Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo XVI
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XVI.
Il pontefice Vigilio chiamato in Bizanzio. Arrendimento dei Piacentini ai Gotti. — Generosità del diacono Pelagio a pro dei Romani, e sua andata a Totila per implorare una tregua. — Sermoni d’ambedue.
I. Il romano Pontefice Vigilio chiamato dall’imperatore fecesi dalla Sicilia, dove già da pezza riparava, in Bizanzio. Di questi giorni i Romani assediati entro Piacenza posti negli estremi per diffalta di vittuaglia, e dalla fame costretti ad usare detestabili cibi, giunti sino a mangiarsi l’un l’altro, abbandonarono sè stessi colla città nelle mani de’ Gotti; qui passarono di tal modo le cose.
II. Nel mentre che pure in Roma, assediata da Totila, aveavi inopia somma d’annona un Pelagio, diacono di quel clero e non guari prima arrivato con grandi ricchezze da Bizanzio, ove lungamente soggiornando era addivenuto accettissimo a Giustiniano Augusto, in quelle miserie col donare a larga mano ai poveri la massima parte del proprio denaro appose ben degno cumulo al già conseguito splendore del nome suo presso tutti gli Italiani. Di guisa che i Romani sì crudelmente bersagliati dalla fame persuadongli di presentarsi a Totila per ottenere pochi giorni di tregua, dopo i quali, non avendo ricevuto soccorso alcuno da Bizanzio, farebbonlo padrone e di quelle mura e di se stessi. Pelagio accettò l’ambasceria ed il re gotto al venirgli innanzi, accoltolo onorevolmente e con bontà somma, fu il primo a favellare dicendo:
III. «È consuetudine pressochè di tutti i barbari il portar riverenza agli ambasciadori, ed io sino dalla mia prima età ho cercato mai sempre di coltivare ed aver cari personaggi al par di te virtuosi. Il rispetto poi o l’oltraggio verso di essi penso non consistere nella piacevolezza de’ modi, o nelle arroganti parole di chi li riceve, ma nel proferire candidamente il vero, o nell’usare alla loro presenza inutili e bugiardi parlari. Ed in fe mia che tratterai con molto onore colui, il quale potrà da te prendere commiato coll’aver udito la pretta verità. Per lo contrario verragli fatta pessima accoglienza quando egli sia costretto a partirsi colle orecchio piene di sole finzioni e menzogne. Tu, o Pelagio, avrai da noi ogni tua dimanda, fuori che tre; le quali ti giova passare con prudente silenzio a fine di non darci carico di malevolenza nel contraddirle, quando saresti tu solo in colpa del fallito successo di quest’ambasceria. Imperciocchè il comandare cose disconvenienti ai tempi suole riuscire al tutto vano. Ti ordino pertanto di non farmi ora parola intorno a qualunque egli siasi de’ Siciliani o alle romane mura, od ai servi campati presso di noi; imponendo giustizia ai Gotti di non largheggiare nullamente di perdono con uom di quelli, di non lasciare in piedi coteste mura, e di non restituire tampoco ai primitivi padroni i servi militanti sotto i nostri vessilli; e per togliere a miei detti ogni apparenza di sconsigliatezza, subito prendo con forti ragioni a dileguarne il sospetto. Fu già quell’isola ne’ tempi antichi doviziosissima d’ogni bene per l’abbondanza del danaro e de’ suoi cereali; di guisa che giugne tuttavia ad alimentare non solo i proprj abitatori, ma pur voi, o Romani, ne ritraete ogni anno vittuaria quanta ve ne può bisognare. I vostri antenati persuasi di ciò supplicarono sin da principio a Teuderico volesse porre nell’isola poco gottico presidio per tema non ne avessero danno la felicità e libertà loro. Così rimaneansi le cose quando il nemico, di numero e d’altro che non eguale a noi, v’ebbe afferrato. I costei abitatori al mirare tale armata di mare non parteciparonne ai Gotti l’arrivo, ma rinserratisi entro i luoghi forti risolverono anzichè