Istoria delle guerre vandaliche/Libro primo/Capo XVII
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CAPO XVII.
I. Noi al buio tuttavia dell’avvenuto procedemmo a Decimo, ed allorchè ne stavamo lontani soli trentacinque stadj Belisario pose il campo in opportunissimo luogo, cingendolo di forte vallo a sicurezza dei fanti; raccolte poscia le truppe tenne loro questo discorso: «Giunti presso del nemico, valorosi commilitoni, dobbiamo apparecchiarci ai combattimenti ed alle fatiche. Separati qui dal navilio, privi all’intorno di amiche città o di altro scampo è uopo riporre nel proprio coraggio ogni nostra speranza; che se opereremo da forti ne seguirà la vittoria, perdendoci al contrario d’animo farà di noi ignominioso scempio il vandalico ferro. Ne seguirà la vittoria diceva, mirando soprattutto alla rettitudine della causa nostra (ridotti a pugnare con gente iniqua e bestiale per ritorle quanto a noi spetta), e all’odio e alla malevoglienza de’ barbari verso il tiranno loro, imperciocchè Iddio è sempre largo di aiuto a chi non si parte dalla giustizia, ed un guerriero disamorato del suo duce non tratterà mai coraggiosamente le armi. Noi di più avemmo sempre che fare collo Scita e col Persiano, i Vandali in vece dopo messo piede nell’Africa non videro altri nemici che l’ignudo Numida; e chi di voi ignorerà essere ogni maniera di disciplina per lo esercizio accresciuta, e dall’ozio fiaccata? Abbiamo del resto un campo ben trincerato ove depositare senza tema le salmerie e le armi soverchie, ed ove tornando non patiremo difetto di vittuaglia. Pregovi adunque tutti che vogliate, rimembrando la fortezza vostra ed i cari pegni lasciati in patria, accingervi con animo intrepido ai perigli di questa lotta».
II. Dopo l’esortazione il duce, invocato il divino aiuto e fidata sua moglie Antonina ed il campo alla fanteria, mosse con tutti i cavalieri, non persuaso di cimentarsi alla prima coll’intiero esercito, nè volendo piuttosto conoscere, scorrazzando e badaluccando, le forze nemiche per indi valersi degli uni e dell’altra. Fatti perciò inoltrare i capi delle schiere confederate, e’ seguivali passo passo cogli astieri, co’ pavesai, e colle altre sue guardie. Pervenuti quelli a Decimo al mirare tuttavia in su la terra i cadaveri degli uccisi, e tra essi i dodici colleghi capitanati da Giovanni, ed Ammata stesso con parecchi Vandali, e all’udire dai contadini le passate schermaglie, stettersi alquanto sopra pensiero ed incerti del partito da prendere. Ma intanto che andavano ponendo mente alle cose loro e volgendo su per que’ poggi lo sguardo all’intorno, videro levarsi da tramontana gran polverio, cui tenne ben presto dietro una foltissima turba di Vandali; alla quale comparsa mandano a fretta supplicando Belisario di aggiugnerli sendo in pochissima distanza il nemico. Partito il messo e fattosi tra loro consiglio intorno all’imminente gravissimo pericolo, gli uni opinavano doverlosi affrontare da soli, vi dissentivan gli altri non estimandosi a bastanza forti. In tale mezzo appressava Gilimero co’ barbari seguendo la via tra Belisario ed i Massageti che rotto avevano Gibamondo, ma gli spessi colli ond’è ingombra la pianura toglievagli per ancora dalla vista la strage de’ suoi. Avvicinatesi vie più le due fazioni cominciarono a scaramucciare insieme, bramando impadronirsi entrambe di un altissimo poggio e molto idoneo a fare giornata. Primi i Vandali a salirlo rispingonne i Romani che retrocedono fuggendo sino a tal luogo sette stadj lontano da Decimo, e custodito da Uliare, lancia di Belisario, con ottocento pavesai. Destossi allora in tutti la speranza di vederli rianimati dal duce, e condotti novamente alla pugna, ma pur questi in cambio, vinti dal timore, indietreggiarono cogli altri alla volta del campo.
III. Io qui non saprei dar ragione del perchè Gilimero concedendo al nemico di raccorre il fiato rinunziasse ad una certa vittoria; se non che dobbiamo tutto riferire a Dio, il quale volendoci gastigare ne toglie il consiglio e l’intelletto, acciò addiveniamo insufficienti ad opportune deliberazioni. Per verita s’egli in quel giorno medesimo posto si fosse ad incalzare il nemico, Belisario a mio avviso non avrebbegli in modo alcuno potuto resistere, e tutto per noi sarebbe andato col peggio, tanta era la moltitudine dei barbari, e tanto lo spavento degli animi romani; e forse bastava ch’e’ s’avviasse a Cartagine per trucidarvi le truppe di Giovanni, sorprendendole quando piene di sicurezza mettevano a bottino la campagna: avrebbe di più salvato la città e fatto suo in poco d’ora l’intiero nostro navilio, togliendoci così ad un tratto ogni speranza di vittoria e di ritorno alle patrie terre. Disceso in vece dal poggio con lentezza, e veduto al primo calcar della pianura il cadavere del fratello abbandonossi al dolore, e tutto diedesi a rendergli onorevolmente gli estremi uffizj; perduta di questa guisa la bellissima occasione di avvantaggiarci non potè mai più riaverla. Belisario per lo contrario mostratosi ai fuggitivi rimiseli tosto in ordinanza, e molto sgridolli di lor codardia; avute quindi precise notizie della morte di Ammata, del trionfo di Giovanni e del luogo della pugna, muove di volo ad incontrare i Vandali, che sopraffatti all’improvviso ed alla rinfusa, cederono all’impeto degli assalitori, molti riportandone morte, e il resto procacciandosi con disperata fuga modo allo scampo. La notte divise i combattenti, ed i barbari lasciata la via di Cartagine e le terre della Bizacene d’onde erano venuti, piegarono verso Bula1 dal lato della Numidia. Giovanni ed i Massageti furono a Decimo nella sera, e stanziaronvi, preso ognuno a narrare le sue avventure, sino alla dimane con noi.
Note
- ↑ Buta e Bada secondo altri testi. Luogo d’incerta situazione.