per averla maggiore, riempiere la sua città di sangue; e però voleva ubbidire alla Signoria. E con le sue genti ne andò in Palagio, dove fu lietamente ricevuto. Il fermarsi adunque messer Rinaldo a San Pulinari, il poco animo di messer Palla e la partita di Ridolfo avevano tolto a messer Rinaldo la vittoria della impresa; ed erano cominciati gli animi de’ cittadini che lo seguivano a mancare di quella prima caldezza. A che si aggiunse l’autorità del Papa.

Trovavasi papa Eugenio in Firenze, stato cacciato da Roma da il popolo. Il quale, sentendo questi tumulti, e parendogli suo uficio il quietargli, mandò messer Giovanni Vitelleschi patriarca, amicissimo di messer Rinaldo, a pregarlo che venisse a lui; perché non gli mancherebbe, con la Signoria, né autorità né fede a farlo contento e securo, sanza sangue e danno de’ cittadini. Persuaso per tanto messer Rinaldo dallo amico, con tutti quegli che armati lo seguivano, ne andò a Santa Maria Novella, dove il Papa dimorava. Al quale Eugenio fece intendere la fede che i Signori gli avevano data, e rimesso in lui ogni differenza; e che si ordinerebbono le cose, quando e’ posasse l’armi, come a quello paresse. Messer Rinaldo, avendo veduto la freddezza di messer Palla e la leggerezza di Ridolfo Peruzzi, scarso di migliore partito, si rimisse nelle braccia sua, pensando pure che la autorità del Papa lo avesse a perservare. Onde che il Papa fece significare a Niccolò Barbadoro e agli altri che fuori lo aspettavano, che andassero a posare l’armi, perché messer Rinaldo rimaneva con il Pontefice per trattare lo accordo con i Signori. Alla quale voce ciascuno si risolvé e si disarmò.

I Signori, vedendo disarmati gli avversarii loro, attesono a praticare lo accordo per mezzo del Papa: e dall’altra parte mandorono secretamente nella montagna di Pistoia per fanterie; e quelle, con tutte le loro genti d’arme, feciono venire, di notte, in Firenze; e presi i luoghi forti della città, chiamorono il popolo in Piazza, e creorono nuova balia. La quale, come prima si ragunò, restituì Cosimo alla patria e gli altri che erano con quello stati confinati; e della parte nimica confinò messer Rinaldo degli Albizzi, Ridolfo Peruzzi, Niccolò Barbadori e messer Palla Strozzi, con molti altri cittadini; e in tanta quantità che poche terre in Italia rimasero, dove non ne fusse mandati in esilio, e molte fuora di Italia ne furono ripiene, tale che Firenze, per simile accidente, non solamente si privò di uomini da bene, ma di ricchezze e di industria. Il Papa, vedendo tanta rovina sopra di coloro i quali per i suoi prieghi avieno posate l’armi, ne restò malissimo contento; e con messer Rinaldo si dolfe della ingiuria fattagli sotto la sua fede; e lo confortò a pazienzia, e a sperare bene per la varietà della fortuna. Al quale messer Rinaldo rispose: - La poca fede che coloro che mi dovevono credere mi hanno prestata, e la troppa che io ho prestata a Voi, ha me e la mia parte rovinata, ma io più di me stesso che di alcuno mi dolgo, poi che io credetti che Voi, che eri stato cacciato della patria vostra, potessi tenere me nella mia. De’ giuochi della fortuna io ne ho assai buona esperienza; e come io ho poco confidato nelle prosperità, così le avversità meno mi offendono; e so che, quando le piacerà, la mi si potrà mostrare più lieta; ma quando mai non le piaccia, io stimerò sempre poco vivere in una città dove possino meno le leggi che gli uomini; perché quella patria è desiderabile nella quale le sustanze e gli amici si possono securamente godere, non quella dove ti possino essere quelle tolte facilmente, e gli amici, per paura di loro propri, nelle tue maggiori necessità ti abbandonono. E sempre agli uomini savi e buoni fu meno grave udire i mali della patria loro, che vederli; e cosa più gloriosa reputano essere uno onorevole ribello, che uno stiavo cittadino -. E partito dal Papa pieno di sdegno, seco medesimo spesso i suoi consigli e la freddezza degli amici reprendendo, se ne andò in esilio. Cosimo, dall’altra parte, avendo notizia della sua restituzione, tornò in Firenze. E rade volte occorse che uno cittadino, tornando trionfante d’una vittoria, fusse ricevuto dalla sua patria con tanto concorso di popolo e con tanta dimostrazione di benivolenzia, con quanta fu ricevuto egli tornando dallo esilio. E da ciascuno voluntariamente fu salutato benefattore del popolo e padre della patria.