Istoria delle guerre gottiche/Libro primo/Capo X
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO X.
Apprestamenti di Belisario per entrare in Napoli armata mano — L’acquidotto ne fornisce agli imperiali il mezzo. — Eccidio nella vinta città. — Improvvisa morte di Pastore. Alterco fra Stefano ed Asclepiodoto. L’ultimo è fatto in brani dal popolo.
I. Il condottiero tentato invano di ridurre a miglior consiglio i Napoletani deliberò sorprendere la città; in sul primo annottare adunque, scelti da quattrocento militi e dato loro a duce Magno capo dei cavalieri, ed Enne cui obbedivano gl’Isauri, ammonìlli che stessersi ad attendere quietamente, ed armati di lorica, di pavese e di spada gli ordini suoi. Chiamato inoltre Bessa gl’ingiunge che non debba partire dal suo fianco, protestando aver uopo di lui per cose risguardanti sua vita. Avanzatasi quindi la notte comunicò a Magno ed Enne come si stesse l’affare, ed accennando al luogo dov’era il taglio dell’acquidotto incaricolli d’introdurre, forniti di lumi, per quella via i quattrocento in Napoli: diede similmente loro due trombettieri al doppio scopo di mettere cioè, valicate le mura, in costernazione il popolo con forti strombazzate, e di annunziare in pari tempo all’esercito il felice termine dell’impresa. Egli di più avea in pronto moltissime scale, fatte dapprima costruire, e mentre che gli altri nell’acquidotto camminavano alla città, disponea dal suo campo con Bessa e Fozio quanto era del caso, mandando in giro negli steccati ordine che tutti vegghiassero con le armi in mano, e fidava sua vita a un drappello di prodi. Se non che in questo mezzo la maggior parte di coloro i quali insidiosamente accostavansi alle mura, spaventata dal pericolo tornò indietro, sorda affatto alle ferventi esortazioni di Magno premurosissimo di riaverli seco; il perchè da ultimo egli medesimo esperimentato vano ogni suo dire pigliò di nuovo con essi la via del campo. Il condottiero accoltili con acerbe parole subito fe eletta di altri dugento, e comandò loro che si partissero con Magno. Fozio allora, agognando anch’egli la gloria di capitanare quella mano di gente, saltò nel canale, ma Belisario non gli consentì di proseguir oltre. Alla perfine quanti dapprima non aveano voluto sapere di pericolo, ora grandemente di vergogna arrossendo pel rimbrotto avutone e per l’esempio di Fozio, posersi da coraggiosi una seconda volta al cimento insieme co’ loro compagni. Partiti ch’e’ furono, Belisario, paventando non il presidio nemico di guardia sulla torre prossima all’acquidotto avesse alcun sentore della frode, trasferitosi da quella banda ingiunse a Bessa di pigliare a discorrere con esso in gottica lingua, acciocchè non pervenissegli alle orecchie il menomo fragore delle armi. E costui ad altissima voce esortavalo che si arrendesse al suo capitano, il quale avrebbelo guiderdonato con gran copia di beni. Ma i Gotti per ogni risposta proferivano scherni e villanie contro il duce e l’imperatore stesso. Di tal modo Belisario e Bessa da quivi agevolavano il prospero successo alle tramate insidie.