respignerli, di spalancare a furia le porte e di ricevere a mani giunte i nostri avversarj, già da gran tempo, come io penso, a mo’ di perfidissimi schiavi andando in traccia d’opportuna occasione per sottrarsi turpemente dal vero sovrano, e passare all’obbedienza di nuovi e non conosciuti dominatori. Di là i nemici, quasi da ben munito castello fatto impeto, di leggieri posero il giogo a tutta l’Italia, e addivenuti padroni di Roma trasportaronvi dalla Sicilia granaglia in tanta copia da supplire all’universale diffalta durante l’intero anno che fu da noi assediata. Ma basti per rispetto ai Siciliani, i quali non avranno mai più dai Gotti perdonanza, l’enormità delle scelleraggini divertendo ogni compassione dai caduti in colpa. Gl’imperiali rinserrati entro le vostre mura mai sempre rifiutaronsi dal venire in campo, e dall’ordinarsi a battaglia contro di noi; con giornaliere frodi in cambio e rigiri tenendo a bada i Gotti, hanno in poter loro, fuor d’ogni credere, le cose nostre; è mestieri pertanto di ripararvi se vogliamo andar liberi da quinci in poi da simiglianti molestie. Imperocchè se tal fiata c’avvenne d’incappare ignorantemente in qualche fallo, il ricadervi non antiveggendone il pericolo, del che esser dovevamo già esperti, non si vorrà da noi attribuire a sinistra fortuna, ma ben di ragione alla nostra imprudenza. Lo smantellare inoltre Roma di mura sarà di vostro grandissimo giovamento, d’ora innanzi togliendosi così, ad ambedue le fazioni la tema d’un assedio, o di patire quivi rinchiuse carestia di vittuaglia; ma combatteranno esse in campo aperto, e voi sciolti da si gravi sciagure vi sommetterete ai vincitori. In quanto ai servi passati tra noi solo diremo che se nel descriverli ai nostri ruoli ebbero promessa di non venir mai più consegnati agli antichi padroni, facendone ora la restituzione, meritamente dichiarerebbero fallaci i nostri accordi con voi essendo in fe mia al tutto impossibile, avervi uomo che rompa la data fede alla più sciagurata delle umane classi, e perseveri costante nella osservanza della parola data ad altri comunque tu vuoi; egli in cambio porterà all’intorno appo tutti i contrattanti seco la perfidia, quasi indelebile marchio, dell’animo suo.» Ai detti regali Pelagio rispondea: «Dopo belle proteste, o valoroso monarca, della grandissima possanza che esercita sopra il cuor tuo e la mia persona ed il nome romano, largheggiasti meco di ben indegno trattamento. Essendo che, se mal non m’appongo, disonorasi l’amico e l’ambasciadore non solo percuotendolo nel volto o adoperando seco modi villani, ma dandogli eziandio commiato in guisa ch’e’ non possa riportare frutto alcuno dell’opera sua; fuor della romana consuetudine essendo lo assumere le funzioni di oratore al solo uopo di ricevere splendida accoglienza presso cui siamo diretti, ma si brama ad una tornane indietro con qualche vantaggio della mandata nostra. È quindi a miglior condizione chi turpemente accolto giugne alla fine ad ottenere parte comunque delle cose implorate, che non quanti dopo onoratissime parole vedonsi costretti a ricalcare la battuta via delusi dalle loro preconcepite speranze; dacchè se alcuna delle tue eccezioni formasse i nostri voti, ora mi guarderei al tutto di fartene dimanda. Ma come domin potrò io trattare di accordi con chi troncane sin dal bel principio il mezzo senza porgere orecchio alla difesa? Nè tacerò apparire abbastanza di già quanto sii per mostrarti benigno a’ miei concittadini, rei d’averti portato le armi contro, quando professi odio implacabile ai Siciliani ognora ligj de’ tuoi divisamenti. Il perchè messo da parte ogni pensiero di farmi a te supplichevole rivolgerò la mia ambasceria al Nume, appo cui hannosi in isdegno gli orgogliosi dispregiatori dei supplicanti.»