Inni omerici/A Dioniso/Introduzione
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Il Baumeister pensò di poter stabilire, almeno da un lato, la cronologia di quest’inno, perché Diòniso vi appare in forma di efebo, e la concezione di Diòniso giovine e sbarbato entra nell’arte solamente con Prassitele (350 circa a. C.).
Ma si sa bene che, anche prima di Prassitele, i Numi quando ne avevano voglia, assumevano qualsiasi forma. Cosí fa, per esempio, Ermete nell’Odissea (X, 277 sg).
Ermete, che simile in tutto pareva
a giovinetto che imbruna la guancia, negli anni più cari.
Cosí fa qui Diòniso; e lo dice esplicitamente 1.
Che però l’inno non sia tanto antico, si raccoglie sicuramente dalla lingua. E nessuno, leggendolo, potrà non pensare al famoso monumento coragico di Lisicrate su la Via dei Tripodi, in Atene, e alla non meno famosa coppa di Exechias, nel quale e nella quale era appunto rappresentata la metamorfosi dei pirati tirreni.
Ed entrambi questi monumenti si possono datare con qualche sicurezza. Ma dovremo credere che il poeta abbia attinto ispirazione a quelli, o che, piuttosto, li abbia ispirati?
Considerata sotto questo specialissimo aspetto, dei suoi rapporti con le arti del disegno, la poesia greca si divide in due periodi: I. Il classico, in cui la poesia suggerisce soggetti e ispira le opere dell’arte figurata. II. L’alessandrino, in cui la poesia deriva dalle arti figurate.
A proposito del nostro inno, non è qui possibile giudizio, altro che soggettivo. E, soggettivamente giudicando, io direi che dovesse appartenere al primo periodo: i tratti caratteristici che in opere dell’età alessandrina rendono quasi tangibile la derivazione da opere dell’arte figurata, qui non riesco a vederli 2.
E, nel complesso, mi sembra che, per la schiettezza della linea e la vivacità della rappresentazione, questa sia una gemma, piccola, ma non torbida, della poesia greca. «Legga — dice il Baumeister, che anche qui dimostra il solito buon gusto — le corrispondenti descrizioni di Nonno e di Ovidio, chi vuol vedere quale abisso vaneggi fra l’antica semplicità, e l’esagerazione e l’opacità degli epigoni».
Non saprei però tacere che uno dei più accreditati «specialisti d’Inni omerici», vale a dire il Gemoll, non è di questa opinione, e assicura che il valore dell’inno è assai limitato.
E i suoi argomenti principali sono i seguenti:
I. Che dal verso 4 al verso 10 ricorrono sette proposizioni collegate dalla semplice copula δέ: che corrisponderebbe all'italiano e. E si capisce bene che per un filologo autentico i gangheri devono essere più grossi dell’uscio, e le preposizioni e congiunzioni più massicce dei sostantivi, dei verbi e degli aggettivi: ossia, la parte razionale deve prevalere su la parte puramente e semplicemente intuitiva. Se no, non c’è solidità, non c’è serietà: se no, lo stile appare, per definizione, trascurato (nachlässig).
II. Che il poeta non ci dice con precisione dove si svolga la scena, mentre Ovidio, Aglaostene, Apollodoro e Igino, ce lo dicono.
Bravi ragazzi, davvero, tutti e quattro. E immaginate che altro fàscino avrebbe acquistato la scena, se il poeta avesse trovato modo d’incastrare in un esametro i gradi della latitudine e della longitudine in cui si svolgeva.
Note
- ↑ Nei rispettivi testi, la somiglianza si estende sino alle parole, in parte identiche. Inno, 2-3, ώς ὲφάνη νηνίῃ ὰνδρὶ ὲοικὼς προθήβῃ. Odissea, X, 277: ’Ερμείας - χρυσόρραπις ὰντεβόλησεν... νεηνίῃ ἀνδρὶ ὲοικὠς - πρῶτον ὑπηνήτῃ.
- ↑ Vedi, in quella collezione, la mia prefazione e le note a Teocrito, specie quelle agli idilli XXII e XXV.