Istoria delle guerre gottiche/Libro primo/Capo XVII
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XVII.
Constantino e Bessa per volere di Belisario dalla Tuscia tornano a Roma. Posizione di Narnia. — Vitige presso della città. Ponte fortificato dal condottiere imperiale; fuga de’ suoi custodi.
I. Belisario alla nuova che tutte le gottiche truppe venivano ad attaccarlo principiò a titubare fortemente. Imperocchè da un lato il piccol numero de’ combattenti rimasti seco persuadevalo a non volersi più a lungo privare delle genti capitanate da Constantino e Bessa; dall’altro giudicava male a proposito lo sguernire di soldatesca i luoghi muniti della Tuscia, temendo non i Gotti occupasserli per quindi valersene a pregiudizio de’ Romani. Se non che ponderata bene la faccenda ordinò a que’ duci di subito presidiare accuratamente i più necessarii punti della regione, e di retrocedere poscia col resto dell’esercito a Roma. Constantino obbediente al comando presidiate Perugia e Spoleto rapido sen corre con tutte le altre schiere alla città. In quanto poi a Narnia, mentre che Bessa va disponendo con minore prontezza le cose, i Gotti calcata in molto numero quella via giungono ad occuparne il terreno suburbano, ed eran essi il vanguardo dell’esercito che dovea comparire tra poco. Il duce vedendoseli di contro uscì ad assalirli, e fuor d’ogni speranza costrettili a dare il tergo fecene grande strage; ma vedendosi ognor più alle prese con un sempre crescente lor numero tornò di nuovo entro le mura; dopo di che munitele di gente marcia, giusta il comando ricevuto, a Roma colla notizia che ben presto vi comparirebbero i nemici, avendovi tra amendue le prefate città il solo intervallo di trecento cinquanta stadj. Vitige lasciate da banda Perugia e Spoleto, fortissime città, estimando cosa disutile il perdervi tempo intorno, poneva ogni suo desiderio nel sorprendere in Roma Belisario prima ch’e’ si desse alla fuga. Avvertito similmente che il nemico possedea tuttavia Narnia deliberò non molestarla, consapevole quanto azzardoso e malagevole fosse il divenirne padrone; sendo la città edificata su d’elevato monte, alle cui radici scorre il fiume Nar, dal quale ebbe il nome. Due salite, l’una da oriente, l’altra da occaso mettono alle sue porte, e da quivi ti si appresentano gole pressochè impraticabili tra dirupati scogli; da quinci un ponte costruito sul fiume ti conduce alle mura. Questo ponte, opera di Cesare Augusto, è per verità degnissimo di ammirazione, superando l’altezza sua tutti gli altri archi sin qui da noi veduti.
II. Vitige adunque rinunziato ad un vano indugiare procede viaggiando con tutto l’esercito per l’agro sabino alla volta di Roma, ed erane ad un intervallo non maggiore di quattordici stadj quando pervenne al ponte del Tevere fortificato poco prima da Belisario con una torre munita di feritoie e di presidio. Non già perchè ai nemici fosse questo l’unico mezzo di valicare il fiume, avendovi in molti altri luoghi e navi da carico e ponti; ma perchè attendendo premurosamente dall’imperatore nuove truppe era nel proposito di tenerli a bada quanto più potea nel loro cammino: arrogi che i Romani avevano così agio di trasportare entro le porte una maggior copia di vittuaglia. Conciossiachè i barbari ove da qui respinti s’accingessero a rintracciare altro ponte non sarebbonvi riusciti, giusta il parer suo, in meno di venti giorni, ed anche più grande sembravagli dover essere la perdita del tempo s’eglino fossersi dati a condurre nel Tevere tutto il navilio occorrente all’esercito per valicarlo. Il duce imperiale di questa guisa argomentando aveavi messo custodi, e i Gotti pernottaronvi da presso in continuo moto e nella persuasione che alla dimane si espugnerebbe la torre: disertarono intrattanto al campo loro ventidue barbari soldati romani e cavalieri della turma comandata da Innocenzo. Destossi con ciò in Belisario il pensiero di appressare il suo campo al fiume per essere meglio in istato d’impedire il passo al nemico, e per far mostra di quanto gli imperiali confidassero nel proprio coraggio. Se non che la guarnigione lasciata, come scrivea, alla custodia del ponte sbigottita dall’immenso numero de’ Gotti e trepidante al gravissimo pericolo, abbandonato di notte tempo il luogo diedesi alla fuga, e pensando che sarebbero per lei chiuse le porte di Roma pigliò furtivamente la via della Campania, indottavi o dalla tema di essere gastigata dal condottier supremo, o dalla vergogna di comparire innanzi ai suoi commilitoni.