II. L’acquidotto era costruito di guisa che proseguiva, coperto da alta volta di mattoni cotti, non sino alle mura di Napoli solamente, ma lungo tratto eziandio per entro esse, mercè di che i guerrieri condotti da Magno ed Enne dopo averle oltrepassate più non sapevano dove si fossero, nè per qual parte uscirne. Come Dio volle nondimeno giunti i primi in luogo ove il canale era scoperto, ai loro sguardi appresentossi una pressochè abbandonata casipola, in cui riparava tal poverissima e sola donnicciuola, ed un ulivo nato e fatto albero sopra l’acquidotto. Appena egli ebbero veduto il cielo e conosciuto essere quivi il centro di Napoli, divisarono saltar fuori; ma privi di ogni mezzo per levarsi di là, massime armati, ergendosi ai fianchi loro alte mura e ben malagevoli da salire, stavano tutti nella maggior incertezza, e gli uni addosso agli altri, essendo strettissimo il luogo e sorvenendo continuamente folla di nuovi seguaci; quando tale di essi pensò cimentarsi alla salita. Il perchè deposte incontanente le armi o colle mani e co’ piedi inerpicandosi penetrò nella casipola, ed al rinvenirvi la padrona minacciolla di morte se non si tacesse, e colei caduta in gravissimo timore ammutolì. Il milite allora legata al tronco dell’ulivo una forte coreggia, ne mandò giù nell’acquidotto l’altro capo ai compagni, i quali attaccandovisi ad uno ad uno con molta fatica si trassero fuori di là1. Rimaneva ancora la quarta parte della notte quando i Romani accostatisi di soppiatto alle mura uccidonvi le malaccorte sentinelle di guardia sopra due torri volte a settentrione, ed a molto breve distanza da quivi intrattenevasi appunto il duce supremo in compagnia di Bessa e Fozio ad aspettare con gradissimo batticuore la fine dell’impresa. Quelli dato nelle trombe invitaronli ad attaccare le mura, se non che fattevi dal condottiero appoggiare le scale e comandato alla truppa di montarle si vede che neppur delle tante una raggiugnevane la sommità, colpa e difetto dei lavoratori, i quali per tenere occultissima l’opera loro non aveano osato di prendere le giuste misure. Laonde formatone all’istante d’ogni due una, la truppa le ascese e giunse a dominare que’ merli. Da questa parte non altrimenti procedevano le cose agli imperiali.
III. Il muro intanto volto al mare e guardato anzi dai Giudei che dai barbari era inaccessibile alle truppe, non potendovisi nè accostare le scale, nè approssimarlo. Imperciocchè tal gente consapevole di essere in odio ai Romani per averli impediti dal conquistare la città senza spargimento di sangue, venuti in disperazione fortemente combattevano sebbene entrato di già il nemico, e resistevano fuor d’ogni credenza all’impeto degli oppugnatori: collo spuntar del giorno tuttavia assaliti coraggiosamente da que’ dalle scale, e saettati poscia da tergo dalle truppe di Magno si volsero in fuga. Vinta dunque Napoli di forza con le armi, e spalancatesi le porte tutto il romano esercito ne valicò i limitari. La soldatesca in pari tempo attelata fuori di quelle verso oriente fecevi il suo ingresso, per mancanza di scale, ardendone le imposte senza opposizione, imperciocchè i custodi sottrattisi di là a furia lasciato aveano tal parte di muro affatto in balìa del nemico. I vincitori tutti ribollenti di sdegno, e massime quelli che nell’assedio giuntato aveano il fratello o il parente, contaminarono di enorme strage l’entrata loro, uccidendo non pietosi al sesso od all’età quanti incontravan per via. Penetrati quindi nelle case metteanvi a sacco donne, fanciulli ed ogni maniera di suppellettile; infierendo più che tutti i Massageti, i quali profanatori sin dei tempj macchiaronli col sangue di molti vinti speranzosi là entro di salvezza. Tale imperversarono le cose finchè Belisario trascorrendo per ogni dove non ebbe represso il furore de’ suoi, e raccoltili a parlamento diceva loro: «Mal noi corrispondiamo al benefizio ricevuto dal Nume, di essere ciò è fatti degni della vittoria e d’un sì glorioso trionfo, riducendo in poter nostro una città sino ad ora inespugnabile, coll’appalesarci immeritevoli di cotanta grazia; quando per lo contrario colla molta umanità nostra è mestieri diamo pruova che a buon diritto ella fu da noi soggiogata. Non vogliate adunque portare odio perpetuo ai Napoletani, nè dilungarlo oltre i limiti della guerra; giusto essendo che nessun vincitore abbia più da infierire contro i vinti, imperciocchè morendo costoro non uccidiamo più nemici, ma gente a noi sommessa. Ponete quindi un termine ai vostri gravissimi oltraggi, nè assecondate l’ira che v’anima in guisa da permetterle ogni eccesso, turpe essendo che i vincitori dei nemici lascinsi poi vincere da lei. Sia vostro, in premio del mostrato guerresco valore, tutto il conquistato danaro, ma rendansi cui spettano e donne e fanciulli; appareranno con ciò i vinti di quali amici venissero privi un tempo dalla imprudenza loro.» Dopo questa esortazione il duce restituì mogli e prole, e tutti gli altri prigionieri, senza che neppur uno dei tanti patisse oltraggio, ai Napoletani, riconciliando insiememente gli animi delle truppe con quella malaugurata popolazione. Costei adunque nel correr d’un giorno perdè la propria libertà, ricuperolla, e tornò al possesso della parte maggiore di sue ricchezze. Imperciocchè quanti erano forniti d’oro o di altre suppellettili preziose aveanle di buon’ora nascoste entro la terra, e così poterono all’insaputa de’ nemici riacquistare ad un tratto e case ed averi: di tal modo ebbe fine l’assedio prolungato oltre i giorni venti. Belisario serbò eziandio sani e salvi non meno di ottocento Gotti caduti in sue mani, ed ebbeli onninamente a governo come i proprj soldati.
IV. Pastore alla cui instigazione, come testè narravamo, la plebe erasi indotta ad impazzare, veduta la patria in mano del nemico fu colpito da apoplessia, ed in brev’ora si moriva del male, avvegnacchè per lo innanzi sanissimo e non molestato da alcuno. Il suo compagno poi di quella mena, Asclepiodoto, unitamente agli ottimati superstiti, fecesi da Belisario, dove Stefano pigliò a svillaneggiarlo di questo modo: «Osserva, o iniquissimo tra mortali, quante sciagure hai tu recate alla patria col tuo favoreggiare i Gotti a danno e tradimento della pubblica nostra salvezza. Ed in fe mia che se la vittoria si fosse dichiarata pe’ barbari, tu ne avresti ottenuto il guiderdone, e ti saresti fatto innanzi ad incolparci, quantunque seguaci di migliore consiglio, siccome rei di patteggiate insidie co’ Romani. Ora nondimeno, venuta Napoli sotto l’imperiale dominio e salvati noi tutti dalla magnanimità di questo duce, tu hai l’impudenza di presentarti a lui, quasi scevro da ogni macchia verso i cittadini e le cesaree truppe!» Con queste parole Stefano, forte lagrimando i pubblici mali, sfogò la sua bile contro Asclepiodoto, ma costui rispondeagli: «Non poni mente, o uomo illustre, che ci tributi lode con quel tuo rimprocciare la nostra benevolenza ai Gotti, imperocchè nessuno all’infuori d’un animo costante prenderà mai a parteggiare co’ suoi pericolanti padroni. Nè v’ha dubbio che i vincitori mi troveranno mai sempre fermo nel difendere la repubblica loro come sperimentarommi già nemico, sendo incontrastabile che un animo di sua natura fedele non cangia col variare della fortuna. Ma tu, ove le nostre vicende seguito avessero un differente corso, all’accostarsi di gente quantunque ne avresti di subito accolto le offerte condizioni, non potendo a meno chi ebbe in sorte dalla natura l’incostanza di rompere al primo timore la fede giurata ben anche ai suoi più cordiali amici.» Così egli; se non che in partendosi di là i Napoletani, vedutolo, accorsero in frotta, e chiamandolo autore di tutti i presenti lor mali, non cessarono dagli oltraggi che quando l’ebbero morto e fattone in brani il corpo. Entrati quindi in casa Pastore e cominciato a cercarlo, i servi attestavanne la morte; non datasi fede alla testimonianza loro, e’ mostraronne il cadavere, e queglino pigliatolo andarono ad appiccarlo per la gola nel borgo. Pregato di poi Belisario che dimenticasse quanto e’ operarono nel bollore dello sdegno, ebberne grazia e partironsi. Di tal modo i Napoletani uscirono de’ sofferti guai.
Note
- ↑ Nell’anno dell’era volgare 1442, sotto il pontificato di papa Eugenio, Piccinino eletto gonfaloniere della chiesa romana e mandato dal pontefice alla conquista del regno di Napoli riseppe da due muratori napoletani fatti prigionieri che si sarebbe potuto agevolmente impadronire della città per mezzo di questo medesimo acquidotto, ed ebbene di più la maniera d’introdurvisi. Laonde profittando del consiglio ordinò a suoi soldati di calarvi entro; questi, trascorsolo pervennero a sorprendere l’una di quelle porte, e così aprirono l’adito al resto delle truppe di farvi liberamente il loro ingresso.